Ho chiamato zia, dal treno e infatti pigliava male pure se adesso il treno è velocissimo, sai. In sei ore stavamo a Garibaldi. Volevo sapere il civico di piazza Carlo III, ma lei non lo sapeva o non lo ricordava, non cambia il risultato. Mi ha detto “faceva angolo”. E io mi immaginavo una grande piazza rotonda. Chissà perché, poi, voglio dire le piazze sono rettangolari o quadrate mica per forza rotonde solo che niente, io mi ero messa in testa che fosse rotonda e faticavo a infilarci un angolo. Vabbuò. Mi ha detto pure di chiamare Ale, perché lui da poco c’ era stato  e aveva ricostruito un po’ tutto. Spostando il pensiero dall’angolo dentro il cerchio ho iniziato a chiedermi perché mai Ale si interessasse al posto dove tu hai conosciuto tua moglie. Ma qui è stato più facile dell’angolo del cerchio, sua madre è la sorella di tua moglie, viveva pure lei lì. Sopra il negozio di Piazza Carlo III, l’emporio di quel folle che sarebbe diventato tuo suocero, quello che aveva chiamato il gatto Benito solo per poterlo riempire di male parole urlando forte “BENITO!!!”. Solo che Ale io non lo sento da prima che si sposasse, ha pure divorziato poi, o forse dal funerale della nonna, aveva appena avuto un figlio che adesso è all’università. Così ti fai un’idea. Non è che posso chiamarlo e chiedergli un civico. Ma poi non mi va di chiamarlo. Ho detto a zia “vabbuò, facciamo senza, andremo un’altra volta, ti saluto il vulcano”. Non avevo voglia di chiamare nemmeno tua cognata, alla fine pure con lei non mi sento da una vita, ti pare che la chiamo per sapere dove viveva da bambina e per cosa poi, andare in una piazza rettangolare o quadrata che pensavo rotonda e scoprire che al posto dell’emporio del folle ci sta un negozio cinese o un bar fetente? Volevo solo immaginarti entrare lì, con la notizia che loro figlio era ancora vivo, che avevate fatto un patto: il primo dei due che tornava avvisava la famiglia dell’altro e che sei tornato prima tu. Volevo immaginarti bello, bellissimo, con gli occhi nocciola come papà, forte dei tuoi scarsi venticinque anni, con tutta la morte del mondo negli occhi e tutta la voglia di vita nella pancia, volevo immaginarti così intensamente da dire che si trattava di un ricordo , un mio ricordo nitido e preciso. Ma pure tua cognata adesso c’ha i cazzi suoi per la testa, il marito si è fatto vecchio, pure lei certo, ma per te che l’hai tenuta sulle ginocchia forse non può farsi vecchia mai, comunque lui si è fatto davvero vecchio e i vecchi come i bambini danno un sacco di pensieri, in più lui è fascista, ti ricordi. Ogni volta che ci perdevi a carte mi prendevi da parte, incazzato nero, e indicandomelo solo con il suo cognome, a togliere ogni affinità e parentela,  mi dicevi “è fascista” .

Mo’ pare che vada bene pure essere fascista, comunque. Non so se lo sai, se lo vedi da dove sei tu, ma di imbroglioni a carte ce ne stanno diversi in giro, pure in Parlamento. Vabbuò, gli rideresti in faccia, sono tutti nati ricchi, diresti, non hanno visto niente, diresti, per questo avanzano la roba nel piatto e sprecano e dicono che schifo. “quatto sciemi ‘ro cazz”.  Però se lo credono questi quattro scemi del cazzo, ma tanto passeranno, solo questo posso dirti, sai, per come la penso io, per quel poco che ho capito come funziona il meccanismo che tutto passa, qualcosa schivi, qualcosa pigli, qualcosa ti fotte, qualcosa ti piace pure se ti ha fottuto un po’, qualcosa ti manca, qualcosa manco per nulla, ma di tutto questo qualcosa niente resta.

Però è un peccato che non ti sei fatto vecchio, per davvero vecchio, solo un po’.

Ho chiamato papà. La sera, lungo Via Toledo, tornando verso il letto. Lo sapevo che lui il civico proprio non lo conosceva, se non la sa zia figuriamoci se lo sa papà. Non lo sento spesso, papà. Più di prima, sì, ma meno di prima prima. È così. Un pezzetto alla volta, non è facile, per me e per lui. Però ci ho scritto un libro. Prima o poi te lo leggo a voce alta, devo solo avere un po’ di ore di seguito senza interruzioni. Anche tu non parlavi con il tuo, che è morto così, che non vi parlavate più da un pezzo, non aveva nemmeno un ricordo con il nipote che portava il suo nome ma ne teneva la foto in cassetta di sicurezza, la foto della Comunione. Gliel’avevi mandata tu, chi altri? Comunque, non ti arrabbiare, io e papà la sistemiamo, è che abbiamo troppa gente intorno e io quando lo sento voglio sapere di lui e lui mi racconta di altri e io mi scoccio perché voglio parlare di lui e se voglio parlare di altri chiamo gli altri e invece lui non lo capisce, ma tu stai tranquillo, è che abbiamo un carattere simile io e lui, ma è per questo che ci ritroveremo. Io e Pepe abbiamo scommesso, guardando l’ora, lei diceva che stava sul divano a guardare un film di guerra, io che si era già addormentato e poi abbiamo riso perché abbiamo detto insieme che si era addormentato sul divano mentre guardava un film di guerra. Infatti. Vabbuò, l’ho chiamato e gli ho passato Pepe che quando gli parla un po’ è sempre piccola anche se non lo è più. La piccola compie quindici anni. Madonna, è alta più della sorella, accanto al padre dovresti vederla, un pezzo di ragazza che non finisce più, con le spalle larghe e una montagna di capelli pieni di profumo, da far girare la testa perché ci mette la maschera e lo shampoo e un profumo proprio per capelli e poi ha questo viso così vero, morbido, un viso che accoglie, la bocca bellissima, carnosa. È bellissima. Di viso assomiglia a noi, tanto. Ma lei è alta, noi siamo tutti più corti, lei invece quando mi abbraccia la sua testa chi la vede più. A me piace che non vedo più la testa delle mie figlie, sai. A pensarci è così che deve essere. Devi perderla la testa dei figli, che vada oltre, che veda oltre, che sia più su della tua. Mentre lei parlava con papà mi sono persa a pensare così. Glielo avevo promesso che l’avrei portata a scoprire quel pezzo da cui arriva anche lei, perché anche se non sono lì le sue radici sono lì le sue origini e le radici le puoi rimettere un po’ in altri vasi, così è successo a molti, ma le origini quelle le hai dentro, se ti tagliano un pezzo e lo analizzano al microscopio le trovano. Dai quartieri arrivavano canzoni e voci, clacson e urla, Pepe parlava con il nonno e pure io parlavo con te.  

L’ho portata a Piazza del Plebiscito, subito, dovevo raccontarle la storia delle statue di Palazzo Reale, perché quella storia deve tramandarsi e niente come il racconto serve a questo, allora l’ho fatta mettere davanti alla prima e ho iniziato, siamo arrivati all’ultima, quella con la spada alzata e ho concluso la storiella lei ha riso e me la sono immaginata tra trent’anni, raccontarla a qualcuno perché non vada perduta, me la sono immaginata mimare il gesto con la spada sguainata e ridere quasi sguaiata ancora, lì in quella piazza, con il cielo appena coperto da nuvole di passaggio perché tutto è di passaggio e me la sono immaginata così intensamente da dire che si trattava di un ricordo, un mio ricordo nitido e preciso. E poi siamo scesi fino via Partenope a guardare il vulcano, e risalendo abbiamo fatto merenda in Piazza Trieste e Trento e la sfogliatella frolla batte la riccia, lo sai, a me è sempre piaciuta di più, ma noi la chiamavamo liscia e non frolla, vabbuò, la frolla piace di più pure a Pepe e poi abbiamo ripreso a camminare e ridere e parlare, io raccontavo e traducevo il dialetto che arrivava dai vicoli, siamo andate nei quartieri perché avevamo cose da cercare, da vedere, abbiamo schivato motorini con la dimestichezza imparata in tre minuti di adattamento e poi abbiamo trovato il posto per cenare, una pizzeria con il nostro cognome, che bellezza, il titolare si chiama come papà, con il nome di tuo padre, sicuro siamo parenti in qualche strano modo che non abbiamo indagato ma lui mi ha detto che potevo tornare quando volevo, che quella era casa mia, la stessa cosa che mi dicevi tu, mi ha fatto ridere assai, ho ricordato quella volta che ti arrabbiasti moltissimo perché avevo chiesto se potevo prendere non so più cosa in frigo e tu mi hai trattata bruscamente, fuori sul campanello ci sta il nome tuo, qui puoi fare quello che vuoi, non devi chiedere mai più e io non ho chiesto mai più ma non ho mai aperto il frigo. Però ho capito cosa intendevi. E comunque avevi ragione, è davvero successo che anche le madri possono dare il cognome ai figli pure se non sono figli di zoccola, come dicevi tu, si può decidere quale cognome dare ai figli, quello del padre o quello della madre o entrambi. Quando sono nate le mie figlie non era ancora così pienamente, hanno il cognome del padre, so che capisci, va bene così. Ci mancava pure passare per zoccola, già mi sono sentita dire che affidate a me sarebbero diventate schifose come me, come se potessero essere affidate ad altri, come se fossero in affidamento. Come se. Vabbuò, ogni tanto mi sarebbe piaciuto averti lì, in quel momento. Avresti trattato chi me l’ha detto come una mappina, l’avresti incenerita e mi sarebbe piaciuto. Ho dovuto fare da sola. E pure questo l’ho imparato sai, per adattamento. Come a schivare i motorini, come a sapere che tutto passa, che la testa dei figli deve stare più in alto della tua perché tu devi restare la base ma l’altezza è roba loro. Però la piccola ha gli occhi nocciola e la capacità di incenerire, va solo addestrata, e la grande si mangia i prepotenti e i fascisti come spuntino. So che ti piacciono.

La prima notte è stata difficile, il cambio letto, il respiro di Pepe e non di suo padre accanto, il rumore di una città che non dorme mai, che non si sta mai zitta, che non ti lascia in pace mai, che mai ti regala solitudine. Dal vicolo sotto arrivavano canzoni neomelodiche di quelle che, sinceramente, detesto. Pensavo a te, a me, a papà, a cosa significa andare via e tornare, a quanto male fa andare via e non tornare, pensavo a mio fratello, a Cri, a Lui, ai cani, al lavoro sulla scrivania, a una piazza rotonda, a dove metterci gli angoli, al gatto Benito, alla follia che si diluisce nelle generazioni, a una ragazzina con le trecce che ha il fratello in guerra e vede entrare un ragazzo in negozio per dire che quel fratello è vivo, al giro del giorno dopo che era già arrivato, la luce che filtrava debole, il giorno dopo a volte arriva prima, a noi che non diciamo prima e dopo ma primm’ e dopp’, senza vocali a chiudere, sempre tutto aperto, che tutto si veda e tutto si senta e non come parlano su, che non li capisci mai, che non sai cosa vogliono dire che basta non dire male e chi se ne fotte se si pensa male, basta che non si dica e che non si sappia, pensavo a queste parole per te e per me, a quelli che vengono a leggere qui per farsi i cazzi miei perché io quelli racconto, sai come si dice, parlo di me perché non voglio convincere nessuno, a quelli che vengono a leggere per incazzarsi perché dico che sono mappine. Non perché lo penso, ma perché lo dico. Vabbuò. Pensavo a come diciamo il presente: mo’. Perché noi lo sappiamo che il presente è veloce, che è nel prima e nel dopo che dobbiamo infilare la sostanza, adesso è già finito. Serve a nutrire il prima e il dopo. Il sonno mi ha presa dal vicolo, diceva t’aggio voluto bene a te, tu m’è voluto bene a me, aveva gli occhi nocciola e la pancia piena di vita.

Abbiamo fatto colazione con due lisce e due cappuccini, pure se abbiamo detto frolle. A Piazza del Gesù, poi siamo andate per via dei Tribunali, in san Biagio dei Librai, San Gregorio Armeno, abbiamo visto il Cristo velato, abbiamo mangiato un cuoppo di mare e uno misto di terra, siamo andate a Santa Luciella, ,me l’aveva suggerita Diego e ha fatto bene, su queste cose mio fratello è un’ottima fonte. Pure su altro, per carità. Lui c’era stato da poco, pure alla pizzeria col nostro cognome. Volevo che Pepe capisse perché. Perché i morti non muoiono mai, da dove ci arriva questa capacità di non interrompere mail il dialogo, il racconto, abbiamo fatto visita alle capuzzelle, “il nonno lo dice sempre e anche tu” ha sussurrato lei giù nella cripta. “E i teschi girati?” Ha chiesto un turista bresciano di quelli che se muori muori e se vivi vivi e non puoi partecipare di entrambe le condizioni nello stesso momento. I teschi girati sono stati girati perché non sono stati di parola, non sono stati intercessori adeguati e allora tutti devono sapere che sono inaffidabili, così che a nessuno venga in mente di prendersi in carico di spendere due preghiere per queste anime non di parola. Quanta vita in questo gesto. Lo sai, vero, che ti ho girato? Quando mio nipote è stato male, malissimo, ho preso la tua foto bello sorridente e urlandoti “che cazzo ti ridi” ti ho girato che manco volevo vederti con questo faccione morbido e le labbra carnose. Quando ho pensato che sarebbe morto ,perché l’ho pensato e non mi stava bene, per niente. E mi ero sempre arrangiata molto, lo sai, poche volte ti ho chiesto qualcosa ma questo sì. Ci ho messo in cambio, perché tu lo riferissi a chi volevi, qualunque cosa. Persino il libro su mio padre. Persino un pezzo mio, di vita mia, pure che non ne dispongo direttamente, non me ne fotteva proprio. E tu niente. Allora ti ho girato e vaffanculo. E vavattenne proprio, da te non me l’aspettavo. Mi avevi detto, quando da ragazzina ero stata male e anche tu eri ricoverato ma in un altro ospedale che avevi chiesto di far guarire me al posto tuo, me l’avevi detto di nascosto da tutti, mi avevi preso in disparte, pensavo volessi lamentarti del fascista e invece era questo. Me al posto tuo. E quando io, anni dopo, ti ho detto che ti amavo così tanto da volerti dare un po’ di anni miei tu mi avevi risposto che mi amavi così tanto da non volerne nemmeno uno di anni miei. Ecco. Noi così ci parlavamo, ricordi, tra i “non capisci niente” che ci rimbalzavamo a vicenda poi erano queste le cose che ci dicevamo quando eravamo io e te. Stronze cappuzzelle, ho biascicato nella cripta, chè i bresciani non sentissero. Prima di andare via ho lasciato un biglietto, con una richiesta, l’ho scritta in dialetto perché penso che per la cappuzzella sia più facile e che se deve scegliere tra una richiesta in dialetto e una in bresciano magari sceglie la mia. Comunque, poi ti ho rimesso a posto, la foto intendo.

Siamo andate a fare un saluto anche a faccia gialla, anche se non è che San Gennaro andasse forte da noi, non avevo aneddoti particolari da raccontare anzi non ne tenevo proprio e infatti mi sono stata zitta. Dalla via del Duomo si sentiva una voce che cantava ma ‘e vvote tu distrattamente pienze a me, Pepe era stanca per il tanto camminare, ha un problema al ginocchio e ho cercato di avere i giusti tempi di riposo ma non è semplice. Siamo state fermate da venditori di ogni tipo, uno teneva un canarino o comunque un uccello fetente che sorteggiava i numeri da giocare, voleva farmi beccare da questo coso, gli ho dato il doppio dei soldi purché lo tenesse lontano, Pepe ha riso, se c’è una cosa che mi fa schifo sono i volatili, ti pare che mi metto ad accarezzarne uno, davanti all’Università orientale abbiamo fatto un gioco matematico con un genio di strada, uno con il banchetto che a offerta libera ti fa sentire molto intelligente, che poi è quello che tanti vogliono, sai. Il mondo si divide , perché sì, il mondo si divide e tra le parti in cui si divide si divide tra quelli che è sempre merito loro e quelli che non è mai colpa loro. Io li chiamo i Fenomeni. Quelli che fanno 6×3 con la calcolatrice e ti dicono “ho calcolato”, quelli che scrivono 6 al posto di 3 e ti dicono  “la calcolatrice ha sbagliato”. A me fanno girare di cazzo, brutalmente proprio, divento cattiva, come per te quelli che imbrogliano le carte, madonna, li incenerirei. Su questo sto lavorando dal primo giorno con le mie ragazze, sai. Perché se il mondo si divide, e si divide, non voglio che stiano dalla parte che mi fa girare di cazzo, ecco. Abbiamo scattato una foto, di sera, c’è il vulcano dietro ma non si vede, c’è il mare ma non si vede, perché è sera. Ma sorridiamo, io ho qualche ruga sulla fronte, fili tra case nei vicoli, ci ho steso i ricordi, si vedono tutti anche se è sera. Ho gli occhiali, non li tolgo più per fare lo foto, solo tu insistevi perché lo facessi e così non ho una sola foto bambina nella quale mi riconosco. Però so che ci sei tu dietro a tutte le foto, destinatario di ogni mio muso lungo, prima di ogni foto c’è una discussione, dopo ogni foto c’è una recriminazione. Pensa che mo’ le foto le fai con il telefonino, chi te lo doveva dire, eh? È una foto venuta abbastanza una chiavica ma quando la guardiamo noi sappiamo dove siamo, sappiamo che avevamo appena finito di cenare alla case dei femminielli, nei quartieri, che Ciro il cameriere era stato gentile di una gentilezza per niente sabauda ecco perché ce ne siamo accorte, che si trattava della nostra ultima sera nelle origini ma che ci stavamo promettendo di tornare. Per le rughe prendo il collagene, tutte le mattine una compressa. In teoria serve per le articolazioni ma pare che faccia bene all’aspetto della pelle, delle unghie e dei capelli. Non so. È che sto a un passo dai cinquant’anni, manca ancora un pezzo ma non un gran pezzo. Tu mi immagini così? No, penso di no. A volte neppure io mi immagino così. A volte invece mi immagino così intensamente da dire che si tratta di un ricordo , un mio ricordo nitido e preciso.

Ah, ecco, pure questo volevo dirti, che mi sto leggendo delle cose sull’eternalismo. Allora, è una cosa che tu prendi primm’, dopp’ e mo’ e li unisci tutti e tre. Non ci sta più primm’ e non ci sta più dopp’ e manco mo’. Ci stanno tutte le cose insieme. Un blocco unico. Perché non pensi più al tempo come lo pensavi ma lo pensi come pensi allo spazio. E se nello spazio dici che qualcosa sta lì, nello spazio, allora in questo modo pure del tempo puoi dire che qualcosa sta lì, nel tempo. E tutto è già passato ed è già futuro. Ci sei già stato e un altro ancora non c’è stato, perché tutto questo ci azzecca con la relatività. Tu ci sei già stato e io ancora no, io ci sto adesso e tu poi, nel tempo. Ci sto lavorando, come a tante altre cose, la mia testa frulla sempre, ma stavo cercando qualcosa che mi aiutasse a stare. Voglio stare. Non restare, non andare, non tornare, voglio stare come stanno quelli che sanno dove stanno e perché stanno. Voglio stare. Voglio stare male finché non passa e stare bene finché dura, voglio stare nella testa delle mie figlie per non morire mai, voglio stare al telefono con mio padre e chiedergli se lui ha capito come si sta non nello spazio ma nel tempo, voglio stare in una cripta a pregare pure se non sono capace e se non ci credo basta che ci credano le cappuzzelle, voglio stare sul treno che arriva senza mai arrivare e sul quello che parte senza mai partire, voglio stare negli anni miei, e  te li ho dati tutti pure quelli in cui non sei dietro le foto e voglio stare negli anni tuoi, tutti, pure quelli in cui non sto dentro la foto.

Prima di partire siamo passate dall’ospedale delle bambole, ma non siamo entrate, avevamo la valigia e il pensiero già al treno. Accanto c’è un negozio che restaura oggetti. Si riparano ricordi, dice l’insegna. Mi veniva da piangere e ho pianto senza che Pepe se ne accorgesse perché non volevo spiegare niente, mi sono sentita improvvisamente stanca di secoli. Ho dimenticato di dirti che qualche settimana fa mi sono sognata che perdevo quattro denti, che venivano via tutti insieme, attaccati tra loro e con la lingua sentivo la voragine in bocca e il ferro del sangue, se vedi nonna chiedile un po’, so che non è niente di buono. E ho dimenticato di dirti che Diego mi ha chiesto “hai una foto del nonno?” e io stavo in giro, gli ho detto quando vado a casa e ho sorriso perché non abbiamo avuto bisogno di chiarire quale nonno. Il mondo si divide nei nonni solo nonni e i nonni con il nome. E ho dimenticato di dirti che ogni tanto sprofondo ed è un dolore al qual non mi abituerò mai ma che ogni volta imparo qualcosa e allora lo accetto, di sprofondare dico, va bene, anche se un giorno non tornerò su ma vorrà dire che non c’è più niente da imparare e comunque da qualche parte nel tempo è già così quindi non mi agito e poi ancora volevo dirti che la pastiera di zia è meglio di quella di Scaturchio e che da quando non la chiami più tu Mimosa nessuno la chiama più Mimosa e non so se lei di questo è felice oppure no. Io lo sarei, perché ci sono cose che non è che chiunque può fare o dire. Andando verso la stazione ho sentito cantare ma ‘e vvote tu distrattamente parl a me, e non ho mai tenuto il conto delle volte in cui me l’hai intonata e anche se non volevo crederci  alla fine ho capito, allora mi sono girata a salutare.   

 

Un pensiero su “Da qualche parte nel tempo

  1. Bellissimo, come spesso capita qui dalle tue parti. E questo me lo copio da qualche parte: “qualcosa ti fotte, qualcosa ti piace pure se ti ha fottuto un po’, qualcosa ti manca, qualcosa manco per nulla, ma di tutto questo qualcosa niente resta.”

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