La sera del 2 agosto del 2015 verso le 21.30 l’ho persa nella via centrale di Lignano Sabbiadoro all’altezza della farmacia, quella accanto alla sala giochi, di fronte alla profumeria. Per più di cinque minuti, penso, ma meno di dieci, non posso giurarlo. Forse per un anno o per sempre. Forse non è mai successo e l’ho solo sognato, un incubo, l’incubo di ogni genitore. No, so che è successo. Lo so io, lo sa lei, lo sa la sorella maggiore che era accanto a me, accanto a lei e che è rimasta ferma nel mio campo visivo mentre perdevo lei ed è rimasta ferma mentre la guardavo, sgomenta, pensando che non mi sarebbe mai bastata, mai più senza di lei e me ne vergognavo nel momento stesso in cui lo pensavo. Ho guardato a terra cercando i sandali con i brillantini mentre la chiamavo tra la folla, maledicendo quel posto di merda pieno di turisti di merda con scarpe di merda e deodoranti dozzinali- non vi si macchia la pelle? –  ricoperti di citronella come se bastasse in quei posti dove la toponomastica non lascia scampo e i paesi accanto si chiamano Gorgo e Paludo, come se bastasse a tener lontane le zanzare che se ne fottono della citronella, anzi, secondo me si eccitano pure, merde di zanzare che comunque sono a casa loro, lì. Ho guardato in alto, se qualcuno, un signore perbene- come suo padre– magari l’aveva vista spaventata e sola in mezzo a quel mare di persone e le ha chiesto di salire sulle spalle per vedere se mi trovava dall’alto, ho guardato in alto mentre la chiamavo a voce alta usando il suo soprannome perché quello non ce l’ha nessuno e ho guardato sua sorella e le ho chiesto di aiutarmi –perché ero disperata e sapevo che non mi sarebbe mai più bastata la vita, la mia o la sua o la nostra, senza di lei– perché così l’avremmo ritrovata di sicuro. Ho visto il suo muso sdentato e il gelato alla fragola che colava tutto lungo il cono e sul polso e lungo il braccio come il segno della carezza che le faccio con l’indice per coccolarla davanti alla televisione, sul divano. I suoi sandali con i brillantini, i pantaloncini che non sapevo, non ricordavo avesse indossato quelli dopo la doccia, non avrei saputo descriverla alla Polizia se non l’avessi ritrovata. L’ho stretta e lei ha vomitato. Perché quando si agita lei vomita. Abbiamo buttato il cono, mi ha chiesto scusa se lo stava sprecando, le ho detto che non me ne fotteva niente del cono e poi ho ripetuto sonoquisonoquisonoquisonoquisonoqui e quando siamo tornate a casa in bagno ho vomitato e mi sono guardata allo specchio, ero ancora intera, e mi sono sentita una sopravvissuta. Odio Lignano Sabbiadoro.

Campionessa del Mondo di palloncini scoppiati nel giro di pochi minuti dal gonfiaggio.

“No, guarda, ti assicuro che tua figlia è tutto tranne che timida”

“Come scusa? Sono tre anni che arriviamo davanti alla porta del circolo e fa la bocca storta, tre anni che le viene mal di pancia e le devo dare un mio braccialetto come amuleto che si prende il mal di pancia al posto suo così può fare lezione.”

“Vabbè, mica c’entra con la timidezza. Quella è ansia. Ti assicuro che Benny al circolo la conoscono tutti e fa battute, è spiritosa, cambia il nome alle persone, è divertente.”

“Come cambia il nome alle persone?”

“Si, vedi il maestro Biagio lì? Lei lo chiama Bigio, va lì e gli dice ciao Bigio e allora tutti abbiamo iniziato a chiamarlo Bigio. No, guarda, Benny non è per niente timida.”

“E’ un evidenziatore, signora. Benny, posso chiamarla Benny? So che a casa la chiamate Pepe ma a scuola la chiamiamo tutti Benny, le dà fastidio?”

“No, la chiami pure Benny, io le chiederò di Pepe e lei mi racconterà di Benny, facciamo così?”

“Si, mi piace, facciamo così. Ecco, cosa le stavo dicendo…”

“L’evidenziatore.”

“Giusto. Benny è come se fosse un evidenziatore, signora. Ha la capacità- quasi un dono direi- di far risaltare le qualità di chi ha accanto, come se le rendesse fluorescenti. È senza dubbio una bambina da righe, come dico io, cioè i quadretti, la matematica, ecco, non sono tanto nelle sue corde e si vede già. Scrive benissimo.”

“Non mi fa leggere nulla”

“Peccato. Come mai?”

“Non vuole. Io chiedo, lei dice di no. Allora non insisto.”

“Fa bene. Si fidi, ha pensieri profondissimi che esprime con una proprietà di linguaggio sorprendente. La ritrova questa Benny nella sua Pepe?”

“In parte. Pepe è cocciuta, a volte prepotente. Piange moltissimo e con una velocità incredibile, noi diciamo che ha le lacrime in tasca perché è impossibile che le produca in così poco tempo, davvero, scoppia in lacrime all’improvviso. Dice cose tremende alla sorella. La prima risposta è sempre no, poi sparisce, ci ripensa e torna con un si, con una proposta. Non deve mai pensare di fare qualcosa solo perché un altro le ha detto di farlo, l’idea deve essere sua. Tutto questo lo fa, sicuramente, in modo profondo, lirico e con grande proprietà di linguaggio.”

“A scuola il comportamento è ottimo. Non ho indicazioni di conflitti con nessuno dei compagni, anzi, mi creda se le dico che Benny è davvero molto molto amata e anche in qualche misura contesa.”

“Contesa”.

“Si.”

“Maestra, lei sa cosa vuol dire Benedetta?”

“Nel senso religioso?”

“No, non stiamo a scomodare nessuno. Nel senso letterario. Vuol dire che se ne parla bene, colei di cui si dice bene.”

“Alla fine, io la chiamo Benny, lei la chiama Pepe e tutti parliamo di Benedetta”

“Si, qualcosa del genere, maestra. Per i quadretti…”

“Si”

“Ecco, per i quadretti, riusciamo a farle pensare, sentire, credere che possa dare una possibilità alla matematica? Glielo chiedo perché vede per me è andata proprio così, come dice lei, delle righe e dei quadretti e in realtà io ho sempre rifiutato di riuscire anche in altro.”

“Si, signora, possiamo lavorare in quel senso. Però, se permette, ecco, se mi permette io penso che chiunque possa essere bravo in matematica, magari non bravissimo ma bravo sì. Invece non tutti possono scrivere quel che scrive Benny, come lo scrive Benny. Tenetelo presente, se potete”

“Lo faremo. Grazie, grazie per questo colloquio. Lei, ogni volta, mi fa venire voglia di tornare a scuola e io a scuola ci andavo con il mal di pancia. Mi dicevano che ero timida, sa. Invece era ansia, solo che non l’avevano ancora inventata.”

I capelli lunghissimi. E non si discute.

L’altalena attaccata al ramo di un ciliegio è la condizione necessaria per cadere. Quando si allungano le gambe in avanti e si sale si sente il vuoto nella pancia e si chiudono gli occhi, si può essere ovunque, basta volerlo.

Un chirurgo dietro la sua testa, io davanti al suo viso, la sua mano sotto il mento, la mia mano sulla sua, l’altra che le sfiora la guancia screpolata che potrebbe addormentarsi se solo non le stessero cucendo un buco nel cranio. Suo padre che ci guarda e aspetta, sa che la più coraggiosa è lei, aspetta di portarci a casa, di portarmi a casa, dove non dormirò per controllare che non stia male, che non ci sia nulla delle cose che indicano anche il trauma cranico, dove finalmente crollerò per la paura arrabbiandomi con qualcuno o qualcosa, che è il solo modo che conosco per cedere e lui è il solo che lo sa. Le medicazioni con il betadine, le macchie sulle federe, la mia cicatrice sulla fronte che prude a distanza di trent’anni, giocavo con mia cugina, mi ricordo una colata di sangue davanti agli occhi, sulle lenti degli occhiali, un chirurgo e la mano di mio padre, calda e poi basta. Niente garetta di fine anno a nuoto, no, la saltiamo. E togliamo quelle pietre da sotto l’altalena, solo un coglione può lasciarle lì così. Non mi importa chi è stato, se lui o mio padre o mio cognato. Un coglione qualsiasi, che è andata bene così, poteva andare peggio.

Per tutta la vita guarderà le altalene sentendo la mia voce che le ripete di fare attenzione. Forse le pruderà la testa, in un punto che non capirà e che io so dov’è e arriverà il giorno in cui le sembrerà di sentire ancora il vuoto nella pancia, a pensare alla mia voce.

Un senso del ritmo innato che condivide solo con suo padre.

Il cappellano dell’ospedale me lo sono trovato davanti al letto, sonnecchiavo smaltendo il dolore, soprattutto alla mano, la farfallina nella vena della mano destra per le flebo, quella è stata più dolorosa di tutto, della puntura nella schiena o del frugare nella pancia. Sembra strano che con un taglio sull’addome quel che fa davvero male sia la mano.

Ho aperto gli occhi sentendomi osservata e lui era lì.

“Cos’ha dato al mondo, signora? Maschio o femmina?”

“Una femmina. Benedetta.”

“E che sia benedetta anche dal Signore allora. Auguri, pregherò per voi.”

Nella pancia era la Biba da quando abbiamo scoperto che si, era una bimba, la seconda, si femmina evviva, perché io un maschio non lo volevo, non lo volevo proprio e quando il dottore mi ha detto che tra le gambe si vedeva l’inconfondibile chicco di caffè ricordo di aver esultato sul lettino. Tornate a casa, dopo la nascita, è stata da subito Tuga, perché aveva il collo molle e rugoso di una tartaruga solo che sua sorella maggiore non lo sapeva dire, cioè lo sapeva dire solo che lo diceva così. Tuga. E noi capivamo. Dopo pochissimi mesi, è diventata Pepe. Perché sua sorella la chiamava Pepedetta e poi Pepe. Allora è rimasta Pepe, per tutti e per sempre.

“Speriamo sia benedetta anche tra le persone comuni, senza scomodare troppo lassù, comunque. Grazie.”

Al terzo giorno di vita è diventata gialla. Anche lei, come la sorella due anni prima. Mi ha spiegato una mia amica biologa che è dovuto ai gruppi sanguigni, il mio e quello del padre. Qualunque figlio nostro avrebbe avuto l’ittero, non ho capito perché ma quando me l’ha detto mi è parso che fosse molto brava e molto competente e so di aver pensato che cazzo però a sapere così le cose. Io sono 0 RH+, il padre è AB RH +. La grande è B RH+, Pepe è A RH+. Non avrebbero potuto essere 0, perché è recessivo. Ti pareva, mi sono detta.

È stata mandata in lampada. Andavo al nido a richiesta, le ostetriche una volta mi hanno chiamata dopo solo mezz’ora dall’ultima poppata, nonostante la doppia pesata ci avesse indicato che aveva mangiato abbondantemente, piangeva disperata senza possibilità di essere calmata. Quando l’ho presa ha smesso, ha aperto gli occhi, mi ha fissata o forse no, pare che non vedano a quell’età, non so a me è parso che mi fissasse, sicuramente la guardavo io come si guarda una novità e niente. Siamo state lì così, sulla panchina del nido, con la vestaglia che tirava sul seno dolorante, la mia mano sulla sua guancia, la sua mano sotto il mento imbronciato, finché non si è addormentata. Quella notte hanno portato in elicottero dalla Calabria un neonato con una gravissima patologia cerebrale, ho ascoltato tutte le telefonate mentre allattavo, prima che la rimettessero in lampada, non avrei voluto sapere cosa stava capitando al piano di sopra. Quando sono tornata nella mia stanza la ragazza del letto accanto ha rotto le acque, è scoppiato un temporale estivo, ho mangiato un biscotto dal pacco che mi aveva portato mia zia, mi sono sdraiata senza sforzare gli addominali inservibili, mi sono girata sul fianco e ho pensato a una madre calabrese che non sapevo chi fosse, a quel che si dà al mondo e a quello che dal mondo si prende, compresi i calci in culo. E mi sono sentita una sopravvissuta.

Divoratrice di frutta.

Battesimo fatto. Prima Comunione pure. Scuola cattolica anche. Basta, ci fermiamo qui, è come per il gruppo sanguigno, ognuno mette quello che ha, tanto i nostri vengono tutti fuori gialli. Il resto sarà una scelta sua se vorrà.

A catechismo le avevano chiesto di portare una bottiglietta da mezzo litro di acqua, vuota. L’hanno riempita di acqua benedetta, decorata esternamente e riportata a casa fino all’incontro successivo. Il giorno prima inizia la ricerca folle della bottiglietta d’acqua, sparita. Eppure, era sempre stata in salotto, su un mobile, in vista, una bottiglietta senza etichette commerciali, con decori e dell’acqua -benedetta- all’interno. L’abbiamo cercata ovunque. Anche nella sacca da tennis, niente. Pepe ha iniziato a piangere, imprecare, inveire, minacciare, disperare, tutto inutile. Nessuna bottiglietta di acqua benedetta. All’improvviso il lampo, l’intuizione, il dubbio. La signora delle pulizie, la grande colpevole volontaria e involontaria di tutto quello che non si trova più.

In quel periodo era Rossana, una signora peruviana che lavorava anche da mia nonna.

“Ohh me dispiaseeee.”

Questa è stata la conclusione della scena. Vista da fuori, da un angolo della stanza, dal lato opposto alla grande porta finestra tra cucina e salotto deve essere andata più o meno così:

mattino, circa le 9. Donna pronta per andare a lavoro che volge la mano sinistra verso un mobile tenendo lo sguardo fisso sull’altra donna che, dalla cucina, guarda il mobile indicato e poi la signora che ha truccato troppo le labbra-bisognerebbe dirglielo– che porta la mano sinistra sopra la destra ma con un po’ di spazio tra i due palmi opposti e chiede di una bottiglietta di plastica, chiede con tono gentile ma finge perché si vede che è solo una stronza disordinata. La donna pronta per andare al lavoro, che ha messo la trousse in borsa così ritocca il rossetto dopo pranzo, aspetta una risposta, un cenno- avrà capito? – da parte dell’altra donna. Le due donne si guardano e già sanno tutto.

Una penserà per sempre che l’altra se l’è bevuta prima di buttarla.

L’altra penserà per sempre che se le cose venissero lasciate in posti logici nessuno le sposterebbe.

Alla notizia definitiva Pepe si era lasciata prendere dallo sconforto assoluto. Non poteva presentarsi a catechismo, non avrebbe potuto fare la Comunione con i suoi compagni, forse le avrebbero revocato anche il Battesimo e chissà che non concorresse per la scomunica.

“Come facciamo?”

“Così. Vai di là e fai un disegno simile a quello che avevi fatto sull’altra bottiglia. Intanto io bevo come se dovessi fare un’ecografia renale, non ti preoccupare.”

“Ma cosa fai?”

“Niente, non ti preoccupare. Ecco la bottiglietta che uso in palestra, vuota. Riempila di acqua.”

“Quale acqua?”

“Acqua, Pepe. Acqua.”

“Dal rubinetto?”

“Si”

“Così?”

“Si. Brava. Ecco, attacca il disegno, ecco qui. Puoi andare a catechismo.”

“Ma non è acqua benedetta”

“È acqua di Benedetta. Andrà bene lo stesso”.

“Ma si può fare?”

“Si.”

“Secondo me no. Poi scusa tu nemmeno ci credi.”

“Per quello che posso.”

“Allora vedi che non si può.”

“Pepe, alla peggio ci giochiamo la carta del perdono.”

“E come?”

“Diciamo ohh me dispiaseeeee.”

Scalza, sempre scalza, possibile?

“Dovrebbe esserci quella cosa per cui basta un suo sorriso e io non sento più la fatica. Sono ripagata. Dicono così, le madri. Dicono che basta un sorriso e sono ripagate dalle notti insonni. Mia figlia non sorride, Dottore. E poi, di fondo, anche quando sorride non mi ripaga di niente. È come se mi guardassi in uno specchio tutto rotto cercando di vedermi intera, con lei, quando la guardo.”

“Quali madri lo dicono?”

“Le madri, in giro. Sa quando ti fermano e dicono che si è una gran fatica crescerli ma poi basta un sorriso.”

“Ma sono madri che lei conosce?”

“In che senso?”

“Non so, sono sue amiche madri come lei in questo momento preciso, sua madre, sua zia, madri con cui lei ha una relazione di durata e di qualità?”
“No. Cioè. No. Sono cose che dicono le donne quando si parla di bambini piccoli.”

“Sono cose che si dicono, quindi.  E dunque, sono cose che queste persone non le riportano in quanto esperienza diretta come se adesso io le dessi un pizzicotto e poi subito dopo una carezza e allora lei direbbe di aver avuto esperienza di entrambe le cose. È così?”

“Si, penso.”

“E dunque, lei questa settimana si è soffermata più volte sulla sua inadeguatezza, come la chiama lei, perché qualcuno che lei non conosce dice cose che sono come un intercalare in coda in posta nel quale lei non si riconosce?”

“Penso che sia andata così. Comunque, mia figlia sorride poco, a me soprattutto.  Con me piange, urla, si irrigidisce.”

“Lei sorride spesso?”

“No. Non più.”

“Nemmeno allo specchio?”

“No. Lo specchio è in pezzi e io cerco un’immagine intera”

“Lei con chi è solita fare scenate, se vogliamo chiamarle così, con chi è solita perdere le staffe?”

“Con me stessa e poi con lui, si, con lui.”

“Noi diamo il peggio di noi stessi solo con coloro dei quali ci fidiamo. Non mostriamo mai quella parte ad altri dei quali non siamo sicuri. Bisogna amare molto qualcuno per permettere a noi stessi di mostrarci deboli, arrabbiati, furibondi o semplicemente tristi.”

“Quindi mia figlia con me è insopportabile perché mi ama di più degli altri? Che culo.”

“O forse perché sa che lei la ama più degli altri, in ogni caso. Provi a guardare sua figlia, a pensare sua figlia, come se lo specchio fosse intero, cosa le riflette?”

“Che sono io quella a pezzi, ecco perché non mi vedo intera.”

“Il tempo per oggi è terminato, ci vediamo venerdì.”

Le sue mani che sanno sempre dove fa male, dove è successo che si è sopravvissuti.

io e Pepe

7 pensieri su “Lei

  1. Forse ti arrabbierai, oppure farai la ritrosa, ma voglio proprio dirtelo: tanti genitori dovrebbero leggerti. Per ritrovare e ritrovarsi nelle situazioni in cui si sentono atterriti e disarmati, eppure sanno che tutto quello che accade ha una spiegazione e un senso, anche se lo cercano e non lo trovano e stanno male, malissimo. Condividere questo è prezioso, fondamentale.
    N.B. Lignano è un posto snob, pieno di gente antipatica, e stretto. Io vado sin da bambino nella proletaria e larghissima Bibione, anche perché da lì vicino provengo.

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    1. Pensa se mi leggono prima di diventare genitori…
      Mi sono liberata di Lignano da un paio d’anni, mio marito ci va sin da bambino anche perchè da lì vicino proviene per un pezzo. A Bibione penso di aver mangiato pesce bene come poche altre volte nella vita, in un posto da non crederci, fermo agli anni Ottanta eppure…

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  2. Mi hai fatto tornare in mente un parco, un altalena, un pallone ed io bimbo distratto che gli corro appresso. Mio padre che mi urla, “attento alle altalene, non corrergli davanti”. E io, bimbo distratto, ma ubbidiente, che gli corro dietro….calcio in testa, sangue, corsa al pronto soccorso e grande lezione: bisogna ascoltare i grandi, ma senza prenderli alla lettera!

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    1. Attenta all’altalena, senza specificare davanti o dietro indicando solo l’altalena come il pericolo assoluto. Sono diventata come il padre dei Croods, segnalo pericoli mortali ovunque.

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