Giorno 1:

Caldo porco.

Frasi che non riesco più a sentire: temperature record-cabina di regia-ho sentito anche di gente che dopo è stata male-ci vuole il greenpass anche per trombaremamma ma devo venire per forza?

Mi suda la pancia, con le goccioline proprio. Mi fa schifo quando mi suda la pancia, si macchiano i vestiti e la mia insofferenza verso la vita raggiunge livelli preoccupanti. L’estetista dalla quale ogni tanto faccio qualche trattamento dice che va bene, invece, perché così elimino le tossine e quando si suda tanto dalla pancia significa che hai tanto stress e ansia, le tossine sono tutte concentrate lì.

Ecco.

Dovrei essere liquefatta stando ai miei livelli di ansia. Mi sono anche chiesta che cosa ne sa lei, ma siccome è un centro di estetica avanzata ho pensato che ne sapesse di più per forza. Se qualcuno mi osserva interrogativo le chiazze addominali rispondo che mi si sta sciogliendo lo stress.  

C’è una bambina che vive al piano terra, mi ha chiesto come si chiama il cane, Justin le ho risposto. Nei dieci minuti successivi me l’ha chiesto altre cinque volte. Il suo cane si chiama Stella, è femmina, ha solo quattro mesi e ogni tanto la morde. Mi ha chiesto la razza di Justin. È un chihuahua le ho detto. Nei dieci minuti successivi lo ha definito pincher e pastore tedesco in un crescendo incomprensibile. Si chiama Sofia, è un bel nome le ho detto. Ha lo stesso significato del mio ma questo non son stata lì a raccontarlo. Sonia è la versione russa di Sofia mi diceva mia madre quando ero piccola. Non hai l’onomastico, mi diceva mio nonno paterno che segnava sul calendario tutti gli auguri da fare, non hai il santo. Si vede che posso farne a meno, gli rispondevo cattiva. Mio cugino si chiama Giancarlo, lui si era segnato l’onomastico del nipote sia per San Giovanni che per San Carlo. Non mi torna, gli dicevo acida. Ha il nome composto, mi spiegava: Giovanni + Carlo. Ho il cugino preposizione articolata, pensavo.

I genitori di Sofia non hanno l’accento del posto, lei in parte, ce l’avrebbe ma si sente che i suoni primordiali nelle sue orecchie sono diversi da quelli che sente appena fuori casa. Mi sono chiesta se anche di me si sente, penso di sì, che si senta. Io me lo sento.

Il nostro alloggio è bellissimo. Curato in ogni dettaglio, ha il soffitto a cassettoni e la vista su un parco oltre il quale iniziano le mura. Siamo dentro le mura e siamo sopra le mura, questo palazzo sorge sulle mura romane, fuori ci sono quelle medievali. Cristina diceva medievate, da piccola. Le piaceva mangiare il pollo con le mani portando su la coscia fino a farla entrare in bocca con un movimento all’alto. Perché mangi così? Le chiedevo. Perché mi piace mangiare il pollo come i medievati.

Indosso una collana che mi ha regalato Lui, lunga fino a metà dello sterno, sulla medaglia siamo incisi tutti, noi quattro e i cani, con il nome di ciascuno, sul retro ha fatto scrivere il suo cognome con la s del genitivo sassone. Un po’ medaglietta di identificazione in caso di smarrimento, un po’ simbolo di fede, la sola che ho ormai.

La prima notte passa insonne per uso sconsiderato del climatizzatore che porta con sé due problemi: il rumore e la lucina del led che indica i gradi. A Lui sta bene. Io sono al limite della bestemmia. C’è una zanzara, una sola in tutta la casa. Se la prende con me e solo con me, le offro il mio corpo in sacrificio pur di non vedere sveglie le ragazze alle tre del mattino, che poi parlano perché loro fanno così, si svegliano e mi parlano senza guardare l’ora. La zanzara mi tempesta la parte sinistra del corpo, mi gratto senza speranza, mi compaiono ponfi da foresta tropicale, mai visti prima. Lui mi viene in soccorso con il gel dopo puntura, io non lo voglio. Basta fare le croci sopra, lo sanno tutti, non hai mai fatto le croci sulle punture di zanzare? Che infanzia hai avuto? E si che da dove arrivi tu le zanzare sono immatricolate per quanto sono grosse e cattive. Non voglio il gel dopo puntura perché mi gratto lo stesso, mi finisce sotto le unghie e poi in bocca e negli occhi e anche nelle orecchie, ho la dermatite nelle orecchie, sono condannata a usare l’Otobor a vita perché anche la dermatite è cronica, anche quella e sempre lì, nelle orecchie. Nelle mie orecchie il tempo si è fermato.

Mi alzo, fuori è buio e lo sarà ancora per molte ore. Pepe ha detto che la casa è bella ma è piccola perché divide la stanza con sua sorella. Io un anno in vacanza ho dormito su un materasso poggiato a terra con mia cugina e il suo cane, uno Yorkshire che si chiamava Piccolo. È stata una bellissima vacanza, anche se mi sono accorta dopo giorni che al cane accarezzavo sempre il culo scambiandolo per il muso. Alle sei torno a letto, pensando che sono solo una ragazza che ancora crede che due bagni siano una comodità, non la normalità.

Giorno 2:

mi siedo nel dehors di un bar per il caffè del mattino, in vacanza non prendiamo mai il caffè in casa. Osservo le persone, mi piace molto. Tengo su gli occhiali da sole, il cane si siede sotto la sedia, il guinzaglio è bloccato, controllo comunque sempre che non ci siano altri cani nei paraggi. Qui ce ne sono pochi, dice Lui. Il caldo, rispondo io, senza articolare la frase in modo completo, non ce n’è bisogno, Lui capisce cosa intendo dire. Parliamo delle nostre figlie. Nel tavolino accanto una signora anziana manda cuori rossi con WhatsApp pigiando con l’indice forte, come se dovesse essere schedata in commissariato. Il marito guarda verso la piazza. È la chat con la figlia, nel messaggio precedente c’è la foto di un ragazzino al mare, non sorride, è in posa per quello scatto da inviare alla nonna. Un ragazzino tedesco legge il menu in italiano sotto lo sguardo dei genitori, è bravo anche se dice prosiutto ma conosco italiani con lo stesso difetto. Chiedo l’acqua frizzante insieme al caffè. Questa è la mia ultima novità, quando ho caldo, molto caldo, voglio acqua frizzante, mi sembra che mi disseti di più. Invecchiando diventerò mio padre più di quanto non lo sia già.

Cristina non si è ancora alzata, Pepe è pronta per fare il giro delle mura in bici con suo padre, tra pochi giorni saremo al mare, la sola cosa che le interessa, questo prologo cittadino era per soddisfare il desiderio di Cri di visitare musei e vedere cose non solo mare mare mare (cit.). Lui dice che dal prossimo anno ognuno deve fare le vacanze per i fatti propri e basta, tanto è impossibile che ci piacciano le stesse cose nello stesso momento. Progettiamo le prossime vacanze come si fa con una fuga. La scarsa sopportazione del caldo ci suggerisce i fiordi norvegesi. Alla fine, ragioniamo per tornare in Trentino, che eravamo stati bene, no? Andiamo verso casa, piccola ma bella, costruita sulle mura romane a recuperare una figlia a testa, Lui prende quella che non riesce a stare ferma, io quella che dorme sul divano, scomposta come un medievato. Ci diamo appuntamento per pranzo, organizziamo il menu, più Lui perché Lui fa così, diventa odioso i primi giorni di vacanza, deve organizzare tutto e mette becco e bocca su tutto e non gli va bene niente di quello che faccio io o chiunque altro ma in fondo non me ne frega di chiunque altro,è quando non gli va bene niente di quello che faccio io che mi incazzo parecchio perché è come se non gli andassi più bene io e allora mi viene da scuoterlo per le spalle e dirgli ma che cazzo fai, non lo vedi che sei odioso e non posso essere odiosa anch’io contemporaneamente perché altrimenti è una mattanza, lo vedi, si? Allora lo faccio, glielo dico. E lui mi dice si è vero, faccio così. E so che gli vado sempre bene, come un abito comodo, come le calzature giuste, quelle che quando le indossi sai di essere arrivato dove dovevi arrivare e non ti servono per andare via ma per stare, bene, dove stai.

Sulle scale incontro Sofia che saluta Justin chiamandolo Jasmine. La correggo con gentilezza, che comunque la gentilezza non è un sentimento quindi mi riesce anche verso i bambini. Cristina è nella posizione in cui l’ho lasciata, non si è lavata, preparata, non ha nemmeno fatto colazione. Penso che voglio tornare a casa, che i cani sono meglio dei figli, che l’adolescenza di nuovo io non me la merito, che se non lo dico muoio, che muoio lo stesso è vero ma almeno l’ho detto, che ho caldo, che gestire le esigenze di quattro persone è troppo faticoso per me, davvero, onestamente, mica riesco. Le altre sono più brave, più motivate, più strutturate, le altre vogliono farlo e io no, non ho voglia come non ho voglia di fare parapendio o step coreografico. Le altre sono le altre madri, quelle che osservo dalla mia sedia nel dehors, dal mio angolino rintanata come un animale. Le altre sono quelle che non sorridono mai e che reggono il mondo tutto intero, così mi sembrano. Io mi guardo riflessa nella finestra davanti, pensando che sono solo una ragazza che ancora ha voglia di ridere e di cadere giù per terra se il mondo casca.

Giorno 3:

Bolla africana e ricerca di cerotti per bolle sui piedi, non i miei perché ormai ho abdicato a qualunque tipo di calzatura scomoda come filosofia di vita proprio. Io e Lui ci infiliamo alla Mondadori anche se è la Mondadori, chiedo scusa ai miei amici librai, Andrea e Bea, mi riprometto di sottolineare che siamo alla Mondadori ogni due minuti, di precisare che si c’è l’aria condizionata e guarda caso anche due titoli che proprio volevo MA siamo alla Mondadori, che si c’è il bar e il caffè è anche buono e i divanetti comodi MA siamo alla Mondadori, reciterò il mio Ho’oponopono con una motivazione in più per aver comprato alla Mondadori e non solo e sempre nelle librerie indipendenti. Io e Lui parliamo delle nostre figlie. Pago con il bancomat, a volte mi chiedo se i dipendenti delle banche guardano i movimenti e le transazioni sui conti, si può fare? Possono guardare? Il bancario che guarda il mio conto secondo me scuote la testa pensando che sia impossibile non avere altri interessi. Me lo immagino un po’ tipo il mio Angelo Custode, anche lui scuote la testa pensando che sia impossibile restare ore nell’angolo a osservare e prendere appunti come se il resto del mondo fosse un luogo da studiare e non da vivere. Poi mi dico che forse nemmeno ce l’ho l’angelo custode non avendo l’onomastico e un santo tutto mio, una santa, però forse mio cugino ne ha due. Mio nonno mi direbbe scherza con i fanti ma lascia stare i santi. Chi te li tocca gli risponderei io, stronza.

Io e Lui decidiamo per un’escursione in un borgo medievale a quaranta chilometri, ci teniamo per mano mentre guardiamo sulla cartina, sappiamo di dovere essere forti, uniti, coesi, io baluardo a Nord e Sud, lui baluardo a Est e Ovest, dobbiamo preparare una versione sola, la stessa, ripeterla finché non saremo sicuri, non cadere in contraddizione. Decidiamo chi comunica alle figlie l’intenzione, lo diciamo sicuri, in una frase sola, senza tentennamenti, senza esitazioni. Se mai ci dovessimo lasciare sarebbe così, lo diremmo così. Poi faccio gli scongiuri, penso a certe facce se ci dovessimo lasciare io e Lui, col cazzo che vi do la soddisfazione, me lo tengo anche odioso tanto poi gli passa.

Le figlie reagiscono come sapevamo ma noi non cediamo. Rinunciano. Indossano il muso ma per fortuna sono sedute dietro e non le vedo. 

Finiamo negli anni Ottanta non del quattordicesimo secolo ma dello scorso. Sento un’aria familiare. Le sedie di plastica del bar nella piazzetta sono quelle che ti lasciano tutte le righe marchiate sulle cosce come stimmate per giorni interi, c’è un gatto di tutti e di nessuno che si lascia accarezzare, beviamo una limonata con menta da un bicchiere lungo lungo, adatto al becco di una cicogna, e pieno di ghiaccio, la musica di sottofondo è Azzurro di Celentano, io ho cinque anni, mio zio guida e noi bambini siamo seduti dietro uno sopra l’altro, se ci conto siamo almeno quattro, io, mia cugina di nove anni, mio cugino di undici e mio zio di tredici, mio fratello di un anno e mia cugina di due non ci sono, non so dove siano, li troveremo già al mare e non so come ci siano arrivati, ma nessuno chiede quando arriviamo, a nessuno importa perché cantiamo, nessuno chiede di mangiare o bere, lo faremo poi, non abbiamo cinture di sicurezza, il gruppo è la sicurezza di arrivare, di bere, di mangiare.

Al ritorno Sofia saluta Justin chiamandolo Dante. Il cane non si cura di lei ma guarda e passa, io la correggo resistendo alla tentazione di aggiungere ecchecazzoperò tutto attaccato. La guardo meglio, ha lo smalto rosso alle dita delle mani, ieri non l’aveva, ha mattine lunghe e pomeriggi lunghissimi, chissà se poi andrà al mare prima di iniziare la terza elementare. Chissà il treno dei suoi desideri dove va.  Salgo le scale pensando che sono solo una ragazza che si è accorta di non avere più risorse senza di Lui.

Giorno 4:

Torno dal caffè e Cri è pronta, sveglia, pettinata, truccata. La missione è recuperare la tinta rosa per una ciocca di capelli. Si, rosa. Una ciocca sola, ovvio. Di quelle tinte che vanno via con qualche shampoo, ovvio. Non ci andrà a scuola, ovvio. A costo di tagliare la ciocca, ovvio. O di strappargliela a mani nude. A volte temo che da sotto la mia faccia crepata per il caldo e il tempo esca la faccia di mia madre. Come una tartaruga a cui tolgono il carapace, a mia madre piacciono le tartarughe, o come le pitture rupestri scoperte dopo millenni, ecco così potrebbe venirmi fuori lei, io penso sia una nuova ruga o una macchia scura dovuta al sole invece sono le scene di caccia o di lotta di mia madre impresse sul mio volto durante la vita uterina, qualche era geologica fa.

Poi andiamo alla Mondadori. Reciterò il mio Ho’oponopono una volta in più, ma c’è tutto Stephen King e lei adora Stephen King e ci sono i libri di Harry Potter in inglese e lei adesso vuole leggere in inglese. Pago con il bancomat e racconto a mia figlia la storia dell’impiegato della banca, quello che forse guarda le transazioni. Poi vorrei dirle anche dell’Angelo Custode ma decido di no, magari un’altra volta.

La ciocca rosa non viene. Non capiamo perché.

Sua sorella è in bici con il padre, mi mandano la foto del chioschetto dove si sono fermati per bere qualcosa di fresco, di profilo lei gli somiglia, non era così, non ha mai avuto nulla di suo padre, eravamo sicuri, l’avevamo guardata bene per giorni e giorni e giorni. La grande uguale a Lui, la piccola roba mia, non mia di me, mia della mia parte, si dice così, no? La parte di Lui e la mia parte. La piccola era roba della parte mia e adesso invece ingrandisco le foto di profilo e ci trovo lui, insinuato chissà quando e chissà come, magari durante una delle loro partite a tennis o mentre fanno giardinaggio insieme o quando spariscono e sono in taverna a dipingere o quando guardano per l’ennesima volta Fantozzi insieme, non so quando si è infilato nel profilo di nostra figlia, è impercettibile ma io lo vedo, l’ha fatto, si è posizionato anche lì, prima non c’era e adesso c’è e non andrà più via.

Aspetto che le ragazze facciano il tampone in farmacia, mi metto nell’angolino del dehors, ordino un caffè e un bicchiere di acqua frizzante, la metà delle volte si sbagliano e la portano naturale, vabbè dice Lui, vabbè un cazzo dico io sperando di aver beccato la metà in cui non si sbagliano, il cane resta seduto sotto la sedia, le persone mi scorrono davanti, osservo come mettono i piedi, la metà delle persone che vedo li poggia male, voglio andare al mare per avere, poi, voglia di tornare a casa. Le ragazze vengono verso di noi, sorrido, rido, le guardo. Penso che sono solo una ragazza che la sua casa ce l’ha tutta con sé, come una tartaruga.

4 pensieri su “Solo una ragazza

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