Conosco una donna, una professoressa, aspettava il suo primo figlio quando io aspettavo Pepe, la mia seconda, avevamo qualche mese di differenza a mio vantaggio. Lei si documentava, settimana dopo settimana, adesso il feto è grosso come un pugno chiuso- non era il cuore ad avere quelle dimensioni- adesso è grosso come un pompelmo –quanto è grosso un pompelmo? – adesso  gli arrivano i suoni ovattati dal mondo esterno – chissà il rumore dentro, cioè hai presente dentro il corpo umano tra organi che battono e si contraggono, spasmi e digestioni– adesso percepite bene i movimenti del vostro bambino, adesso si mette in posizione e non la cambierà più- sono le posizioni che non cambierà fuori che mi preoccupano di più– adesso è pronto per venire al mondo. La professoressa studiava, sapeva tutto, aveva già comprato la crema per le ragadi al seno, le mutande a rete post parto, si era iscritta al corso preparto con l’ostetrica musicologa esperta in cromoterapia nutrizionista e maestra di yoga e due volte a settimana andava a fare acquagym per gestanti così si sentiva leggera. Sapeva cosa fare per la crosta lattea. Sapeva in cosa consiste l’allattamento a richiesta, il co-sleeping, l’auto svezzamento, sapeva medicare il cordone ombelicale e quanta vitamina D necessita, sapeva, perché si documentava, come si gestiscono le coliche e guardava “Ostetriche in sala parto” su Real time per prendere appunti, senza commuoversi.

Conosco una donna che forse era solo una ragazza, sapeva come sua figlia era entrata lì, dentro di lei, lo ricordava bene perché era stato molto bello e sapeva da dove sarebbe uscita e preferiva non pensarci, pare che a un certo punto abbia ordinato tiratemela fuori in qualche cazzo di modo, dopo aver invocato la morte. Sapeva che i bambini appena nati piangono, cagano liquido e giallognolo, mangiano, ruttano e dormono. Non pensava che quelle smorfie involontarie fossero sorrisi e non si preoccupava della querelle su quando e cosa e come i neonati inizino a vedere.

Conosco una donna che non doveva tornare al lavoro perché non ce l’aveva un lavoro e però aveva deciso di non allattare perché voleva tornare a fumare. Qualcuno intorno a lei faceva smorfie volontarie che non erano sorrisi e pensava ma come? Lei se ne sbatteva felicemente, mangiava di nuovo il suo prosciutto crudo e fumava felice, mai davanti al figlio, infatti aveva montato il passeggino al contrario così il bambino guardava il mondo e il mondo guardava il bambino, che comunque era molto bello per essere un bambino.

Conosco una donna che voleva dei figli dell’Acquario (auguri Gulli, dovrebbe essere oggi) e lo diceva apertamente: aveva voluto concepirli perché nascessero sotto quel segno. Chi vuole dei figli dell’Acquario, pensavo io che anche i cani li ho scelti che non fossero della Bilancia, dei Gemelli e dell’Acquario. È una donna sincera la donna con i figli dell’Acquario e di queste ne conosco poche.

Conosco una donna che voleva figli e poi non li voleva. Poi li voleva di nuovo con uno che sembrava non andare bene per farci un figlio e comunque lui non se ne preoccupava. Poi non li voleva più ma con uno che sarebbe stato perfetto per farci un figlio insieme. Poi lo voleva ma non con questo. Lui non sapeva se voleva figli allora lei, la donna che voleva figli a intermittenza, ha pensato che visto che lui non lo sapeva era quello giusto perché lei lo avrebbe convinto che lo voleva. Entrambi i lui hanno figli adesso, la donna intermittente non ha ancora deciso.

Conosco una donna che si è trovata sola a crescere suo figlio, niente di tragico, solo un amore cerebralmente morto attaccato a un respiratore, pare sia la routine a provocare questi decessi, la ripetitività dei movimenti della giornata determina un’usura dei sentimenti. Fa quel che può, perché lui è andato a prendersi la vita per come la voleva in un’altra città. Di notte le capita di restare sveglia, fa la somma dei rimproveri che si può muovere, poi sottrae le colpe da attribuire a lui, moltiplica le bugie che ha scoperto per i giorni in cui le ignorava, divide tutto per due perché per tre ormai non pensa più, poi perde il conto e ricomincia, il bambino ogni tanto si sveglia e la chiama, la trova sempre sveglia, “mia mamma non dorme mai” ha detto alla maestra.

Conosco una donna che forse era solo una ragazza che per la stanchezza con la seconda figlia appena nata, in preda alle coliche e ogni forma di rinite e stipsi catalogabile, una notte si è pisciata nelle mutande. Da seduta sul wc, fino a lì c’è arrivata solo che si è seduta e basta, non ha tirato giù niente, ha solo pisciato con gli occhi chiusi. Una notte invece ha usato la fialetta dell’enterogermina al posto della soluzione fisiologica per ripulire il naso della bambina e ha lanciato cristi e santi perché scendeva male, diversamente dal solito e la bambina piangeva, piangeva sempre e poteva svegliare la sorellina che pisciava il letto anche due o tre volte a notte per lo stress di questo nuovo arrivo, catapultato un giorno a casa, tirato giù dalla macchina in un seggiolino auto imbottito.

Conosco una donna che ha deciso di avere un figlio con un uomo affidabile e con un reddito sicuro perché ormai era il solo criterio che le interessasse ai fini procreativi. Nella famiglia di lei hanno sempre detto, quando lei non c’era, che lui le faceva senso, non proprio schifo, ma un po’ senso.  Era una donna con tante fissazioni, l’acqua minerale per lo scalda biberon, via litri di Sant’Anna di Vinadio solo per tenere in caldo il contenitore del latte, ricerche su internet di ogni sintomatologia presentata da suo figlio per dimostrare che era cagionevole, salviette disinfettanti contro ogni male del mondo, citofoni disabilitati e campanelli a cui togliere corrente per evitare che qualcuno disturbasse il sonno del bimbo malaticcio. Era una donna convinta della bontà di quel che faceva ma era sola con le sciocchezze di cui si nutriva e con parenti collaterali che la irridevano dei quali era ignara, come effetti di un farmaco che leggi sul bugiardino ma speri capitino ad altri.

Conosco una donna che ci pensava e ripensava e voleva il terzo figlio, lo voleva proprio nella gola, voleva toccarsi la pancia e sentirla abitata, lo voleva nella testa, negli occhi che vedevano solo donne incinte, nelle braccia che non cullavano più da anni. Molti le dicevano ma lascia stare, ma chi te lo fa fare, ma state così bene, ma perché. Io lo voglio, diceva. Non aveva altro da rispondere perché non c’era altro motivo. Non è mai arrivato e lei aveva odiato il suo corpo ogni mese fino alla menopausa quando finalmente non era più colpa sua.    

Conosco una donna che ha detto a un’altra donna “affidati a te diventeranno schifosi come te”. L’altra donna le ha risposto guarda che non li ho in affidamento perché sono i miei figli e poi meglio schifosi come me che centotrenta chili di merda come i tuoi figli. Siete pari, hanno detto gli altri, gli arbitri dell’elegante disputa. No, ha rimuginato l’altra donna, perché voi pensate alle parole sbagliate, pensate agli “schifosi e centrotrenta chili” e non capite che il pericolo e la cattiveria di quella frase è nell’altra parola, in quell’”affidati”, che ti delegittima, che cerca di toglierti il ruolo che è tuo, che sminuisce la tua presenza, tu o un’altra poco importa. Conosco donne a cui non passerà mai.

Conosco una donna che ha tre figli e ha lasciato il suo lavoro in ospedale e ha frequentato un corso di contabilità ed è andata a lavorare con suo marito nell’azienda di lui. Niente più turni o reperibilità. Sempre presente all’uscita di scuola. Il pranzo e la cena sempre pronti. Niente accumuli di panni da stirare, unica candidata e sempre eletta come rappresentante di classe per tutte e tre le classi, colloqui con i professori, dentisti e ortopedici, attività agonistiche perché lo sport è socialità e disciplina, corsi di lingue straniere che senza quelle non fai niente oggi. Un giorno mi ha detto che bisogna esserci, sempre, anche quando loro non parlano, quando ti ignorano, quando non ti vogliono, bisogna esserci all’uscita da scuola perché quello è il momento in cui raccontano la loro giornata e se non ci sei tu la raccontano a un altro e se devi arrivare o intervenire tu, così, arrivi e intervieni quando è tardi. Bisogna esserci, chi c’è sbaglia ma chi non c’è non fa. È stata la mia cliente preferita, adesso che non sono più una consulente con sopralluoghi interminabili, ispezioni e verbali improvvisi, date certe da vidimare e rispettare, lo posso dire.

Conosco una donna che forse era solo una ragazza che ha figli grandi e spesso si sente come se per gli altri lei li avesse sempre avuti grandi, come se nessuno si ricordasse che se li è tirati su, non glieli hanno dati già così, solo perché lo ha fatto senza dire a voce alta che lo stava facendo, che sembrasse più di quel che era. È una donna che è scesa a compromessi, ha lasciato perdere, non ha pazienza ma si è scoperta tollerante, la pazienza è passiva dice, la tolleranza è attiva. Conosco una donna che forse era solo una ragazza che non credeva che i bambini dovessero crescere con i nonni anche prima di averne sposato uno, al quale aveva raccontato un giorno, in un museo, la storia del Re Salomone e le due madri, perché lui non la conosceva. Le due madri si contendevano il bambino: è mio, no è mio, no è mio. Il Re decise di dividere in due il bambino. Solo una si oppose, rinunciava al bambino pur di lasciarlo intero. Il Re le assegnò il bambino. Capisci quello che voglio dire? Aveva chiesto la donna che forse era solo una ragazza. Lui aveva annuito.    

Conosco una donna che non ha figli. Sono le mie preferite perché parlano della vita guardandola tutta, è come se avessero un respiro in più. Forse li avrà, li vorrebbe ma non ora. Penso che li avrà. È una donna che gioca con i capelli cambiando taglio e colore, ha la pelle scritta un po’ ovunque, di segni che solo lei capisce e poi è la sua pelle, chi altro dovrebbe capirlo? È una donna che mi ha detto “ti muovi su un terreno scivoloso a scrivere di madri, le madri sono un totem”. Non scrivo di madri perché le madri non esistono, scrivo di donne e di come diventano madri perché madri si diventa. E padri. E ti può andare bene, come una cosa che ti viene subito facile e naturale, sai quelli che hanno lo swing subito, la prima volta che giocano a golf. Oppure ti ci devi applicare perché a te non viene e ti impegni e se sei bravo sembra che ti venga naturale, invece è tecnica. E tutto questo non c’entra niente con l’amore. L’amore non si discute. Quello che voglio dire è che non esistono le madri, le madri giuste e sbagliate, esistono persone che ti fanno sentire una madre giusta o una madre sbagliata. Esistono donne e io le vedo, ci parlo, le ascolto e io sono molte di loro e altre proprio no. Quello che voglio dire è che non c’è un solo modo ma che tutte andiamo in pezzi, le più ordinate li ritrovano tutti e li rimontano, le più disordinate ne perdono qualcuno strada facendo, ad alcune vengono sottratti e altre si ritrovano con pezzi che avanzano eppure intere e non capiscono come sia possibile. Quello che voglio dire è che succede. Di andare in pezzi. Di diventare madre. Di non diventare madre. Di avere la vocazione e la chiamata oppure di soffrire di maternità a rilascio graduale. Quello che voglio dire è che ci sono donne che si pentono, anche, che non lo rifarebbero e se non lo diciamo sbagliamo, sbagliamo tutti, e ci sono donne che non desiderano altro per tutta la vita. Non esistono le madri, esiste una sola madre, quella che non taglierebbe mai a metà suo figlio. È un terreno scivoloso? Scivolerò. Poi resterò sdraiata a guardare il cielo, a me non importa, sono solo una ragazza.  

3 pensieri su “Quello che voglio dire

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