Sin qui

Gennaio sommesso, spalle basse e sguardo da fesso, arrivato senza un invito come un parente che passa sempre lo stesso giorno e alla stessa ora per un saluto anche se non è gradito. Gennaio non facciamoci illusioni, gli ho detto scortese, è molto probabile che tu mi stia sui coglioni, non voglio promesse che non manterrai, non ti offro propositi e questo già lo sai. Gennaio assomigli a un mio zio che cammina con il fare del prete di campagna, al posto del breviario lo smartphone con cui verifica sempre qualcosa, piccola enciclopedia portatile, nuova fede più veloce della conoscenza, più indolore della conoscenza, che fastidio quell’aria triste da piccolo salvatore di anime, Gennaio, anche tu sei così, parli di ciò che non sai, fingi di sapere ciò che dovresti sapere, anche tu sei un piccolo parrino lagnoso. Quando ero piccola mi dicevano che l’inferno è pieno di monache e parrini non per farmi diffidare del clero ma per insegnarmi che il bene non è quello che mostri o quello che predichi ma solo quello che fai. Gennaio agenda nuova e impegni vecchi, orizzonte lontano e visibilità scarsa, tutti gli auguri in un giorno solo lanciati a caso senza pensare che forse qualcuno lo si poteva conservare per quei giorni più lunghi, quelli un po’ bui che sono quelli in cui gli auguri servono davvero. Gennaio senza più compleanni, ci hai regalato il Tapazole tre volte al giorno fin dal mattino, la scatolina accanto alle fette biscottate e alla marmellata di frutti di bosco perché Lui lo trovasse già lì a colazione e non se ne dimenticasse. Gennaio lo spavento non era tra i patti, sei stato scorretto, una cosa sola ti ho detto: contaci adesso, guardaci tutti, così iniziamo e così finiamo. Gennaio di 31 giorni e cento notti a guardare il soffitto senza vederlo, a contare i pensieri che mi tengono sveglia, a prendere decisioni irrevocabili dismesse all’alba, a denudare gli alibi che porto in giro ogni giorno per fargli prendere freddo, per indebolirli, per farli ammalare e morire senza tentare alcuna cura e poi portare i cadaveri alla dottoressa della mente per l’autopsia, per dirle guardi, guardi come sono stata brava, è vero che sono stata brava? Mi dica che sono stata brava, come direbbe al gatto che le porta una lucertola o un topo, come direbbe al cane che le riporta il bastone. Gennaio, li ho schierati tutti così i miei alibi, come prigionieri di guerra da fucilare, solo che non ho sparato.

Febbraio piccolo e stretto come un parcheggio perfetto, sai come sei entrato e non sai come ne uscirai ma intanto chiudi e te ne vai, poi torni a controllare se hai chiuso per davvero e poi controlli se hai messo via le chiavi e mentre le cerci ti dimentichi cosa stavi facendo e non ti ricordi se l’auto alla fine l’avevi chiusa. Febbraio di scatoloni da trasloco e disdette di forniture, cambio di isolato, prospettiva e vicinato. Febbraio a tritare documenti prima di smaltire la carta nel bidone condominiale, Febbraio a contare gli anni di un foglio prima di distruggerlo, se sono più di dieci sì, se sono meno di dieci no, Febbraio se fosse così anche nella vita con i dolori e con i sogni, con gli amori finiti male, con le delusioni e con le risposte giuste che arrivano a discussione ultimata. Febbraio stretto e lungo, assomigli al corridoio della casa in cui abitavo da bambina in Via San Marino, con il marmo freddo sotto il culo quando facevamo le gare con le macchinine lanciandole contro la porta della cameretta. Febbraio primo anniversario della terra che trema sotto i miei piedi, del marmo che si incrina sotto il mio culo di bambina, primo anniversario senza ancora una diagnosi, Febbraio terapia intensiva, ricerca del perché quando nessuno sa il perché, Febbraio a volte il perché non è complemento di causa ma complemento di fine, preghiere buttate al vento, preghiere spedite senza indirizzo, preghiere fatte con le mani aperte, spalancate ad offrire tutto in cambio di. Febbraio mascherato, Febbraio già un anno è passato eppure sembra ieri, quante volte lo si dice anche se non è vero tanto per dire invece sono solo bugie, bugie buone come quelle che preparava Cocò, che ogni Febbraio dico sempre a Lui sapessi che buone le bugie che preparava mia nonna come se fosse merito mio, un vanto, una gara del tipo tua nonna preparava carciofi che si digerivano in otto giorni e la mia faceva le bugie più buone del mondo e invece non lo so più, Febbraio, è una bugia anche questa, sai, io non lo so più il sapore che avevano, io ne ho sempre mangiate poche perché non mi piacciono poi metteva tutto quello zucchero sopra che mi si rivoltava anche un po’ lo stomaco, ecco cos’è, Febbraio, io ricordo solo il profumo entrando in casa, l’odore già sul pianerottolo ma il sapore no, quello l’ho dimenticato. Febbraio anche se sembra ieri io ho cento anni in più ormai.

Marzo bulbi appena comprati, terrazzo da pulire, giardino da abbellire, Marzo rinviamo tutto ad Aprile. Marzo bambino mai nato la mamma non ti ha dimenticato, Marzo senza soste solo qualche fermata senza mai scendere dal mezzo che forse sei in divieto. Marzo scellerato che mi spalleggi nella follia del Master, due esami infilati come orecchini nuovi, speri non facciano infezione ma se è oro difficilmente accade. Marzo senza sogni da raccontare, senza giorni da festeggiare, un saluto verso il cielo la sera dell’ultimo giorno come la richiesta di un bacio, con l’indice che picchietta la guancia, qui me lo devi dare, sin qui me lo devi mandare e mandamelo grosso che manchi, manchi tanto. Marzo senza più una dose su tre di Tapazole, Marzo senza pioggia non sei nemmeno all’altezza dei proverbi, Marzo senza stupore, Marzo senza di te tutto esisterebbe comunque e non ti offendere, sii onesto. Marzo commercialista alle calcagna bisogna chiudere i bilanci, Marzo se fosse così anche nella vita al posto dei giustificativi allegherei le giustificazioni e porterei in detrazione di tutto, Marzo di 31 giorni e cento notti a guardare il soffitto senza vederlo, a contare i pensieri che mi tengono sveglia, a prendere decisioni irrevocabili dismesse all’alba, a vestire per bene le giustificazioni che porto in giro ogni giorno per renderle belle, accattivanti, perché diventino irresistibili e poi portarle per mano alla dottoressa della mente perché veda anche lei, anche lei si renda conto che non posso, non posso proprio, è d’accordo anche lei, vero? Mi dica che è d’accordo anche lei. Marzo, le ho vestite tutte così le mie giustificazioni, come bambole deliziose con cui giocare da sola, perché gli altri potrebbero rovinarle, solo che non ci ho giocato.

Aprile crudele, da dove sei arrivato e poi davvero te ne sei già andato? Aprile esame complesso, a quasi quarantacinque anni la paura di non farcela è la vera prova, Aprile esame superato e la paura di non farcela è ancora lì per la prossima sessione che mi osserva famelica come un umarell davanti a un nuovo cantiere . Aprile anniversario con ventidue candeline da quella prima sera in cui dovevamo solo bere qualcosa insieme spinti dalla curiosità e dall’attrazione come quando scopri una nuova specie, un nuovo esemplare, un animale che non sapevi abitasse il mondo, solo quella sera e poi basta, troppo giovane io, troppo incasinata io, i giovani sono sempre incasinati, troppo studentessa io, io sono sempre studentessa, troppo fidanzato Lui, troppo prevedibile Lui, i fidanzati sono sempre prevedibili, troppo impegnato Lui, Lui è sempre impegnato. Aprile il desiderio sulle candeline e di Lui è sempre lo stesso di ventidue anni fa, ma come fai mi hanno chiesto, non lo so, lo faccio, come il bene, come le preghiere con le mani spalancate, offro tutto quello che ho in cambio di. Aprile di feste e ponti, di scuole chiuse e ultima neve, stambecchi fuori dalla finestra, libri finiti e libri iniziati, libri immaginati, Aprile di confessioni davanti a un caffè, Aprile puerile di cioccolato e sorprese, di pastiera da lasciar riposare come qualcuno dopo un viaggio, di zia che chiede com’è venuta, buona le dici, davvero buona ed è vero. Come quella della nonna? Vuole sapere lei, meglio la rassicuri tu anche se non ti ricordi più com’era quella della nonna, nemmeno il profumo, niente, la nonna, lei, sì, sapeva di buono sulle guance ma solo questo è rimasto, Aprile, niente di più, che uno vive tanti anni e forse ne basterebbero meno, che forse a saperlo baratteresti qualche giorno o qualche mese con qualcosa di più durevole di un sapore buono sulle guance. Aprile, ho lavorato poco e male, mi sono distratta ed eri finito, Aprile sei la pastiera che non abbiamo fatto riposare come qualcuno che non vedi l’ora di incontrare.

Maggio gradasso, spalle larghe e sguardo sfrontato, esattore  ingrato passa all’incasso, non concede proroghe né dilazioni. Maggio grande festa per il genetliaco del capofamiglia, Maggio di preparativi fino al 18, Maggio di festeggiamenti dal 18, Maggio mi ha dato il primo e l’ultimo amore, con uno ho scoperto la parte di me in cui tengo le riserve del bene che posso provare, con l’altro ho imparato la strada per arrivarci. Maggio sogni da raccontare: Lui che ha la facoltà di muoversi nel tempo e decide di andare a vedere nel mio passato, com’ero da bambina e da ragazzina e poi viene a raccontarmelo, io che gli dico che la cosa non mi rende contenta, insomma che si facesse gli affari suoi ma va bene solo perché è Lui, Lui può anche se non sono contenta, e poi va nel futuro e vede il giorno della mia morte e me lo viene a raccontare, eri irriconoscibile, mi dice, e c’era tanto dolore. Scusa, gli chiedo io, finché sono viva, perché dopo non si può più, scusa per il dolore, non vorrei causartene mai. Poi mi sveglio, perché sono viva, dopo non si può più. Maggio, tu lo sai che vorrei morire prima io, che quest’anno Lui compirà gli anni di suo padre quando è morto, Maggio tu lo sai che adesso Lui compirà i suoi anni di adesso e basta, che suo padre aveva compiuto i suoi anni di allora e che ciascuno ha avuto la sua vita e la sua sorte sin qui.  Maggio prime partenze che sono le ultime, Pepe che vola lontano, io che provo una fame ingestibile, incontenibile, smisurata, una fame come quello che provo per lei, un vuoto nella pancia che è libertà e felicità e che non so come colmare, Cristina che quando fa una cosa per la prima volta la fa per la prima volta,  Pepe che quando fa una cosa per la prima volta la fa per l’ultima volta, Maggio, non ci saranno più primi viaggi lontani. Maggio esami di prevenzione con le dita incrociate, come se la prevenzione si potesse fare con un esame diagnostico che se c’è qualcosa lo mostra mica lo previene, è evidente che per la prevenzione occorrono le dita incrociate.  Maggio saggio finale di Teatro dopo nove mesi di prove, Maggio gare a squadre dopo nove mesi di allenamento, Maggio lo sanno tutti che Giugno non esiste davvero, Maggio interrogazioni finali dopo nove mesi di scuola, Maggio sei un parto di 31 giorni e cento notti a guardare il soffitto senza vederlo, a contare i pensieri che mi tengono sveglia, a prendere decisioni irrevocabili dismesse all’alba, a lottare contro le paure che mi ricoprono il corpo, a esfoliare e grattare via, per cancellarle, per eradicarle, e poi presentarmi dalla dottoressa della mente e mostrarle la pelle liscia, perfetta, nemmeno un segno, nessuna imperfezione, per dirle guardi, guardi sono stata costante nell’applicazione dei rimedi contro gli inestetismi delle paure, è vero che sono stata costante? Mi dica che sono stata costante, me lo dica come farebbe un allenatore con il suo atleta, me lo dica come farebbe un insegnante con il suo allievo. Maggio, le ho schierate tutte così le mie paure, come pattumiera da buttare, come scarti di produzione da non riutilizzare, solo che non ho ancora finito.   

Partenze

Per prima cosa i documenti: carta d’identità, tessera sanitaria e passaporto. E la fotocopia del passaporto perché quando sarai lì porterai con te solo la fotocopia, il passaporto lo lascerai in valigia e chiuderai la valigia con il lucchetto, quello con la combinazione. Ci dobbiamo ricordare il lucchetto. Poi, a dirla tutta, la carta d’identità è un di più. Però l’hanno richiesta e allora la porterai. I documenti sono importanti, ricordatelo. Dicono quando sei nata, dove, di che colore sono i tuoi occhi e i tuoi capelli, quanto sei alta, dove vivi. Ma non dicono chi sei. Non dicono che il giorno in cui sei nata c’era l’afa che precede i temporali estivi, che la città era quasi deserta e si parcheggiava facilmente vicino all’ospedale, che hai gli stessi occhi di mio padre e anche la bocca è la sua e che quando ti chiamo Laezzina ti arrabbi e mi dici no, che non sei Laezza , che i tuoi capelli cambiano colore al mare e io li preferisco sciolti ma tu li leghi per esigenze sportive, che sei cresciuta di almeno 20 centimetri da quando hanno rilasciato i tuoi documenti, quelli che devi portare con te perché sono importanti, ricordatelo anche se tutte queste cose non le raccontano, ecco perché ci sono mamma e papà . E ricordati che i documenti scadono.  Non cambierà il giorno in cui sei nata, né il luogo e neppure il colore dei tuoi occhi ma loro scadranno e bisognerà scattare nuove foto e compilare nuovi moduli. I documenti fanno una vita loro che prescinde da quella della persona che attestano, a volte i documenti sono validi e la persona non esiste più. E allora quei documenti servono a niente. Non sono più importanti.

Sono andata alla riunione indetta per spiegare ai genitori tutto per benino e i professori si sono resi disponibili a rispondere alle domande. Sono andata a tutte le riunioni, tutte. Da quando eri nella sezione dei Fiordalisi, all’asilo. E poi nei Big Flowers, all’ultimo anno, prima di andare alle elementari quando non eri più un semplice fiordaliso ma un fiore grande e allora non facevi più la nanna. Diventare grandi significa che non devi più fare qualcosa che prima volevano che tu facessi, questo mi è sembrato di intendere alla riunione quell’anno. Diventare grandi, a volte, è una fregatura. E poi alle riunioni con la maestra Monica, per cinque anni, per sentire parlare della classe nel suo insieme perché quello era il tuo insieme, era il posto dove trascorrevi otto ore al giorno tranne il mercoledì. Sono sempre venuta a prenderti il mercoledì a pranzo, perché tu mangiassi a casa e potessi fare i compiti con calma e anche giocare un po’ o riposare.  Non hai mai voluto riposare dopo pranzo, da quando sei diventata un Big Flowers.

Le domande che ho sentito porre ai professori erano agghiaccianti. Saltellavo da una natica all’altra in preda al mio consueto fastidio sociale, quello che mi coglie in questi contesti nei quali non posso dire ciò che vorrei e allora sto zitta perché, ancora, non ho trovato un bel modo di dire quello che penso e a questo punto dubito che mai succederà. Poi, c’è un problema culturale. Mi rendo conto. Mi manca la sabaudità, per evidenti motivi di origine geografica. Quell’atteggiamento culturale e posturale e facciale ed espressivo per cui riesci a far credere al tuo interlocutore di apprezzarlo anche se lo detesti. Ma da questa riunione ci ho guadagnato l’aver compreso che ho sbagliato per tanti anni a reputarmi una pessimista perché io immagino di lasciarti partire senza che ti accada una qualche tragedia per una settimana e questo un pessimista non dovrebbe essere in grado di farlo.

-“no, non abbiamo la ricetta per il bentelan ma mi sento più sicura se lo porta con sé, mio figlio, ma non voglio che lo tenga e che lo assuma se non ne ha bisogno”

-“sì, signora, capisco, ma noi non possiamo somministrare farmaci. Il ragazzo sa quando deve, nel caso, assumere il bentelan?”

-“no, lo so io, lo guardo e so se deve prenderlo”

-“signora, non so come possiamo gestire questa cosa, il ragazzo non ha patologie per le quali deve sicuramente assumere il bentelan?”

-“no, ma se gli viene un broncospasmo sono più tranquilla se si prende un bentelan. Però non posso lasciarlo a lui anche perché che ne so che non lo dà ai suoi compagni e non voglio la responsabilità che poi dicono che mio figlio ha dato farmaci a un altro”

Mentre si consumava la tragedia del potenziale broncospasmo con spaccio di farmaci mi hai scritto un messaggio dal circolo, avevi finito gli allenamenti e andavi a far merenda al bar, ti ho chiesto se con i soldi eri a posto mi hai mandato un pollice in su. Grazie per non aver più sofferto di broncospasmo dai quattro anni, per non aver più sofferto di acetone dai cinque e per aver anche avuto poca crosta lattea da neonata. Grazie, perché è vero che non sei stata facilissima e che siamo partite molto male io e te ma ce l’abbiamo fatta. Ne siamo uscite. Con i polpacci più forti e le braccia più resistenti.

Poi, il pranzo al sacco, solo per il giorno della partenza, è chiaro. Siete più di 40 ragazzi, non possono gestirvi a pranzo nel bar dell’aeroporto, lo capisco. Io odio i pranzi al sacco. Va bene il panino, va benissimo, ma lo prendo già fatto al bar, non me lo porto dietro da casa da quando ho facoltà di scelta e quattro spicci miei in tasca per comprarlo. Tu non sei me, grazie anche per questo. A te il pranzo al sacco va benissimo e allora lo prepareremo. Cioè, tuo padre lo preparerà. Perché lui è il re dei pranzi al sacco, gli piace aprire le carte oleose in cui ha fatto mettere i due etti di cotto e i due etti di crudo tagliato non troppo sottile, gli piace disporli sul pane intiepidito, avvolgere tutto nella carta per alimenti, niente stagnola che inquina, e poi nei sacchettini di carta, tutto ben chiuso che non prenda aria fino al momento in cui non aprirai il tuo pranzo al sacco e quell’odore si mischierà a quello dei sacchetti dei tuoi amici e a quello delle vostre scarpe da ginnastica della Nike e delle vostre ascelle nelle felpe oversize seduti a terra vicino al gate mentre i professori vi contano ossessivamente. Non faranno altro che contarvi ossessivamente. Sarà bellissimo, vedrai.

Tu sei autonoma per i bagagli. Non so da quanto tempo ho smesso di prepararteli quando partiamo. E non ti manca mai niente, sei molto organizzata. I prodotti per la doccia e il districante per capelli quello che ha un buon profumo, te l’hanno detto anche le tue amiche,  le ciabatte per andare in doccia perché ce lo ricordiamo ancora quanta fatica ci è costata la verruca del 2018. Il caricabatterie e l’adattatore per le prese di corrente, diversi strati di abiti perché la preside è stata chiara: bisogna che vi vestiate a cipolla, sono previsti dai 3 ai 12 gradi e dovrebbe anche piovere quindi dovete essere ben equipaggiati. Non so se porterai con te la copertina rosa, la tua copertina dudù, con la quale dormi da quando dormi quindi non proprio da sempre ma quasi. Non te lo chiederò, quando salirò in mansarda a rifare il tuo letto dopo la partenza me ne accorgerò. Una parte di me vorrebbe che la portassi, quella che sa che chi accompagnerò al pullman per l’aeroporto non sarà del tutto la stessa persona che una settimana dopo andrò a rirendere e allora la copertina rosa è il segnale che niente di importante può essere cambiato in quello spazio di tempo. Se non la porterai capirò e un giorno ti dirò che ci saremo consolate a vicenda di questa tua scelta, io e la copertina rosa, sedute sul tuo letto prima di metterla sotto la coperta e spegnere la luce.

-“vorrei che organizzaste un gruppo Whatsapp nel quale poter ricevere notizie da voi professori perché mi hanno detto i genitori delle seconde che loro hanno avuto informazioni solo dai figli o grazie all’app di localizzazione che alcuni ragazzi hanno, anche di quelli che erano problemi del gruppo e non penso che sia giusto, noi genitori dovremmo essere informati subito di cosa accade”

-“signora, saremo sicuramente molto impegnati durante il giorno, tra le attività nel college e le uscite, quindi vedremo, poi consideri che i rappresentanti di classe hanno i nostri numeri di cellulare e quindi potete far riferimento a loro”

-“lo so che i rappresentanti hanno i vostri numeri ma non li condividono con gli altri genitori, io vorrei sapere subito quello che sta accadendo”

-“sì, posso anche comprendere, ma i nostri numeri sono personali, non sono utenze lavorative, non penso che accadrà nulla di diverso da quello che accade quando i ragazzi sono a scuola, tra l’altro abbiamo deciso di lasciare ai ragazzi il cellulare tranne che per la notte perché è una sicurezza in più anche per noi, ecco, quindi se dopo pranzo e dopo cena vi mandano un messaggio direi che va bene”

-“ma noi genitori dobbiamo sapere cosa succede”.

Succede che mi sembra di essere fuori contesto. Anche qui. Eppure sono un genitore. I documenti dicono che sono tua madre, è scritto ovunque, anche nelle sequenze del tuo DNA, ho firmato tutto per te, ho dato il consenso preventivo all’assistenza medica. Ho sentito dire che non andava firmato quel modulo perché non si poteva autorizzare un trattamento medico a non si sa chi. Ho voluto guardare in faccia l’autore di questa frase. Mi sono girata, era dietro di me, con la camicia sbottonata sull’ombelico peloso e le scarpe con il rialzo interno, paonazzo in viso: non autorizzerà nessuno a intervenire chirurgicamente su sua figlia in un paese straniero senza essere informato, gli altri genitori forse non hanno letto quello che c’era scritto su quel modulo. Io quel modulo l’ho firmato. Dopo averlo letto. E dopo averlo capito. Succede che io le persone non le capisco, forse è per questo che non mi piacciono. Succede che avrei voluto mandarlo a fare in culo ma l’ho solo guardato. Forse è lo stesso. Succede che, di nuovo, la scala delle mie priorità è diversa da quella di molti altri. Succede che ogni volta che ti dico qualcosa o che faccio qualcosa che influisce nella tua vita io mi chiedo se lo vorrei per me. Ecco la bussola con la quale mi oriento in questo mare sconosciuto che è aiutare una persona a crescere mentre si è ancora impegnati a farlo per se stessi. Ecco svelato, amore mio, cosa si nasconde dietro ogni sì e ogni no, dietro ogni proposta e dietro ogni scelta. Io non la vorrei nel mio cellulare un ‘app che mi localizzi. Io vorrei che se un’auto mi investisse mi venissero prestati subito tutti i soccorsi anche se non era prevedibile che accadesse proprio a me e proprio quel giorno. Succede che il solo modo per essere certi che ai figli non succeda nulla è non farli.

-“sì, guardi,  i moduli sono standard e predisposti in modo uniforme per tutti i college, non so se sua figlia ha già avuto esperienze di studio all’estero ma le assicuro che non è un modulo diverso dallo standard. Cioè se lei ha intenzione di far fare altre esperienze all’estero a sua figlia si troverà a compilare moduli simili se non identici. Io capisco, da genitore, mi creda, ma vedete questa è un ‘esperienza che i ragazzi devono vivere completamente e anche con la spensieratezza dei loro quattordici anni, i vostri figli appartengono a una generazione che più di altre si muoverà con aerei e in vari Paesi, forse prendere confidenza anche con questi aspetti può essere utile anche per voi”

-“se il college vuole mia figlia la prende così, senza il consenso”

-“no, ecco, vede, siamo noi che vogliamo il college, non è che ci hanno chiamati per chiederci di andare. Siamo noi che abbiamo chiesto di andare. Anche questo aspetto, è importante per i ragazzi, perché bisogna anche imparare che quando si va in un altro Paese si va come ospiti e gli ospiti si adeguano alle regole che trovano nel posto in cui vanno non il contrario. Mi rendo conto che la cosa più dura è lasciarli andare, questi ragazzi”.

Dovrebbero dividerci in due gruppi, consegnarci il cartellino da attaccare al collo così da consentirci di sedere accanto a chi è del nostro gruppo ed evitare frizioni fastidiose. Sono brutte le divisioni categorie, lo so. Ma ci sono cose più brutte, le scarpe con il rialzo interno per esempio. Le categorie servono per organizzare, sono brutte se utilizzate per selezionare. I Trattenuti e i Non Trattenuti oppure  I Trattenenti e i Non Trattenenti. Lasciar andare non è difficile basta aprire la mano, allungare il braccio, restare indietro qualche passo, aprire la porta , è trattenere il problema, richiede uno sforzo al quale si finisce con l’affezionarsi, come a certi dolori o a certi aguzzini. Io trattengo le lacrime, spesso. E anche la rabbia, meno spesso.  Trattengo molto anche la fatica. A volte la pipì, lo so che fa male ma a volte la trattengo. Gli starnuti, ogni tanto li trattengo. Le risate, pochissime volte, quasi mai. Le persone, mai. Pongo delle premesse molto chiare, spiego brevemente come funziono, sembro difficile ma non è così, sono molto più intuitiva di quel che sembra: se dico sì intendo dire sì, se dico no intendo dire no, le mie frasi non sono fraintendibili, non intestarmi parole o pensieri che non ho mai formulato e non provare a convincermi di averli formulati perché ho un’eccellente memoria. Fine. Se vuoi stare qui, vicino a me, va bene. Se vuoi andare, vai. Va bene. Ho fatto lo stesso anche con te. E con tua sorella. Fin da subito, mamma è questa roba qui, di passaggio nella vostra vita eppure destinata a restarci per sempre, anche dopo la scadenza dei miei documenti.

Lo zaino. Niente liquidi nello zaino prima del volo, il cellulare e i caricabatterie, non stare a portarti un libro perché l’ultima cosa che farai durante il volo sarà leggere in mezzo ai tuoi amici. I fazzoletti di carta e le salviette intime se devi usare la toilette, non appoggiarti, ma questo lo sai da quando hai 18 mesi. Il portafogli con i soldi, comprati qualche stronzata, te la sei meritata, non stare a spendere soldi per mamma e papà, non ci serve niente, se proprio qualcosa ti fa venire in mente casa allora sì, prendila. Per tua sorella prendi qualcosa, lo so che lo farai, sembra che possiate stare benissimo una senza l’altra ma poi scopro che vi sentite, vi mandate messaggi, vi chiamate. Anche se non vi mancate, certo, lo so. Guai dire il contrario. E poi mettici quello che vuoi, nello zaino, per lo spazio che resta. Se tira troppo sulle spalle regola bene le spalline, allentale, se vedi che c’è confusione giratelo davanti e portalo sulla pancia, lo so che non è bello da vedere ma almeno lo tieni sotto controllo, però non ti fissare troppo con questa cosa del controllo che a te basta poco per passare il segno e diventare la Signorina Controllina e si tratta solo di uno zaino e tutte queste raccomandazioni riportamele indietro nel sacchetto della roba sporca.

L’amore di mamma e papà. Quello non hai bisogno di infilarlo in valigia, è la valigia. E allora speriamo che stia nel peso quando passerai i controlli al check in, quello è il bagaglio con cui girerai nel mondo senza di noi e potrai riempirlo di ciò che vorrai tu ma lo riconoscerai subito al ritiro bagagli. E non hai bisogno di metterlo nei documenti, è quello che dice chi sei quando ringrazi o chiedi scusa, quando saluti, quando sorridi a uno sconosciuto, quando non hai paura di dire quello che pensi anche se non è condiviso da tutti, quando non salti la fila, quando ridi forte, quando mangi un panino scartandolo dalla carta per alimenti e buttando tutto nella differenziata in modo corretto. E non hai bisogno di una ricetta medica o che qualcuno ti suggerisca quando assumerlo, non è una medicina, è un integratore, funziona solo se abbinato a uno stile di vita sano. Rafforza ma purtroppo non cura, per quello devi fare da sola, ormai. E non hai bisogno di acconsentire, è lì che tu lo accetti o meno. E non hai bisogno di infilarlo nello zaino, è lo zaino. Ecco perché devi essere certa che non ti pesi troppo sulle spalle e soprattutto devi portarlo sulla schiena il più possibile, perché l’amore di mamma e papà è dietro, non è davanti, lo devi mettere davanti solo se c’è confusione intorno a te, non per controllarlo ma per proteggerti.

Buon viaggio, amore mio.     

La Signora Insofferente

La Signora Insofferente è sprofondata in fondo al Niente.

Ma come, di nuovo?

Sì, perché? Non si può? Chiede aggressiva, come chi si mette sulla difensiva.

La Signora Insofferente è, di nuovo, sprofondata in fondo al Niente e questo non è un componimento in rima, quelli li inventava prima, quando le sue ragazze erano bambine e le rime servivano a imparare come ci si lava i denti e ci si cambia le mutande e l’amore della mamma, quanto è grande.

La Signora Insofferente sta seduta giù sul fondo del Niente e non è sulla difensiva, è solo aggressiva. Diventa difficile, pericoloso e fondamentalmente inutile avvicinarla.  Da su le si può chiedere, delicatamente, qualcosa ma bisogna alzare un po’ la voce, la Signora Insofferente ha un orecchio tappato, il sinistro.

Ma come, di nuovo?

Sì, perché? Non si può? Chiede aggressiva, come chi si mette sulla difensiva.

La Signora Insofferente, va detto, non si sforza di sentire le parole. Quelle che arrivano da su, dalla cima di chi è fuori, di chi è al sicuro dal Niente e cautamente si sporge per sapere di lei con domande di routine: cosa vuoi fare? Niente. Cosa vuoi mangiare? Niente. Ti mando giù qualcosa? Niente. Dove vuoi andare? Niente.

No, a questa domanda non puoi rispondere Niente. Fa Niente.

La Signora Insofferente vuole stare nel Niente, sentirlo addosso come il pigiama quando non lo togli per tre giorni che ti dà fastidio sulla pelle ma non puoi cambiarti, non puoi proprio. Sentirlo nelle ossa come i brividi quando hai la febbre che è una bella scusa a lei raramente concessa. Sentirlo nelle narici come l’odore del cane quando piove che rimane incastrato nei peletti del naso e nei tubicini che arrivano sicuramente dentro il cervello o giù di lì. Su di lì. Ogni domanda, ogni rumore, ogni distrazione da questa condizione le procura dolore, perché se non può averlo Tutto il suo Niente, allora niente.

Quando era giovane ed era la Signorina Sofferente aveva tappezzato il Niente dove ciclicamente sprofondava con poster e biglietti di concerti, pezzi di carta attaccati alle pareti con lo scotch su cui ricopiava le frasi rubate dalle canzoni e dai libri che accatastava ai quattro angoli del Niente, tutti con le orecchiette alle pagine a ricordarle dove andare a cercare e in prima pagina al posto del colophon l’indicazione delle pagine da non dimenticare. La Signorina Sofferente organizzava dolore e rimedio secondo schemi precisi, a ogni malanno la sua medicina, a ogni sofferenza la sua cura fatta di parole tutto ben in ordine perché ci fosse tutto, lì ,nel Niente. E poi il dizionario per controllare l’etimologia sempre a portata di mano, dio che ossessione per l’etimologia aveva la Signorina, questa mania di sapere da dove arrivava tutto, questa un po’ se la sarebbe portata dietro anche nel trasloco all’età adulta, una volta sposata e diventata, perciò, la Signora In-Sofferente.

Durante quegli anni nessuno era sceso mai, con lei, nel Niente. Non si è mai capito se a nessuno interessasse farlo oppure se fosse lei a impedirlo, le versioni variano a seconda di chi racconta la storia. Come sempre. Come ogni storia. Ancora oggi nel Niente, in fondo, ci sta solo lei. Quello che è cambiato, adesso, è che gli altri lo sanno, non è un mistero, non è più qualcosa che non si dice, che non si racconta volentieri.

Gli altri chi?

Quelli a cui importa. Degli altri non importa. Il Signor Gioioso, lui sì, poteva sapere tutto quello che accadeva nel Niente perché non lo avrebbe mai usato contro di lei, di questo era sicura perché valeva il contrario, perché il Signor Gioioso e la Signora Insofferente sapevano di non essersi conosciuti ma riconosciuti e mentre gli altri ancora si chiedevano come facessero a stare insieme due così diversi, loro si preoccupavano di come avrebbero fatto a stare lontani poi, a un certo punto.

Gli altri chi?

Quelli che capiscono niente, in minuscolo.

A un certo punto quando?

Non si sa, non si sa prima. Ecco perché non ci si può salutare davvero, per bene. C’era materiale a sufficienza per impazzire, pensava la Signora Insofferente.

Quando la Signora Insofferente sprofonda giù nel Niente, nel mondo non cambia niente, il sole sorge e la luna segue le sue fasi, le luci delle lampade crepuscolari si accendono e si spengono senza preavviso, il vento se c’è soffia e se non c’è non soffia, qualcuno nasce, qualcuno muore, qualcuno dorme, qualcuno mangia. Lì sotto la Signora Insofferente pensa di non tornare mai più. Immagina di scrivere lettere di saluto per tutti o solo per alcuni, per i più importanti, lettere rassicuranti niente di tragico, a tutti, alcuni, ai più importanti direbbe, in fondo, lasciatemi qui, a fondo.

La dottoressa della mente ha detto alla Signora Insofferente che, adesso, possono provare a vedersi con meno frequenza, con maggior intervallo di tempo. Non ho capito, ha detto la Signora, che ogni volta che capisce qualcosa subito dice che non ha capito. Non ho capito, meno o maggiore? Di più o di meno?

Di meno.

No.

La Signora Insofferente è, ancora, giù nel Niente ed è concentrata nel redigere mentalmente l’elenco aggiornato dei suoi fastidi. Nelle ultime due settimane ci ha aggiunto: gli uomini con gli stivaletti texani pitonati, le nonne che fanno attraversare nipoti sulle strisce portandogli zaini pesantissimi e bloccando le auto, ferme, con la sola imposizione del palmo della mano che ti vedo hai la linea della vita che dura ancora poco vecchia stronza, scandisce con il labiale la Signora Insofferente, i genitori dei primi della classe, i geni, che se ne sente la mancanza in effetti, i genitori dei fenomeni che a quattordici anni hanno le scarpe con lo strappo perché i lacci sono ancora un problema.

La dottoressa della mente le ha detto che può tornare su quando vuole, ormai, è capace. Ma io voglio stare giù, ha confessato la Signora Insofferente. Vuole stare giù. Dove non sente. Dove non vede. Dove l’orecchio tappato non è un problema, dove ha il dizionario e controlla l’etimologia e per il male c’è la posologia, non vuole andare via, il prezzo da pagare per tornare su è ogni volta più caro.  È come nella Sirenetta, per tornare su Ursula vuole la voce di Ariel.  Anche se la Signora Insofferente non è Ariel. Forse è Ursula.

La Signora Insofferente è, ancora, giù nel Niente ed è concentrata nel redigere mentalmente l’elenco aggiornato delle sue commozioni. Nelle ultime due settimane ci ha aggiunto: suo fratello che ride, finalmente, perché ha visto qualcosa che fa ridere e ha pensato devo dirlo a mia sorella e fra tutti quelli a cui poteva pensare pensa ancora a lei quando c’è da ridere e questo commuove per forza. Sua figlia, la grande, che le racconta cosa è accaduto a scuola e quando lei risponde come la pensa la figlia dice: papà ha detto la stessa cosa. Sua figlia, la piccola, che le racconta cosa è accaduto a tennis a e quando lei risponde come la pensa la figlia dice: papà ha detto la stessa cosa.

La dottoressa della mente ha detto alla Signora Insofferente che in ogni caso possono anticipare la seduta, se ce ne fosse bisogno.  La Signora Insofferente ha iniziato a guardarsi con ancora più attenzione per trovare i sintomi che giustifichino una frequenza maggiore o un intervallo minore. Per ora ha trovato la clinomania, potrebbe essere convincente e quando riuscirà ad alzarsi dal letto scriverà un messaggio alla dottoressa che non potrà rifiutarle un incontro.

La Signora Insofferente è, ancora, giù nel Niente ed è concentrata nel redigere mentalmente l’elenco aggiornato delle sue epifanie. Le epifanie sono come i gusti, ciascuno ha le sue e non disputandum est. Già questa è un’epifania. Nelle ultime due settimane ci ha aggiunto: i viaggi studio e i semestri all’estero non sono un’invenzione commerciale, non sono una trovata geniale di scuole di lingue, sono uno strumento di sopravvivenza approntato da genitori di adolescenti. Un giorno, non si sa quando, un genitore di un adolescente si è alzato, ha preparato la colazione, ha chiamato l’erede penetrando nel buio di una stanza disordinata e ricevendo in cambio un grugnito degno di una porcilaia e tornando sui suoi passi ha pensato a come togliersi l’erede dai coglioni per un lasso di tempo sufficiente a fingere di non conoscerlo ma senza metterlo alla porta anzi facendo sembrare l’operazione vantaggiosa anche per il giovane coinquilino indisciplinato. È così sono nati i soggiorni studio all’estero. Dio benedica i soggiorni studio all’estero. Allo stesso modo le si è mostrato con nitida chiarezza che se è vero come è vero che le sue ragazze non hanno nessuna voglia di unirsi a lei e al Signor Gioioso nei week end fuori porta o per le cene formali è altrettanto vero il contrario. Lei e il Signor Gioioso attendono trepidanti il momento in cui non dovranno più avere al seguito questo coro greco non pagante ma che anzi costa come due adulti noiosi in più in comitiva.

La dottoressa della mente si è detta certa che, comunque, non ci sarà bisogno di anticipare la seduta. La Signora Insofferente ha iniziato a guardare con ancora più attenzione per capire come fanno gli altri a fare quello che a lei costa tanta fatica ma sono anni che ci prova e ancora niente. In minuscolo.      

La Signora Insofferente è, ancora, giù nel Niente ed è concentrata nel redigere mentalmente l’elenco aggiornato dei suoi distacchi. I distacchi sono irreversibili, come i cerotti sui piedi sotto la doccia, puoi anche metterlo di nuovo, ma non quello, quello che si è staccato non lo attacchi più. Nelle ultime due settimane ci ha aggiunto: la possibilità di intervento nella vita delle ragazze. Sbam. Una porta che sbatte e un quadro che si stacca dalla parete. Una persiana che non regge al vento. Una tenda da esterno che si strappa. Un vaso che casca e la terra fuoriesce. Quando erano piccole, la Signora Insofferente arrivava fino alla fine. Dal primo boccone all’ultimo cucchiaino, dalla temperatura dell’acqua ai capelli tutti ben asciutti, dalla comparsa della verruca alla rimozione totale, dalla prima all’ultima gara di nuoto. Di karate. Di tennis. Dalla sigillatura dei denti all’apparecchio. Dal presente indicativo al futuro anteriore. Dalla tabellina del due a quella del nove. Dall’operazione alle caviglie all’osteopata ogni quindici giorni, dalla prima  macchia di mastocitosi alla sua regressione, dalla frattura del gomito alla rimozione del gesso. A suon di firme e decisioni. L’esito di tutto dipendeva da lei principalmente. Adesso, invece, la Signora Insofferente non ha possibilità di determinare i risultati di quello che accade nella vita delle bambine. Perché non sono più bambine. Perchè lei conta sempre di meno. Perché loro iniziano, portano avanti, concludono. Sempre più in autonomia e sempre meno con lei.  Non ho capito, si è chiesta la Signora, che ogni volta che capisce qualcosa subito dice che non ha capito. Non ho capito, di più o di meno?

La dottoressa della mente ha detto alla Signora Insofferente che ha molte risorse a disposizione e la Signora Insofferente temeva che le chiedesse un elenco aggiornato perché quello sarebbe stato un problema, lei che sforzandosi di cercare tra le sue risorse ci trovava solo i “forse”, che se per molti sono dubbi per lei sono certezze e questo non è un componimento in rima, quelli li inventava prima, quando le sue bambine non erano ragazze e le rime servivano a insegnare una tabellina, a sorridere di mattina, a trasformare anche il Niente in gioco perché il tempo per amare è, in fondo, poco.

Tutto di personale

Io di notte guardo il tennis in televisione, senza volume per non disturbare la famiglia e per non essere disturbata dai commentatori. Quando arrivo sul divano il cane si alza, mi lascia la coperta e si mette in cuccia. Noi questa cuccia non la chiamiamo cuccia ma vagina. Non è il massimo, mi rendo conto. Sono stata nel negozio di cucce per più di un’ora, davvero, le ho tastate tutte, sollevate, ho frugato dentro per saggiarne la morbidezza, ho scartato i colori che non mi piacciono, volevo che il cane avesse una bella cuccia e l’ho scelta con più cura di quella impiegata per scegliere il mio divano, giuro. Quando sono tornata a casa con la cuccia e l’ho mostrata al resto della famiglia, avevo comunque inviato diverse foto nel nostro gruppo WhatsApp per rendere tutti partecipi della scelta, mi hanno detto “sembra una vagina”. Il cane non l’ha apprezzata subito, c’è voluto del tempo perché ci entrasse e comunque preferisce dormire sul divano sotto la coperta. Solo quando arrivo io di notte si infila nella vagina.

Come farai quando inizieranno i tornei in Europa, senza il fuso orario americano? Mi ha chiesto Lui una notte in cui si è alzato per bere. Gli ho risposto che guarderò le repliche, di notte, anche perché di giorno lavoro. È tornato a letto e io sono rimasta a guardare il tennis. A parte qualche eccezione il mio tifo si basa su criteri puramente estetici, non solo legati all’avvenenza del giocatore o del suo team avendo ormai un’età che mi permette di apprezzare esemplari di diverse epoche  ma anche all’abbigliamento e, in generale, all’atteggiamento. Tra le eccezioni c’è Lorenzo Sonego, che anche se gioca vestito come un raccattapalle quest’anno gli si vuol bene per la fatica che profonde, per ogni punto che porta a casa, uno dopo l’altro, per il suo allenatore, Gipo, che è stato anche l’allenatore di Lui nel paleocene e alcune delle sue espressioni tipiche  sono entrate nel nostro lessico famigliare. Li vedo e sorrido. Mi sembra, comunque, una gran cosa.

Io di notte non dormo ma solo da domenica notte a giovedì notte, durante il fine settimana mi sveglio e mi riaddormento. Ho un problema con la sveglia, l’apparecchietto proprio. Il suono della sveglia, la programmazione della sveglia. Io non dormo perché so che mi devo svegliare, che è come non vivere perché si deve morire e infatti a volte mi trovo in quella condizione. Se so che non mi devo svegliare allora dormo. Quando mi dimentico che devo morire allora vivo un po’ di più. Mi è tutto molto chiaro, è così da quando per andare a scuola dovevo svegliarmi da sola, quindi dalla quarta ginnasio solo che a quei tempi non seguivo il tennis, forse non sapevo nemmeno che esistesse il tennis e se mi fossi alzata mi sarei trovata mio padre davanti, che mentre mangiava di nascosto per placare le sue ansie di bambino incompreso mi avrebbe intimato di tornare a dormire e basta perché anche le ansie nella mia famiglia non valeva slatentizzarle prima del tempo. Allora restavo a letto, sentivo il respiro di mio fratello finché abbiamo condiviso la stanza (quasi metà del mio ultimo anno di liceo), avrei voluto essere sola per non dover dare spiegazioni a chi ha sempre la risposta a domande che non hai mai posto.

Se non c’è il tennis accendo la lampada dietro il divano e leggo. Raramente scrivo. Temo l’effetto strega, quello per cui di  notte ti sembra di aver scritto robe degne del Premio Strega e poi ti rileggi e quasi vomiti. Anche se io non mi rileggo ma solo perché so che mi annoierei di me stessa e faccio fatica a pensare di usare altre parole al posto di quelle che ho usato. Questa cosa delle parole io la prendo molto sul serio. Se mi servo di una parola è perché voglio proprio quella. Non un’altra, non un sinonimo, non me ne importa delle ripetizioni, le ripetizioni servono soprattutto quando sono volute,  le parole sono tutto quello che abbiamo per pensare ecco perché non sono fondamentali ma sono fondanti.

Alcune parole io le odio. Zucchini. Se trovo scritto zucchini all’ortofrutta del supermercato io non compro le zucchine. Alcune parole io le imparo grazie alle mie ragazze, questo è uno degli aspetti della genitorialità che mi esalta di più, imparare da loro ad osservare qualcosa di nuovo o diversamente qualcosa di vecchio, aprire finestre su pareti scrostate per avere una vista più ampia o per far entrare solo un po’di luce in più, , fare domande e non dare risposte.  Il grande dono che i figli ci fanno è permetterci di cambiare idea e se io fossi una donna compassionevole proverei tenerezza infinita per quella moltitudine di genitori che non se ne rende conto e spreca questa enorme possibilità. Ma siccome non sono compassionevole nemmeno per finta continuo a incazzarmi contro la stupidità che non impedisce la riproduzione sconsiderata di certi soggetti che poi sono quelli che dicono zucchini, sicuramente.

Alcune parole le spiego e mi rendo conto di non saperlo fare perché non le ho mai capite nemmeno io. Comprare usato al posto di partorire. Mi hanno chiesto in che senso, perché e io non lo so. Qualcuno la usa ancora? Si sentiva ogni tanto, forse ancora si sente. Ma chi è che compra un figlio? Il figlio si partorisce. Il figlio si adotta. Il figlio si ama. Il figlio si cresce. Ma chi è che compra un figlio, mi hanno chiesto. Ma che ne so, ho detto, tanto più che è un investimento del cazzo meglio lasciar perdere, meglio una borsa se proprio devi comprare. Comunque io le borse un po’ le partorisco o le adotto, sicuramente le amo e le cresco.

Un fratellastro di mio nonno ha comprato suo figlio. Era sposato e niente, la moglie non restava incinta non si sa per colpa di chi ma in questi casi è sempre colpa dell’altro, del non parente. La mammana della zona ha raccontato di una ragazza che si era inguaiata. Allora lui e la moglie sono spariti per un po’ di mesi, in giro hanno detto che lei aveva una gravidanza difficile che la costringeva  a letto e quando sono tornati avevano un bambino e un certificato della levatrice che aveva assistito al parto in casa. Era la fine degli anni Sessanta, forse i primi anni Settanta, non lo so, questo bambino aveva circa una decina di anni in più di me, l’ho visto una volta sola, non ricordo nemmeno il suo nome e mio nonno mi aveva raccontato il tutto con naturalezza ma dicendomi che si trattava di un segreto, aveva portato l’indice al naso e premuto sulle labbra, io osservavo questo ragazzino cercando di trovargli i segni dell’acquisto ma non potevano essere evidenti perché lui non ne sapeva niente, non sapeva di essere stato comprato e a me sembrava molto triste sapere qualcosa di tanto importante su di lui mentre lui lo ignorava completamente però non ho pensato nemmeno per un momento che quello non fosse davvero il figlio di questi pseudozii mai visti prima o dopo quel giorno. La meraviglia delle famiglie tradizionali. Quelle in cui siamo cresciuti bene, noialtri, solidi e pieni di certezze, senza segreti e con granitici punti di riferimento.

Quando mia zia si è separata nessuno l’ha detto a noi bambini. Semplicemente a tavola la domenica a casa dei nonni  è comparso un nuovo signore e non abbiamo più visto mio zio, il padre dei miei cugini. Io tifavo per lo zio precedente, ricordo, ma mi basavo su criteri puramente estetici e poi mi dispiaceva un po’ per mia cugina, quella più grande che si metteva ancora seduta in braccio a suo padre anche se andava alle medie, e pure per quella più piccola che aveva ancora il ciuccio anche se non aveva proprio proprio l’età per il ciuccio ma glielo lasciavano per non crearle altri cambiamenti . E mi dispiaceva un po’ anche per me perché avevo paura che mia madre volesse imitare mia zia e l’idea di stare senza mio padre mi toglieva il respiro. Nessuno diceva niente, per fortuna ho sentito per caso mia nonna, una volta, dire a sua sorella che i miei genitori non correvano alcun pericolo perché mia madre non avrebbe mai dato confidenza a un uomo che non fosse mio padre, non l’ha detto proprio così, ha detto qualcosa che richiamava il fatto che sicuramente il sesso con un altro le avrebbe provocato enormi problemi anche dermatologici. La meraviglia delle famiglie tradizionali. Quelle in cui devi acquattarti dietro una porta per capire da altri se nella tua vita è in atto qualche cambiamento.

Mia nonna per un periodo, precedente alla mia nascita, doveva vedere suo fratello di nascosto da mio nonno. Perché lo zio aveva lasciato sua moglie e i suoi figli e conviveva con una signora che aveva lasciato suo marito e si era portata appresso sua figlia e non paghi di questo  scandalo i due adulteri avevano concepito. Tra loro. Il rigore morale di mio nonno, unito all’animo da figlio unico, non poteva comprendere né tollerare tutto questo. Erano i tempi in cui i suoi figli non erano ancora sposati. E separati. Erano i tempi in cui essere tutto d’un pezzo ancora non faceva bruciare il culo quando ci si sedeva, perché la sola controindicazione all’essere un monolite è quella, che prima o poi ti brucia il culo. E non per quello che nel culo ti entra ma per quello che dal culo non ti esce perché te l’hanno fatto ingoiare a forza e ti hanno intasato. Io, però, mio nonno me lo ricordo già seduto senza grossi problemi e questo fratello di mia nonna non era male, faceva il pane e aveva un sorriso buono come sua sorella e non gli importava molto se la sua ex moglie aveva già esposto la sua foto nell’altarino dei defunti in salotto, accendendogli un cero e mostrando a mia madre che bella pensata aveva avuto. La meraviglia delle famiglie tradizionali. Quelle in cui ci sono valori che non si discutono e si trasmettono di generazione in generazione. Come le malattie.

Le mie figlie hanno un padre divorziato. La sera in cui Lui gliel’ha raccontato erano solo loro tre. A cena fuori. Io e Lui avevamo deciso che le bambine dovevano sapere di questo matrimonio precedente perché era stata una parte della sua vita che non poteva non essere narrata, come il servizio militare anche se questo è stato più divertente, creava un buco nella storia del padre e non volevamo trame a brandelli per loro. Eravamo d’accordo che toccasse solo a Lui parlarne e così è stato. Appena Lui ha finito di raccontare gli hanno chiesto il telefono e mi hanno chiamata. Cristina mi ha chiesto ”mamma, ma tu lo sapevi che papà è divorziato?” e Pepe mi ha detto che “in tanti anni (!) che conosco mio padre mai avrei pensato questa cosa”. Dopo quella sera per un po’ si sono vantate con i compagni non tanto di avere un padre uomo di mondo quanto di esserne state messe a conoscenza. Sono due persone molto amate anche se i loro genitori hanno amato qualcun altro prima.

Mia nipote ha una mamma giovane che la ama come amano i giovani che vanno in profondità e tu pensi che stiano scherzando. E ha un papà alto con un vocione imperioso che non vive con lei. Ha quattro nonni, due per sesso, due vicinissimi e due lontanissimi, ha un cane oblungo che affettuosamente chiamiamo il cane di velluto oppure il cane anaffettivo e che invece è molto affettuoso. Con me lo è. Ha una camera colma di giochi. Compagni di asilo di ogni etnia. Ha una passione smodata per le sue cugine. È molto brava a Baby Gym, penso sia la prima del suo corso e se così non fosse lo sarà. Mangia sempre le stesse cose e si distrae durante i pasti ma ascolta tutto quanto viene detto in sua presenza. È magrolina e snodata, ha gambette come zampette di animale ma ha un tono muscolare da piccola atleta. È una persona molto amata anche se i suoi genitori ameranno altre persone.

Mio nipote ha due papà e una mamma. Quattro nonni, tre sono nonne e uno è il nonno da cui ha preso un pezzo di nome e uno dei due cognomi. Una delle tre nonne lo ha visto nascere, assisteva sua figlia durante il parto. Una delle tre nonne ha preso il primo volo per Londra per abbracciarlo e si è travestita da cowboy insieme a lui lo scorso anno quando abbiamo avuto molta paura che gli capitasse qualcosa. Una delle tre nonne gli parla in veneto e lui è quindi trilingue: inglese, italiano e veneto. Una delle tre nonne ha appena divorziato dal secondo marito o forse era il terzo. Una delle tre nonne non si accompagnerebbe ad altro uomo che non sia suo marito anche per questioni dermatologiche. Una delle tre nonne è vedova ma alcuni giorni racconta di aver appena parlato con suo marito e che lui le ha risposto. Il nonno da cui ha preso un pezzo di nome dice sempre che lui è il suo nipote maschio preferito. Le altre tre nipoti sorridono di questa battuta sempre uguale a se stessa. Mio nipote ha anche due fratelli molto belli, gli somigliano moltissimo e quando li vede impazzisce di gioia, ci gioca a calcio, vanno insieme sulla moto che gli hanno regalato per il compleanno, guardano i cartoni animati insieme mentre la loro mamma li osserva. Una delle immagini più dolci che ho è lui in braccio a sua madre, l’anno scorso in ospedale, durante la tempesta. I suoi padri che non hanno mollato mai per un attimo il timone e sua madre che dondolava per non fargli sentire il mare grosso intorno. È una persona molto amata anche se l’amore dei suoi genitori non viene riconosciuto.       

Alle mie figlie, ai miei nipoti non verrebbe in mente di dire che la loro famiglia è meglio di un’altra famiglia perché non hanno il pensiero sotteso a quelle espressioni, perché la loro famiglia è fatta di persone e le persone non sono meglio o peggio, al massimo vestite meglio o come raccattapalle. Perché chi è amato, in genere, ama. E quando si ama è un po’ come quando si è felici: non si rompono i coglioni agli altri. Quando si ama si toglie il volume per non disturbare e per non essere disturbati dai commentatori.   

Specchio, specchio

“ma io non ho bisogno del tuo amore, ora “. Poi hai riso nervosa. “l’abbiamo appena fatto, a Psicologia, a questa età non ci serve l’amore dei genitori, è nel gruppo di pari che dobbiamo affermarci e prenderci quel di cui abbiamo bisogno”. Io e tuo padre ci siamo guardati, siamo seduti uno di fronte all’altra, sono i nostri posti a tavola, a volte anche nella vita, più spesso lì siamo uno accanto all’altra. Tua sorella ha continuato a mangiare frutta. Potrebbe venire giù il mondo ma se è il momento della frutta non se ne interesserebbe.  Abbiamo sentito, io e tuo padre, un’intervista a Barak Obama, non ricordo quando comunque non recentemente, ci siamo commossi entrambi quando ha detto che uno dei momenti che preferisce è quando a tavola con le sue figlie le ascolta e si rende conto che ne sanno più di lui. Io e tuo padre, che ormai abitiamo l’età di mezzo dove tutto si incrina anche le emozioni, ci siamo detti che era esattamente a quello che puntavamo dritti, a quel momento, a quello stupore. Non ho nessuna base di psicologia, se non come utente. Paziente. Ti ho detto che è meraviglioso che tu sappia tutte queste cose.

Poi ho aggiunto: “grazie di avermelo detto, mo’ lo surgelo tutto questo amore così quando ti serve lo trovi giù, nel congelatore”.  Ho iniziato a sparecchiare. È corretto, non si ha bisogno di quel che si ha in abbondanza, questo non te l’ho detto perché sarebbe stato pleonastico, perché avremmo continuato una discussione inesistente e ho imparato a non andare avanti lungo la strada dell’inesistenza. Del mio amore per te sei sicura come delle tue generalità, accanto al nome e cognome data e luogo di nascita nella tua carta d’identità c’è una voce apposta: intrisa d’amore materno. Io alla tua età ero sicura che mia madre non mi amasse.

Specchio, specchio dei ricordi, perché se mi avvicino mordi?

Non ti sento mai parlare d’amore. Anche tua sorella, anche lei non ne parla. Forse non ne parlate con me. Siete innamorate? Penso di no, ma vorrei di sì. L’amore è un modo di misurarsi. Misurarsi davvero. Prendere le proprie misure: quanto sono alta? Fino alla sua spalla, fino al suo mento. Quanto peso? Se mi siedo su una sua gamba non si lamenta, se salto mi prende al volo come in quella scena di Dirty Dancing, quando lui ritorna e la fa ballare perché nessuno mette Baby in un angolo. Io dovevo per forza innamorarmi per sapere di occupare uno spazio, voi fate le visite mediche. “Complimenti, signora, è davvero una gran bella ragazza”, mi ha detto il cardiologo dopo aver congedato tua sorella che dalla visita dell’anno scorso è cresciuta di quindici centimetri fieramente portati con spalle definite da ore di atletica post allenamento tennistico. Forse non avete la necessità di misurarvi diversamente. Alla tua età mio padre mi guardava in costume e mi diceva  in dialetto: hai la pancia attaccata ai reni.

Siete andate in montagna con vostro padre, siete state fuori solo una notte. Prima di salire in auto mi avete chiesto, ridendo, come avrei fatto se avessi sentito la vostra mancanza. Guarderò le ecografie, vi ho risposto. Non vengo lì dove siete andati, in quella casa della famiglia di tuo padre, ormai non me lo chiedete più, lo sapete e poi fa bene a voi stare un po’ con lui e fa bene a me ritrovare la solitudine che in alcuni momenti arrivo a mendicare. Non so perdonare ma soprattutto non ho nessuna intenzione di perdonare, non mi rattrista la mia incapacità, mi sto benissimo così. A volte penso che se scrivessi un romanzo e a un personaggio secondario facessi pronunciare nei confronti di una madre, personaggio principale, la frase: affidate a te diventeranno schifose come te  l’editor me la cancellerebbe perché inverosimile, poco credibile, impensabile. Prima o poi ci provo. Solo per togliermi il dubbio.

Specchio, specchio dei desideri, ma che giorno era ieri?

Ho conosciuto una persona, un uomo ma poco importa che sia un uomo. Importa solo per il suo aspetto: ha la barba lunga e i capelli ben sotto le orecchie appoggiati in un taglio disordinato, un taglio che non è un taglio a dirla tutta. Ha un tatuaggio sull’avambraccio, niente di colorato, non c’è scritto resilienza o qualche altra vaccata simile, non è un tribale e nemmeno il nome di una donna. È qualcosa che capisce solo lui, che non è lì per essere mostrato ad altri ma è lì perché lui lo veda ogni volta che tira su la manica del maglione e si ricordi. Cosa lo sa solo lui. Ha un orecchino al centro del lobo destro. Potrebbe sembrare un marinaio potrebbe esserlo, uno di quelli che sentono il tempo cambiare, che avvertono la tempesta e che, per primi, vedono la terraferma. Potrebbe vivere per mesi su una nave. Invece vive in San Salvario e per vivere legge e scrive. Io non conosco un altro modo di sentire il tempo cambiare, di avvertire la tempesta e di vedere la terraferma. Scriveresti anche se nessuno ti leggesse, mi dice. Già lo faccio, confermo.

Siete tornati dalla montagna perché devi andare a una festa stasera. Ci giriamo intorno da settimane, è il diciottesimo di un tuo amico. C’è un dress code: lo smoking.   Che ovviamente tu non hai. Io ne ho due. Uno panna e uno nero, con i profili in raso su giacca e pantalone. Abbiamo discusso, non ricordo quando, per quello panna perché sostenevi che fosse rosa. È palesemente panna. Sei convinta che sia rosa. Mi sono incazzata, tanto. Cosa pensi che vada in giro come Peppa Pig? Quello nero non l’ho ancora indossato, aveva ancora le etichette, le hai tagliate tu stasera per indossarlo. Ti sta molto bene, sopra ci hai messo un cappotto e hai con te una mini borsa con il cellulare e il portafogli. La discussione sullo smoking panna non l’abbiamo chiusa e nemmeno ripresa, è in sospeso fino alla prossima volta che me lo vedrai addosso ma ti assicuro che non è rosa. Ti ho accompagnata e poi ti verrò a riprendere, tuo padre è stanco. Anch’io, ma stasera va bene così. Con voi lavoriamo su turni e, adesso, abbiamo anche la reperibilità. Avevo una cliente nella vita precedente che da giovane aveva lavorato in fabbrica, erano gli anni Sessanta e Settanta, mi raccontava che stava in catena e per tutto il turno non poteva fare pipì, forse poteva andare una volta sola ma doveva chiedere al capoturno ma senza alzare la mano perché altrimenti avrebbe interrotto la produzione. Allucinante, vero? Sembra inverosimile, poco credibile, impensabile. La cosa peggiore è che me lo raccontava una volta diventata titolare di un’aziendina dell’indotto automotive, un mezzo capannone in una desolata area industriale in mezzo al nulla, uno di quei posti dove arrivano le commesse e si lavora anche di sabato perché non si è capaci di organizzare il lavoro, con i figli a controllare la produzione e gli operai che chiedono il permesso di pisciare. Stasera la reperibilità tocca a me, tira un gran vento e non mi sarei addormentata con facilità, patisco l’energia del vento, la trovo spietata. È tremendo perdere la pietas.  Sei scesa dalla macchina in fretta, eppure eri in anticipo, eri la prima,  non c’era ancora nessuno. Poi è arrivata la vostra amica, è scesa dal pulmino di una onlus sulla sua sedia a rotelle e non volevi lasciarla sola nel dehors, con tutto questo vento. Chissà se hai abbottonato il cappotto.  

Specchio, specchio della festa, nella vita vince chi resta?

C’è un libro che leggevo alla tua età, fino a consumarlo. No. Ero un po’ più grande, avevo un anno in più.  Non penso ci siate ancora arrivati a scuola, non me l’hai ancora chiesto, non sei ancora venuta nel mio studio a frugare tra i miei libri di scuola. A matita sulla copertina ho scritto ESTATE 1995. Dentro è sottolineato, ci sono piccole note scritte a mano, qualche collegamento. E punti esclamativi accanto ad alcuni paragrafi. Ancora lo faccio, di segnare l’importanza con il punto esclamativo.  Io vivevo solo d’estate, in quei due mesi trascorsi al mare in una casa minuscola e affollata eppure non me ne sono mai accorta perché stavo fuori e la spiaggia immensa in grado di contenere il gruppo dei miei amici e solo lì sapevo esattamente quale fossero le mie misure. Il Simposio, è questo il libro. Tu forse lo conosci per il mito degli androgini che ha sempre il suo fascino, l’idea di questi esseri perfetti e superbi divisi da Zeus in cerca della metà perduta. Bella idea. Io mi crogiolavo, invece, nel racconto di Amore che nasce da Povertà ed Espediente. Mentre aspetto di venire a prenderti, dopo aver dato la buonanotte a tua sorella e socchiuso la porta della stanza dove tuo padre dorme, l’ho ripreso dallo scaffale della mia libreria, ha le pagine ingiallite e scricchiolanti. Amavo un ragazzo, gli arrivavo alle spalle e mi sollevava senza problemi per farmi roteare, ci addormentavamo aspettando l’alba in spiaggia coperti da un asciugamano, ogni tanto mi chiedeva di non guardarlo negli occhi così forte. Così forte, diceva davvero così. Io ridevo ancora più forte e non lo guardavo per non fargli male.

A volte l’amore salva, a volte l’amore va salvato. Io non sono capace di salvarmi da sola, a me serve l’amore per salvarmi. L’amore di tuo padre non mi ha salvata, mi ha trovata abbastanza al sicuro, precaria ma sicura. Il nostro amore, invece, quello lo abbiamo salvato diverse volte. Non lo abbiamo mai fatto per voi, spesso grazie a voi in serate seduti uno davanti all’altra, il primo che abbassa lo sguardo perde. Perde tutto. L’amore per te mi ha salvata, mi ha attraversata lasciandomi intatta, ha ricucito gli strappi, ha cambiato l’unità di misura del mio corpo. Nel mondo, adesso, occupo lo spazio dietro il tuo. Tutto lo spazio che serve, di cui c’è bisogno, tutto lo spazio che mancava ora c’è.  Sono io che ho bisogno di amarti . Mi è caduto un biglietto dal libro, scrivevo poesie alla tua età, questo non lo sai, non lo sa nessuno. Non so dirti se fossero belle, di quale poesia possiamo dirlo? Nella poesia conta quello che non dici, conta lo spazio bianco della pagina che è la maggior parte, nella poesia niente conta altrimenti non è poesia. Pensavo fosse una mia poesia. Invece è un biglietto della metropolitana. Ma nel 1995 la metropolitana non esisteva a Torino. Ho guardato quando è stato obliterato: due giorni prima della tua nascita. Tu sei nata in ritardo rispetto al termine, questo lo sai. Nove giorni dopo, durante i quali facevo controlli quotidiani del liquido amniotico. Quel giorno sono andata in metropolitana, tuo padre mi ha raggiunta in ospedale per poi portarmi a casa dopo la visita. Questo è il libro con il quale ti aspettavo nel mondo. Ti amerei anche se tu non ne fossi sicura.  

Specchio, specchio di questi giorni, è della madre aspettare i ritorni?

I miei alibi e le mie ragioni

Una mattina, era un lunedì ma non ricordo quale, una compagna di mia figlia  è entrata in classe pochi minuti prima delle 8 e le ha detto “ho visto tua madre”. Niente di strano, il mio ufficio è davanti alla scuola, porto il cane a passeggio prima di iniziare a lavorare. Niente di strano, le ha risposto Pepe. La compagna ha sorriso senza mostrare i denti, ha stirato le labbra ai lati del suo faccione “parlava con uno che era in un macchinone e rideva. Ecco come scoprire che tua madre si è fatta l’amante.” Poi ha aperto la bocca e mostrato i denti. Gialli.

L’avevo vista passare sul marciapiede opposto al mio, quel lunedì mattina, mancavano pochi minuti alle 8, Pepe era già entrata, me la immagino appoggiata al termosifone tiepido in classe, con le mani lungo i fianchi mentre chiacchiera con gli altri, senza timore di mostrare i denti, ma forse lei non fa così, io mi appoggiavo al termosifone con le mani lungo i fianchi e la immagino così perché altro non so immaginare che non sia il mio ricordo, su di lei però innesto il sorriso che nel ricordo di me è raro, su di lei non è un elemento di fantasia. Non mi saluta mai, questa compagna. Non mi guarda nemmeno negli occhi le volte in cui le rivolgo la parola, ne ho parlato spesso con Pepe, mi dà fastidio perché sento che nasconde qualcosa. Cosa? Mi chiede mia figlia. La cattiveria, Pepe, vorrei dirle. È difficile guardarti negli occhi, mi spiega Lui quando gliene parlo, sostenere il tuo sguardo. Come la fate lunga, mi stizzisco. Mamma, avrà paura di restare pietrificata, come con Medusa, sai, no?

“Farsi l’amante” suona d’antan, riporta a tappezzerie di velluto in rilievo e divani a fiori. È una frase che potrebbe dire mio padre, anzi no, nemmeno, mio padre usa la locuzione farsi l’amico o farsi l’amica. “Quello si è fatto l’amica” e fin da bambina sapevo che c’era una nota di clandestinità, che quell’ amica non era la stessa parola che indicava la mia amica Laura. E poi il verbo fare. Come si fa a fare le persone, a farsi le persone? Non mi piace nemmeno pensare di avere amici, figuriamoci farmeli. Si è amici. 

Tu cosa hai risposto a Maria Impicciona?

Chi è Maria Impicciona?

La tua compagna facciona.

Mamma, però.

Hai risposto Mamma però?

No.

Cosa hai risposto?

Ma niente, che le dovevo dire, che mi sembrava strano.

Solo?

Sì. Cosa dovevo risponderle?

Per prima cosa che sì, in effetti tua madre qualche chance ancora ce l’ha a differenza di altre. Poi che tua madre non è così stupida da farsi l’amante davanti alla scuola che frequentate da 13 anni, come minimo lo porta in ufficio facendolo entrare in un secondo momento. Infine, di andare dall’oculista perché nel macchinone c’era Gabriella.

Perché te la prendi così?

Perché è così che nascono i pettegolezzi, Pepe. Perché lei non sa cosa ha visto ed era certa di quello che ha immaginato, perché non puoi confondere l’immaginazione con la realtà, sarebbe bello, sarebbe meno noioso, ma non è vero, è una finta, è una rappresentazione e ci sono passata tante volte, ho sentito persone raccontare qualcosa che non è mai accaduto solo perché nella loro testa era accaduto. Perché Maria Impicciona non poteva sapere se dirti questa cazzata poteva farti male, non poteva sapere che non mi avresti riconosciuta nella descrizione che ti stava facendo, non poteva sapere che non avresti avuto il dubbio. E se tu ne avessi sofferto? E se per sei ore tu fossi rimasta con il pensiero che stava capitando qualcosa che metteva a rischio la tua famiglia? Te l’ha detto perché sperava che tu ci restassi male. E questa non è amicizia. E non è nemmeno immaginazione. È cattiveria.

Che fatica, dico alla Dottoressa Elle, durante una delle nostre sedute, era un giovedì ma non ricordo quale, ci vediamo sempre di giovedì. Faccio più fatica degli altri. Delle altre. Lo spettacolo delle madri mi incuriosisce, forse perché non sono mai sicura di conoscere la parte e le altre sanno ripetere tutto il copione, le altre si affidano alla natura e sembra non sbaglino mai. Io no. Ma io ho un piano, ho un programma, le dico con tono cospiratorio. Forse dovrei ucciderla dopo averglielo rivelato, sa troppo di me. Io non seguo l’istinto ma non lo posso dire a nessuno. Il mio piano è lasciarle. Le ragazze. Lasciarle alla loro vita senza di me. Prepararle a questo. E il mio programma è sintetico, pochi punti chiarissimi: onestà, impegno, responsabilità e risate. Tante, tante, tante risate. Il ricordo delle risate. Non ho nessuna intenzione di riempirmi di loro ricordi, una parte di me sa che li perderò tutti i ricordi, io, a un certo punto. Voglio esattamente il contrario. Lavoro incessantemente per essere in quanti più ricordi loro, per stare lì, al sicuro. È la mia garanzia se non di immortalità almeno di lunga vita. Si vive per tre generazioni, più o meno, secondo la Medicina Tradizionale Cinese, il tempo di far svanire il ricordo. Mi basta una sola generazione, la loro. Quante risate si ricordano con la propria madre? Ecco, a questa domanda tra cinquant’anni le mie ragazze risponderanno che si ricordano solo risate con la loro mamma e nel dirlo si commuoveranno. Ma poco. Solo un attimo. Poi rideranno e io sarò lì, in quel suono. E Freud muto. Che fatica.

Vorrei che lo sapessero, comunque. Che faccio più fatica di altri e che a volte questa fatica mi fa sentire nel posto sbagliato, che spesso mi fa sentire inadeguata, come se a un certo punto della vita avessi imboccato l’alternativa sbagliata, come se avessi fatto scelte che non erano quelle che volevo fare. Vorrei che lo sapessero che mi distraggo spesso. Che ci sono parti di me che vanno lontano per poco tempo e che vado a raccattare per riportarle a casa e ripulirle dai bagordi. Vorrei che lo sapessero che mentre assisto alla loro costruzione la mia non si è ancora compiuta, che siamo cantieri senza superbonus, paghiamo tutto noi, io, loro, che mi sembra che loro stiano venendo meglio di me, più solide, più efficienti, più accoglienti e questo mi provoca un movimento dietro l’ombelico, un calcio da dentro dove un tempo c’erano loro, un movimento a cui ho dato un nome un giovedì e ho pensato che potevo anche morire dopo questa epifania, sapevo troppo di me ormai. L’orgoglio. Che fatica, ma che orgoglio.

Ho i nervi scoperti, sono completamente esposta. A cosa, mi chiede lei, seduta in auto, in doppia fila con le quattro frecce lampeggianti e il finestrino abbassato. Mancano pochi  minuti alle 8, è un lunedì, c’è un gran passaggio di auto che scaricano ragazzini tutti uguali con zaini tutti uguali e scarpe tutte uguali che vengono fagocitati dal cancello spalancato della scuola. Le sorrido mostrandole i denti, la bocca stirata allarga il sipario delle rughe che si sono appoggiate da qualche anno proprio in quel punto. Alzo le spalle. Il cane tira un po’, questo è il suo tempo e io lo sto impiegando in altro. Vorrei andare da mio fratello ma non riesco, le confesso. Non ho abbastanza giorni. Ho il trasloco dell’ufficio nella nuova sede. Le vacanze di carnevale delle ragazze. Febbraio. Dura così poco febbraio, le scadenze sono sempre le stesse non diminuiscono eppure è un mese maledetto, me lo diceva sempre il pediatra delle ragazze, sempre. Febbraio è un mese maledetto, signora. Questo febbraio. È il primo febbraio dopo lo scorso febbraio. È un anniversario che mi spaventa. È già passato un anno, dice lei, guardando nello specchietto se l’auto dietro ci passa lo stesso. Sì, passa. È che questa suona tutta appena ti avvicini, nemmeno la devi sfiorare, si lamenta. Anche io, suono tutta come la tua auto. Qualcosa del genere. Le ragazze mi hanno detto che ripeto sempre la frase “non ce la faccio più” . anche io, mi rassicura, anche io lo dico sempre. Sai, tanti anni fa, tantissimi, dicevo sempre “non ce la faccio”, sempre, per tutto, gli altri facevano cose e io non ce la facevo, l’ho raccontato a Pepe che mi ha detto, vedi, mamma, se adesso non ce la fai più vuol dire che alla fine ce l’hai fatta. È diventata grande, anche Pepe che era la piccola, suggerisce lei mentre fa cenno al conducente dietro di passare tranquillo. Proprio non riesci ad andare? No.

E poi mi è tornata l’otite. Ormai ogni sei mesi abbiamo appuntamento. Inizia con un aggravarsi della dermatite, aumentano i fischi e il senso di ovatta e poi comincia il dolore. Pepe mi mette le gocce con grande cura, scalda il boccettino tra le mani e conta quattro gocce mirando con estrema precisione. Mi lascia distesa sul fianco. Se hai bisogno chiama, mamma. Il mio corpo non vuole più sentire. Lui mi accarezza la testa, sussurra qualcosa che non capisco, se mi copri le orecchie quando mi parli è un casino gli dico. Cri mi parla da un’altra stanza, si dimentica continuamente che ho bisogno di guardarle le labbra. Non voglio più parlare, racconto alla Dottoressa Elle. A febbraio non parlerò. Tratterrò il fiato e basta, lo lascerò passare in apnea. Perché vuole andare da suo fratello, mi chiede. Perché penso che se mi vede e se sto con lui poi farà il bravo. Non combinerà disastri e non gli capiterà nulla. Ci devo essere io per farlo stare tranquillo, per farlo ridere. Ma non riesco ad andare, ho il trasloco dell’ufficio, il mese spezzettato e le scadenze, tutte, che mi strizzano l’occhio dalla scrivania mentre io osservo il soffitto. E gli allenamenti. Non posso saltare gli allenamenti, perché se ne salto uno poi li salto tutti, se cedo una volta poi cedo sempre, se salto un punto del programma qui salta tutto il programma e so io la fatica che faccio a tenere tutto insieme. Più fatica degli altri.

Vengo a prenderti da Maria Impicciona per le 18.30?

Mamma, però.

Però un cazzo. 18.30?

Sì. Ma non guardarla male.

Non la guardo proprio. Fatti solo trovare pronta che non ho voglia di salamelecchi cortesi, non sento e mi viene mal di testa con niente, poi ha quei gatti che girano per casa e si strusciano lamentosi sulle gambe, mi fanno schifo.

Dai, sono belli almeno i gatti.

Da morire.

Resto in corridoio, declino l’offerta di un caffè fuori tempo massimo, di un bicchiere d’acqua, di accomodarmi in cucina, batto lievissimamente il piede per tenere lontani i gatti, non so se serve ma ci spero, con la coda dell’occhio dalla porta socchiusa scorgo il salotto. C’è il divano a fiori. E tappezzeria in rilievo. Guardo mia figlia arrivare sorridente dalla stanza di Maria Impicciona, mi osserva e pensa brava, continua così, come farebbero le altre madri, non dire niente di quello che pensi, brava, sorridi. Con lo sguardo le confermo tutto. Ringrazio moltissimo per l’ospitalità che prima o poi ricambieremo. Mi volto, capisco il senso dell’espressione guadagnare l’uscita. Detesto queste situazioni, penso che potrebbero smascherarmi, penso che potrebbero accorgersi che non conosco la parte ma che ho un piano. Pepe mi rassicura, sono andata bene. Nonostante i gatti.

Le ho detto che nell’auto c’era Gabri, che avrebbe dovuto guardare meglio.

Brava.

Mah.

Cosa?

È che mi ha risposto “allora tua madre è lesbica”. Che le dico?

Parolacce?

No.

Allora niente, lasciale la sua ragione.

Che fatica, mamma.

Sì, amore mio.

L’adolescenza è un bel posto ma non ci vivrei

No, non è vero. L’adolescenza è un posto terribile. Inospitale. Un posto di merda, in estrema sintesi. Lo dico qui, tanto qui le mie ragazze non ci vengono e se anche venissero leggerebbero quello che già sanno perché lo sentono dalla mia viva voce. Io non è che so, davvero, chi viene qui, a parte qualcuno, ogni tanto becco una mia frase su qualche social che gira, qualche storia di WhatsApp o di Instagram con mie parole accompagnate da hashtag come #riflessionigentoriali ma senza la citazione dell’autore di quella riflessione genitoriale. Vabbè. Comunque, preferisco non sapere chi viene qui. Anche perché chi mi conosce di persona non ha motivo di passare a leggere, basta che mi telefoni.

Allora, l’adolescenza è un posto terribile, confermo. Lo dico soprattutto a voi, avvocate di quello studio di Corso Vittorio che anche se non vi conosco so che venite qui, lo dico soprattutto a voi perché so che avete una manciata di anni in meno di me e qualche figlio piccolo sparso in varie sezioni colorate della scuola materna (Scuola dell’Infanzia, lo so) o delle prime classi delle elementari (Primaria di primo grado, lo so) alle prese con recite e concerti scolastici ai quali applaudire e lavoretti di merda da elogiare ed esporre su mensole bene a vista ad altezza pargolo. Nessuno spoiler, siamo stati tutti adolescenti, no? Ecco, allora pensate a voi, pensatevi indietro e non solo avanti, ricordatevi senza imbrogliare che tanto non si vince niente e senza argomentare, tanto non c’è un giudice che dà ragione a controparte.

Ne parlavo con Andrea, il mio amico storico dal ginnasio all’Università, di come succede che una volta genitori ci si dimentichi di essere stati bambini prima e adolescenti dopo. C’è un istituto scolastico a Torino, quelli come me e Andrea che hanno frequentato il liceo negli anni Novanta sanno benissimo che si tratta del peggior diplomificio della città, sanno benissimo che si tratta(va) dell’ultima spiaggia prima che i genitori cedessero alla presa di consapevolezza di avere un figlio scemo, era il diploma a tutti i costi, era il miraggio che avendo perso un anno fosse possibile recuperarlo facendone due in uno. Non avevi raggiunto le competenze richieste per superare un anno per mille mila motivi? Nessun problema, andavi lì e potevi recuperare non solo l’anno perso ma anche quello successivo. Geniale. Ecco, Andrea mi diceva che ha sentito diversi genitori raccontare di aver iscritto in quell’istituto i propri figli vantandosi, come se non sapessero di cosa si tratta o come se avessero dimenticato.

Si dimentica, è la via più facile. A me le cose facili non sono mai piaciute.

Dunque, l’adolescenza, vi assicuro, è un posto tremendo. Fa sempre troppo caldo o troppo freddo, il tempo è bello, sereno, certe giornate di sole che non si descrivono e in un attimo la tempesta come in montagna, cambi improvvisi e inaspettati del meteo che tu dici ma è possibile con tutti gli strumenti che ci sono adesso non prevedere? Sì, è possibile. Si mangia poco o troppo, si ha fame in momenti inopportuni e lo stomaco si chiude agli orari convenuti per i pasti per poi spalancarsi alla qualunque non appena parte l’avvio della lavastoviglie e l’ultimo alone dello sgrassatore è stato rimosso dal piano cottura in acciaio. Ci si veste in modo curato o come senzatetto senza considerare il contesto. Si mischiano gli stili e i tessuti, un pezzo della mamma ma che non sia da vecchia, uno di un’altra stagione, un pezzo della sorella chiesto, supplicato in prestito, un pezzo bucato, rotto o comunque  almeno un po’lacero, come fanno alcune spose che devono indossare qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio, qualcosa di prestato e qualcosa di blu.  Ci si lava moltissimo i capelli. Anzi, direi che il livello di sanificazione dei capelli è direttamente proporzionale all’entusiasmo profuso in una qualsivoglia attività. Non posso, ho i capelli sporchi (io non andavo nemmeno a buttare la spazzatura, mio padre si incazzava perché proprio non capiva, aveva un cortocircuito cognitivo per questa mia risposta), mia figlia arriva al parossismo: sento che mi stanno per sporcare i capelli. Dal momento in cui pronuncia questa frase so che i suoi impegni scemeranno inesorabilmente fino al momento della doccia.

In doccia si ascolta musica, loro portano Alexa e l’attaccano in bagno, io portavo il mangiacassette e lasciavo andare il nastro, loro danno ordini con tono imperioso, io da fuori che mi dispiaccio per Alexa trattata in quel modo. In doccia si canta e questo è universale e transgenerazionale. Le mie ragazze cantano le stesse canzoni che cantavo anch’io. A volte. Non l’ho capito subito, ma è come se ci fosse un tipo di sofferenza (base emotiva per le canzoni che ascoltavo anch’io) generale, uguale per tutti. Avevi quindici anni trent’anni fa? Hai quindici anni oggi? Fa lo stesso. È la sofferenza generale, come la formazione generale obbligatoria per i lavoratori, non importa il settore merceologico, non ti si chiede il codice ateco, beccati questi contenuti generali che rappresentano credito formativo permanente, beccati il cantautorato che ci è arrivato prima di te e solo per te a dire quanto male fa.  Anche dopo trent’anni.

In auto la musica la decidono loro secondo lo schema consolidato sin da quando erano piccolissime: una canzone a testa. Le canzoni che ascoltano in auto io non le ascolterei nemmeno dietro pagamento altro che l’abbonamento a Spotify. Soprattutto alle 7.15 del mattino in tangenziale con tutti che entrano a Pianezza-Collegno e  nessuno che esce a Savonera. Questa mattina Cri ha scelto: Paranoia Mia di non  so chi e Vita Paranoia di non so chi. Il trend era comunque chiarissimo. E questa è la sofferenza solo sua, della sua generazione, di doppie spunte blu ignorate e storie social a cui non vengono messi cuoricini, è la sofferenza specifica come la formazione specifica dei lavoratori, quella che ti prepara ai rischi propri del tuo settore. Io ne resto fuori, ascolto senza commentare (troppo), senza capire (tutto), metto la freccia per sorpassare e la rimetto per rientrare nella corsia, temo che non siano felici perché io sono ossessionata dalla loro felicità, dal saperle felici, felici e basta non per forza felici di me, se sono felici di tutto in quel tutto ci sono anch’io allora, nell’universale c’è il particolare, rispetto il limite dei 70, mi comporto secondo le regole, accosto, aspetto che scendano e riparto senza di loro che vanno. Senza di me.

È così, l’adolescenza è un posto ostile. I confini mobili portano a discussioni, care avvocate dello studio di Corso Vittorio, segnate che questa è materia vostra e sul codice non lo trovate. L’adolescenza è tutta una questione di confini: loro vogliono pezzi del tuo fondo, tu rispondi con il cazzo che ti do più di quello che hai che è moltissimo e anzi tieni pulito il confine e rispetta le distanze, allora loro ti accusano di fare troppa ombra e ti intimano di abbassare gli alberi e tu vorresti prendere il fucile e regolarla nel modo più veloce. Più o meno. Le mie ragazze non esagerano, io ero molto peggio ma i miei genitori non erano me e Lui, va detto. Come va detto che, di tanto in tanto, mi sembrano in difficoltà rispetto ad alcuni amici che hanno genitori che sono spariti, fratellastri che compaiono, disagi sparsi tra i diversi domicili, madri ossessionate dalla verginità e dal controllo del telefono (Dio grazie che non siete paranoici come la mamma di Carla, le ha dovuto mandare una nostra foto insieme per dimostrarle che era davvero uscita con me mi ha raccontato al rientro da un pomeriggio in centro, la madre di Carla avrà i suoi motivi per non fidarsi ho suggerito, no, no, è solo pazza)  noi siamo così poco avvincenti e tormentati da risultare impresentabili. Per il resto, la vicenda somiglia molto a una trattativa sindacale, se qualcuna di voi fa diritto del lavoro sarà avvantaggiata. Se c’è anche una penalista tanto meglio perché vi imbatterete in situazioni odiose come omicidio e cannibalismo: il vostro bambino con le mani sporche di tempera per decorare il lavoretto di merda non esiste più, è stato ucciso e/o mangiato da questo nuovo soggetto che abita a casa vostra, a volte come ai domiciliari, a volte come in un ostello. Ogni tanto vi sembrerà di scorgere dei pezzi di quel bambino, un movimento delle dita non più cicciotte e sudaticce tra i capelli, persino una risata di pancia, penserete che sia tornato che non è mai andato via e invece sono solo rigurgiti. L’adolescente ogni tanto vomita brandelli del bambino che era. Imparerete ad appezzarlo. Come il ruttino dopo la poppata.

Le parole sono poche o troppe contemporaneamente, bisogna imparare a tacere. Ti viene da impazzire, ma come, hai passato mesi e mesi per insegnargli a parlare scandendo bene le sillabe, leggendo e rileggendo adattamenti di fiabe da libri di cartoncino rosicchiati sui bordi e adesso tu devi tacere. Sì. Bisogna tendere alla regola del 7 su 10, almeno. Cioè, parli 3 volte ogni 10. Per il resto su YouTube ci sono molti mantra che tornano utili. A me salva aver amato sconsideratamente degli improbabili oggetti d’amore durante l’adolescenza, la mia. Quando mi dicevano che l’amore salva sempre intendevano forse questo? Ricorrere all’esperienza passata per sopravvivere nel presente? Ciascuno si salva con quel che ha e, alla fine, io ho questo: aver amato sempre e sempre aver desiderato di essere amata soprattutto da chi trovava questa attività troppo faticosa e impegnativa (un minuto di silenzio per tutte le volte che così mi hanno definita).

Questo è l’adolescenza, una relazione sbilanciata nella quale tu ami e non sei mai certo di essere ricambiato, certi giorni giureresti di no, in altri hai una flebile speranza, ogni tanto suonano le campane a festa perché sì, è evidente, che nonostante i toni sei amato anche tu e allora ti azzardi a fare progetti per il fine settimana o per le vacanze e vieni inesorabilmente disilluso. Non importa. Questo è. Pensare a qualcuno che non sai se ti pensa, che molto probabilmente non lo fa. Fare il simpatico per strappare una risata a qualcuno che si imbarazza per te, sentirlo ridere per qualcosa che non sai e che gli è apparso sul display, nei giorni migliori ti senti chiamare e ti viene mostrato quel che fa tanto ridere solo che a te non fa ridere ma ridi lo stesso, per finta e non importa se invece di mamma o ma’ ti ha appena chiamata Amo. Meglio di quando ti chiama Alexa, con lo stesso tono che usa per Alexa. Sono passata sopra a Voga che una volta mi aveva chiamata Patty. Avevo 17 anni. Sono passata sopra nel senso fisico dell’espressione, penso di averlo travolto con tutto il mio disgusto e la mia indignazione, come si permetteva di rivolgersi a me usando il nome della sua ex, quella cessa, cessa anche nel nome, cessa anche nel diminutivo, che aprisse bene gli occhi per vedermi, vedere me, amare me. Voga è il motivo per cui oggi so cosa succede. È il motivo per cui so che non è facile stare con me ma lasciarmi è ancora più difficile.  È il motivo per cui non lascio più.

Avevo capito che mi avrebbe tradita da come stava parlando con lei quando l’abbiamo incontrata, per caso. Si sono aperte le porte dell’ascensore, noi uscivamo e lei aspettava di entrare, si sono guardati e riconosciuti,  ma dai, non ci credo cosa ci fai qui, ci vivo, al quinto piano e tu?  ma dai, mio fratello e mia cognata vivono qui da un paio di settimane, inaugura la casa stasera, ma dai, è quello del trasloco di 15 giorni fa, sì è lui, ma dai, ma dai, ci vediamo, sì, sì, ci vediamo. Non me l’ha presentata, ero lì accanto a lui come il carrellino della spesa, avevo un gonnellone ampio, era di mia madre, a lui piaceva moltissimo come indossavo i gonnelloni, mi diceva che ero bellissima con i gonnelloni solo che non ne avevo ma per fortuna mia madre era entrata negli anni Novanta roteando gipsy nei suoi gonnelloni e per fortuna avevamo la stessa taglia, lui non sapeva che non erano miei e mia madre non sapeva che mi servivano solo per farmi dire che ero bellissima, che non avevo nessun altro motivo per indossarli o per toglierli. La Signorina Ma Dai alla fine gliel’ha data, anzi prima della fine. Quando gli ho detto che lo sapevo mi ha chiesto come fosse possibile. L’ho sentito, gli ho detto. Da chi, mi ha chiesto. A quel punto ero già in frantumi, penso che un pezzo di me abbia sorriso e che lui lo abbia scambiato per un ghigno. Non da chi, da cosa. E l’ho lasciato, perché lui non era capace di farlo, di farmi così male mi ha detto mentre io ero capacissima.

L’adolescenza è un posto in cui si fa ciò di cui si è capaci pensando che basti sempre e che sia sufficiente a definirti, è una palestra in cui si suda e si fa fatica senza sapere perché. È il posto in cui nascono le ossessioni che ci seguono come ombre per la vita, ciascuno ha le proprie, non fate finta di averle dimenticate che non ci crede nessuno, non dovete necessariamente dirle io lo faccio solo perché ho imparato che per me è meglio così, è meglio dire molto (quasi tutto) così chi resta, chi vuole restare, è informato e chi non vuole ha motivi validi per andarsene. Io non lascio più. Ciascuno si salva con quello che sa e io questo so, che non lascio più. E lo sanno le mie ragazze, che non vado via, resto, magari mi sposto di lato, vicino all’uscita di emergenza, dove non mi si vede ma ci sono ad aspettare la loro felicità, ad amarle, amarle, amarle sempre senza che loro lo debbano mai desiderare.

L’adolescenza è un posto difficile ma a me le cose facili non sono mai piaciute.  

Esemplare di adolescente del 1993. Casa di Giorgia, foto scattata da Monica. Calze nere concesse da madre ossessionata dalla volgarità, come strappo alla regola.

Avvisi e divieti (2023)

Alle 4.40 del 4 gennaio mi è stato chiaro che non mi sarei riaddormentata, forse mai più, e pertanto potevo arrendermi, smettere di lottare con il piumone, i cuscini, le lenzuola e persino con i pensieri, lasciando che mi prendessero in ostaggio, alzarmi in segno di resa come quando ti colpiscono a palla prigioniera, e che la tristezza delle 4.40 suona in modo dolce, soprattutto se è il 4, tutta un’altra tristezza da quella che coglie alle 3.30, per dire, più aguzza, più appuntita.

Quando si è molto tristi, dice Merlino a Semola in una scena de La Spada nella Roccia, non c’è che una cosa da fare: imparare qualcosa. Nei primi tre giorni dell’anno ho chiesto informazioni per cinque corsi e due master, con il Lupo che mi vive dietro lo sterno in stato di allerta, preoccupato del mio restare in pigiama ma ancora di più dell’interessamento tutto nuovo per un corso di Ikebana, mi ha ricordato che con i fiori e con le piante vivi forse è meglio che io eviti un contatto diretto e che, in fondo, con il pigiama sono carina. Quando ho proposto il corso di Kintsugi mi ha detto che funziona solo con il ciotolame e che, in fondo, anche con tutte le mie ferite aperte sono carina.

Ha lavorato moltissimo in questi primi giorni,il Lupo, esattamente come nell’anno appena trascorso durante il quale ho letto 60 libri, ho portato a termine 120 allenamenti e ho tenuto in servizio il Lupo dietro lo sterno pe circa 360 giorni.  Lupus sanus in corpore sano.  Che poi, a dover dire il perché mica lo so. Della tristezza, intendo. Mi è presa così, come certe ubriacature quando ti prendono male e diventi molesta e lagnosa, do la colpa all’anno che è terminato, uno dei più faticosi e brutti da quando ho memoria e quindi da molto tempo. Ma non faccio bilanci, per quello c’è la commercialista. E non faccio pronostici, per quello c’è l’astrologo. Sui propositi ho già detto come la penso, mi annoia anche solo la parola. Rimugino nella mia tristezza, la esploro fino in fondo e lascio che faccia un po’ come le pare.

Quando sono molto triste la sola cosa che mi riesce di fare è camminare. Non con il pigiama. Il cane è il mio salvavita, mi costringe a uscire. Nel nostro percorso quotidiano c’è la tappa ai giardini, quelli della mia infanzia, sotto casa dei nonni, lì ci sono due rocce tra le panchine. Non ne ho mai capito il significato, in realtà non me lo sono chiesto fino a quando non ci sono tornata da adulta, con il cane. Ho una foto tra quelle due rocce, scattata da un mio zio, una delle poche cose carine che gli riconosco nei miei confronti, la foto è venuta bene per essere una foto della prima metà degli anni Ottanta. Quella foto è nel mio salotto e non so perché, ce l’ho messa io ma non so perché. Le foto di quando sono bambina non mi piacciono mai. Mi vedo e non mi riconosco nell’intero, solo nei dettagli, nei pezzi: la frangetta, i capelli così biondi da dover essere giustificati in famiglia, il sorriso forzato di chi vorrebbe essere altrove ma non può, l’occhio strabico che disorienta. Mi facevano togliere gli occhiali per essere fotografata, non so se per evitare un effetto del flash oppure se perché c’era lo stigma dell’occhiale e così sono rarissime le mie foto nelle quali mi riconosco davvero, perché io mi vedevo solo con gli occhiali, se li toglievo non vedevo e quindi non mi vedevo. Alle mie figlie non verrebbe mai in mente di togliere gli occhiali per farsi fotografare e io penso che, forse, loro sapranno sempre riconoscersi senza bisogno di andarsi a recuperare componendo pezzi e pezzetti. Il cane non fa mai la pipì contro quelle due rocce, non mi va.

L’idea di ricominciare con i ritmi pieni dalla prossima settimana, mi sono detta. Sicuramente quello concorre a determinare la mia tristezza che è sempre un po’ un misto di stanchezza e insoddisfazione, un vapore acquoso e grigiastro che non è pioggia e non è  nebbia, che sai cosa non è e non sai cos’è, di certo c’è solo che è grigio e che è giusto così, mica può essere tutto bianco o nero, sono nell’età del grigio. Grigi i capelli che crescono, grigio il Lupo dietro lo sterno, grigio il cappotto sotto il quale lo nascondo. “La vedo grigia” è un’espressione abbastanza usuale di mia madre. È tutto grigio. L’idea che tutto mi costa di più, dopo lo scorso anno, anche solo stare in piedi e fornire indicazioni minime: dov’è il tubetto di dentifricio nuovo, la maglia termica è stesa, a pranzo la pasta al pomodoro che non si sbaglia mai. Sono aumentati i pedaggi per entrare nei miei pensieri, per percorrerli e ci sono cantieri, lavori a non finire, restringimenti di carreggiata soprattutto di notte, sono stati abbassati i limiti di velocità perché si creavano troppi incidenti e no, non erano dovuti alla distrazione e  l’ aumento del carburante, quelli che vanno avanti a rabbia ne sanno qualcosa. L’idea di perdere la barra di comando se cambio un solo elemento e di non essere in grado di riprenderla e di non sapere più fare tutto quello che c’è da fare o , peggio, di non aver più voglia di fare tutto quello che c’è da fare ma c’è una rotta da seguire anche se mi sento come Ifigenia quando le hanno detto che, alla fine, suo padre ci andava a combattere a Troia, stava solo cercando un modo per propiziarsi mare e vento.

Alle 4.40 del 4 gennaio mi è stato chiaro che avrei dovuto segnalare nuovi divieti e  nuove avvertenze. A cominciare dal sottofondo quando sono sola in casa, niente più telegiornale di Sky tg24 ma maratona di Harry Potter e basta perché non sono in grado di ascoltare i nomi dell’attuale governo in continuazione, molto più credibile il Ministero della Magia. Poi, interdire l’accesso alla lavanderia ai non addetti perché quella è la stanza del mio piagnisteo, che ciascuno si trovi il proprio luogo deputato. Intendo vietare anche l’uso della locuzione “è un periodo” riferito a qualsivoglia avvenimento, lo sostituiremo con un più onesto “è la vita”, perché è esattamente quello che è tutto questo cadere, rialzarsi, venire colpito, colpire, schivare, abbassarsi, adottare la strategia dell’opossum, ripetere da principio come un circuito di allenamento, due giri di ripetizioni e il terzo giro a tempo cercando di infilare quante più ripetizioni in quel tempo e portate il battito al massimo e lasciarlo abbassare, bere un goccio d’acqua per togliere il sapore ferroso dalla bocca e poi da capo, per lo stretching ci sarà tempo alla fine.  È la vita, dico al Lupo e così si acquieta.

Quando sono molto triste e cammino a lungo succede sempre che mi ricordo qualcosa che poi mi fa sorridere o piangere o tutte e due le cose insieme e non che mi faccia passare la tristezza ma è come se mi ci facesse camminare sopra senza la paura di farmi male, come quando ero bambina e papà, d’estate,  portava me e mio fratello ai tappeti elastici e potevamo saltare e cadere senza pericolo, lui entrava insieme a noi a volte ed era capace di fare un balzo altissimo e tornare giù dritto perfetto , mamma no, aspettava fuori e controllava i sandali, che nessuno li confondesse con i propri e ci sorrideva da dietro la rete, con la sigaretta tra le mani e le gambe abbronzate. Ieri, durante la passeggiata con il cane,  sono arrivata alle rocce e diversamente dal solito mi sono seduta sulla panchina più vicina e ci ho appoggiato i piedi sopra.

Tutte le donne del ramo materno, mi sono detta. È sempre lì che affondo la mia tristezza da quando ero una morula aggrappata alla cavità uterina di mia madre, quarantacinque anni in questi giorni ed è sempre lì che cerco il suo rimedio, in quelle frasi che metto insieme come tanti pezzetti, per vedermi, per riconoscermi, per darmi le indicazioni di cui ho bisogno mai come adesso. Mia madre dice sempre “parente di mio parente a me non viene niente” che è il discrimine per interessarsi o meno alle vicende di famiglia, dai battesimi ai funerali passando per i matrimoni, mio padre torna a casa con la notizia dell’invito da qualche parte e lei applica questa semplice regola logica per decidere se è tenuta o meno ad accettare. La mia bisnonna diceva “se non è netto è freschetto” che significa pace, anche se non è pulito come vorresti almeno è rinfrescato, fatti bastare quello che puoi fare, va bene. Mia nonna diceva “il monaco buono non esce dal convento”, che significa stai attenta a quello che sembra un affare, perché se davvero lo fosse resterebbe dov’è, se il monaco valesse davvero quel che dicono resterebbe in convento a fare il suo, non lo troveresti in giro in cerca di collocazione. Mia zia adotta il parametro delle dimensioni del culo. Il culone è pericoloso, bisogna stare lontano dai culoni perché non si rendono conto dei danni che sono in grado di provocare. Quando mio nonno era ricoverato in terapia intensiva, prossimo alla morte, hanno fatto entrare a turno ciascuno di noi nipoti per un ultimo saluto. Lui non era cosciente ma noi sì e quindi tutti in coda come per le centomila a Natale siamo entrati a turno. Mia zia in qualità di primogenita e camerlengo coordinava ingressi e uscite, faceva entrare il nipote, due parole, usciva lei e poi rientrava per fare cenno che toccava a chi c’era dopo. Quando è toccato a me sono entrata e quasi non l’ho riconosciuto quel piccolo uomo in quel letto attaccato con tubi e tubicini a dei macchinari, ho dovuto osservarlo nei dettagli, nei pezzi del viso, il naso grande, le sopracciglia, il mento e ricomporre l’immagine intera per decidere che sì, si trattava di lui. Mia zia gli accarezzava la mano piena di ecchimosi ricoperta da cerotti e aghi e piangeva, quanto piangeva mentre sussurrava hai visto che bello il nonno, sai che sta morendo il nonno, non ce la fa il mio papà, non ce la fa questa volta, hai visto che bello e io annuivo e poi scuotevo la testa e poi annuivo e piangevo anche io ma senza fare altro, senza parlare. In quel momento si è avvicinata un’infermiera per ricordarci che è ammesso un solo parente alla volta e allora mia zia, in lacrime, fa cenno di aver capito e poi la guarda mentre questa si gira di scatto e si allontana dal monitor dove delle linee verdi segnano che è ancora vivo e strabuzzando gli occhi zia diventa serissima e mi chiede “ma è legale fare lavorare in questo reparto una con un culone tanto grosso?”, io impiego qualche secondo a capire la domanda e a capire che si aspetta davvero una risposta da me. Confermo, è legale. “non dovrebbe esserlo, perché questa con un colpo di culone stacca qualche filo, qualche cavo e i cristiani muoiono per colpa del suo culone”, poi ancora scandalizzata è uscita e mi ha lasciata sola con lui che era impassibile e allora sono stata certa che si trattasse di mio nonno.  

Alle 4.40 del pomeriggio del 4 gennaio ero seduta su una panchina con i piedi appoggiati ad una roccia e raccontavo a una bambina bionda cosa è accaduto dopo, in quella stanza della terapia intensiva quando sono rimasta sola con il nonno, tanto sono passati più di dieci anni e ormai interessa a pochi, forse a nessuno. Per prima cosa ho controllato il monitor, perché in effetti con quel culone non si sa mai. Ho appoggiato la mano sulla sua senza portare peso, gli ho detto che le bambine erano a casa con il papà, avevano quasi finito l’asilo e c’era aria di vacanze e di mare. Poi, sussurrandogli “veniamo a noi”, ho coniugato al presente indicativo il verbo essere in greco, prima, seconda e terza singolare, seconda e terza duale, prima, seconda e terza plurale. A quel punto gli ho detto che ci avevo pensato a lungo e che mi trovavo d’accordo con Parmenide per quella storia dell’essere che non può che essere. Infine, ho gli ho sussurrato l’art.2697 del Codice civile che è il faro della mia navigazione. Esattamente quello di cui parlavamo io e lui quando restavamo soli. Un attimo prima che mia zia rientrasse l’ho salutato per sempre e ho lasciato il posto a chi aspettava dietro di me. La bambina bionda è rimasta in silenzio, penso che abbia paura di balbettare e quindi preferisce stare zitta anche se di cose da dire ne avrebbe. Non importa, sai, se non è netto è freschetto le ho detto. Poi le ho confessato di aver dimenticato il verbo essere in greco e tutti gli altri verbi, riesco ancora a leggerlo ma basta, non vado oltre. È che a un certo punto serve spazio e a qualcosa si deve rinunciare. Sai che ci assomigli a Semola, quello della spada nella roccia, sei la bimba nella roccia, la prendo in giro, anzi sei la bimba di roccia e così le strappo un sorriso. Facciamo così, le prometto, quest’anno mi impegno a sollevarti e portarti via da qui, non so quando, nessuno lo sa, ma mi sembra di allenarmi solo per quel momento.

La Bimba nella roccia.Giardino Kranji-Rivoli.

Io & Lui

Lui ha gli occhi verdi, se ci si avvicina per guardarli bene sembrano anche grigi, se ci si avvicina per guardarli meglio assomigliano a certi laghi che devono il colore cangiante agli alberi da cui sono circondati. Io ho gli occhi neri, se ci si avvicina per guardarli bene sembrano proprio neri, se ci si avvicina per guardarli meglio assomigliano a quei sacchi usati per portare via i cadaveri dalla scena del crimine, in genere dall’assassino e non dal medico legale. Io sono convinta che chi ha gli occhi chiari veda il mondo diversamente da chi ha gli occhi scuri, con più ottimismo. Immotivato.

Io, a volte, mi scuso con Lui per questa cosa che sto invecchiando:” mi dispiace-gli dico- che sono più vecchia e meno bella per te che sai di quando ero meno vecchia e più bella”. Lui non mi trova invecchiata e da vicino ci vede ancora bene, mette gli occhiali per vedere da lontano ecco perché io cerco di stargli il più vicino possibile così sa sempre come sono, davvero. Io, ogni tanto, parlo con la Dottoressa Elle del fatto che mi spiace invecchiare più per Lui che per me, in fondo, e che a volte penso a quella mia amica che è arrivata al quarto marito di seguito che mi sembra un modo per fermare il tempo senza trascorrerlo e non mi piace ma va detto che è anche una bella garanzia contro il dolore di aver vissuto la maggior parte della vita accanto a una sola persona che a un certo punto morirà, al quarto marito non fai nemmeno in tempo ad affezionarti, penso. Lui mi ascolta sempre quando gli parlo della Dottoressa Elle, in genere a letto, appena svegli.

Lui odia la pubblicità in televisione, cambia canale e si lamenta che ci sia la pubblicità contemporaneamente su tutti i canali e dice frasi come “ma davvero qualcuno compra un profumo perché vede questa roba, ma davvero qualcuno compra un’auto perché vede questa roba?” I canali che lo interessano di più sono quelli che io non guarderei mai, quelli delle emittenti locali, con le trasmissioni di musica e balli nelle balere, quelli nei quali Marisa di Brandizzo manda i saluti a tutti quelli che la conoscono, lo rilassano, gli danno un senso di leggerezza. Io li detesto, mi appesantiscono e mi dà fastidio l’accento piemontese,il modo di parlare sgrammaticato, allora faccio il verso al presentatore e ai mezzi disgraziati inquadrati e Lui mi dice di smetterla perché siamo in Piemonte ed è giusto che loro parlino così, ma poi ride insieme a me.

Io non ricordo mai i vini che beviamo, i nomi o le etichette, invece Lui sì, assaggia sempre al ristorante, tiene in bocca per un po’ poi fa un cenno di assenso e lascia che venga versato anche a me e intanto si accomoda meglio sulla sedia e poi mi dice, sempre, di lasciarlo riposare un attimo indicando il vino nel bicchiere. Lui ha un grande senso della musica e del ritmo, io ho un grande senso del testo, mi interessano le parole, solo le parole. Io ricordo tutti i libri che leggo, magari non l’autore ma la copertina sì e li abbino nella libreria secondo un criterio che conosco solo io. Io non sono assolutamente portata per il disegno, a scuola mi regolavo con due cavalli di battaglia che erano l’alba o il tramonto, a seconda del titolo dell’opera, al mare o in montagna a seconda che il sole sorgesse, o tramontasse, dall’orizzonte delineato con matita o pennarello, a seconda della tecnica, azzurro o tra due i vertici di due triangoli innevati o con scarsa vegetazione, a seconda di quanta voglia avevo di colorare di marrone o di lasciare bianco. Lui dipinge benissimo, soprattutto ad olio che è la tecnica che non finisce mai di poter essere lavorata e io penso che sia questo, in fondo, che lo attrae davvero.

Lui è la persona migliore al mondo con cui crescere dei figli sin da piccoli e se io non fossi tanto gelosa potrei noleggiarlo, ormai, perché è davvero  bravo. Per prima cosa non patisce troppo l’assenza di sonno, ha il suo modo di recuperare con brevi sonnellini piombati invidiabili dall’esterno e quindi difficilmente accumula sonno arretrato. Poi, non ha schifo di niente: vomito da influenza o da acetone, cacca nelle diverse consistenze, pellicine delle unghie che fanno infezione, sbucciature e cadute che determinano fuoriuscite di sangue. Io fatico di più, trattengo il disgusto, lo maschero ma vorrei essere altrove. Il sangue mi ferisce e più in generale da quando sono madre vorrei avocare ogni malattia, indisposizione, disturbo così da sbrigarmela da sola. Lui non pensa troppo a come fare e cosa dire con i figli , dice che basta far vedere senza tante parole e, soprattutto, che ormai è fatta, ormai non gli insegnamo più cosa sì e cosa no, ormai lo sanno e quindi ormai scelgono, lo sanno già, quel lavoro l’abbiamo già fatto, mi dice. La Dottoressa Elle conferma, ha ragione Lui. Se non fossi tanto gelosa potrei mandare Lui in seduta, sarebbe un paziente migliore.

Io tengo a mente tutte le date, i compleanni e glieli ricordo solo se mi va di farlo, per esempio  da quando qualcuno mi ha detto che senza di me Lui era molto meglio ho smesso di farlo per tutta una serie di persone e quindi Lui non fa più regali né auguri e forse sembra maleducato invece è solo meglio. Ad aprile saranno ventidue anni insieme ma ci siamo conosciuti nel settembre precedente, ci ha presentati uno che a guardarlo non gli dai due lire e che  ha un cognome che suona come una rivolta e Lui ogni tanto mi dice “ma lo sai che dobbiamo dire grazie a un mezzo coglione” e io gli rispondo che lo so e però è stato davvero come una rivolta. A maggio Lui compirà cinquantatré anni, io ci penso spesso. Anche Lui ci pensa spesso. A volte ci pensiamo spesso insieme. Suo padre è morto a quell’età. Che vuol dire, ci diciamo quando ci pensiamo insieme. Ognuno ha la sua storia, ci rassicuriamo quando ci pensiamo insieme. Lui ha parlato con il suo osteopata che gli ha detto che quando ha superato l’età della morte del padre (49) ha ripreso a respirare correttamente. Io me lo immagino Lui che chiede in giro informazioni di questo tipo, come nostra figlia, la grande, che quando era molto piccola non chiedeva alle persone come si chiamassero o quanti anni avessero ma chiedeva sempre “come chiama tua mamma?”, collezionava nomi di madri altrui, ogni tanto si interessava ai padri “come chiama tuo papà?”, questo l’ha chiesto anche a sua sorella appena nata, per sicurezza. Lui me lo immagino così, un po’ spaurito che chiede in giro  “quando è morto tuo papà?”. Io so che se fai un brutto sogno e lo racconti allora non si avvera, almeno così mi ha garantito mio padre quarant’anni fa, ecco perché io certe cose a cui penso le dico, anche se non sono sogni magari funziona allo stesso modo. Io quando penso ai suoi cinquantatré anni chiudo gli occhi e aggiorno la mia lista dei sacrificabili al suo posto, nel caso a qualcuno potesse servire. Sono tutti nomi di quelli a cui non fa più gli auguri.

Lui va sempre a fare la spesa, io raramente, così raramente che quando accade la mia banca mi manda un sms per avvisarmi che il mio bancomat è stato usato al supermercato. Per la frutta e la verdura Lui va al mercato, io odio il mercato, Lui si mette in coda e ascolta quel di cui parla la gente, io tengo la borsa stretta e sbuffo di fastidio in mezzo a tanta banalità. Lui è diventato molto bravo anche nell’acquisto dei detersivi non si discosta molto dalle mie indicazioni e quando lo fa io, ormai, non mi lamento più perché  è solo un detersivo e anche le lamentele vanno selezionate. Lui non mangia le olive e nemmeno i cetrioli. Io adoro le olive e i cetrioli. Lui li compra lo stesso, io so che mi ama molto perché non devo chiedergli di comprarli. Io non ho mai zuccherato il caffè o il tè, Lui ha smesso di zuccherarli, Io ho iniziato a mangiare il riso, gli gnocchi e la fonduta da quando vivo con Lui, prima vomitavo solo nel vederli. Lui mangia i roccocò a Natale e la pastiera a Pasqua, sa che si dice arancina altrimenti è  abominio.  Io continuo a rifiutarmi di mangiare il minestrone a pezzi, solo passato. Lui non mangia più il minestrone a pezzi, solo passato.

Io amo la solitudine e il silenzio, me li sono conquistati come tante altre sensazioni e condizioni. Lui ultimamente non sopporta tanto le altre persone, vorrei che fosse merito mio ma no, è qualcosa a cui è arrivato in piena autonomia a furia di essere esposto al vociare molesto di clienti e fornitori. Io ho cambiato lavoro, Lui mi ha supportata nel farlo. Lui certe notti pensa al lavoro, io penso insieme a Lui, poi ci scambiamo i pensieri perché altrimenti sarebbe tutto molto noioso e soprattutto significherebbe che solo uno dei due pensa. Io mi accorgo quando Lui ha un pensiero non suo, di più in passato, ormai è sempre più originale. Si è ripulito di una serie di grossolanità che lo ricoprivano come la patina caseosa sui neonati, si è liberato di una serie di falsi ricordi e di qualche menzogna e io ho fatto lo stesso e così Lui non crede più di non essere portato per le piccole riparazioni casalinghe e io non credo più che se piangi per la morte di un animale domestico poi muore un parente. Comunque, devo dirlo, non è mai stato un deterrente per impedirmi di piangere la morte dei miei cani, anzi, ho sempre avuto la lista dei sacrificabili.

Lui alcune parole non imparerà mai ad usarle e io rido moltissimo di questo. Se mai dovessero rapirlo io per essere sicura che sia ancora vivo chiederei di fargli formulare una frase con il verbo confutare prima di pagare il riscatto. Io gli dico ogni giorno che è bellissimo, anche adesso che è un po’ magro. Lui mi dice che sono la migliore, mi stringe la mano nel letto, al buio e io mi sento migliore davvero, magari non la migliore ma migliore sì. Lui mi chiama in un modo che sappiamo solo io e le ragazze, non mi chiama mai per nome. Io a volte lo chiamo in un modo che sanno solo Lui e le ragazze e a volte lo chiamo per nome e a seconda di quante o pronuncio alla fine si capisce l’urgenza o meno che ho. Abbiamo un nostro esperanto come tutti gli innamorati, ma noi siamo più innamorati o comunque innamorati meglio di tutti gli altri.

La Dottoressa Elle mi ha detto che io  e Lui siamo una coppia sana, una coppia che sa ripararsi, ha detto e nel pronunciarlo ha messo i palmi delle mani uno sopra l’altro senza farli aderire e ha mosso la mano destra in senso orario e la mano sinistra in senso antiorario come un ingranaggio, questo significa, per lei, che siamo una coppia che sa ripararsi. Osservavo le sue mani, la fede all’anulare, un braccialetto sottile al polso, le unghie senza smalto o gel o diavolerie che siamo rimaste io e lei al mondo a non fare la manicure e pensavo che quando dico riparare io, invece, mimo il gesto del cucire, unisco l’indice e il pollice della mano destra e ricamo in aria qualcosa, come se rammendassi, cosa che non so fare. L’amore è sutura. Sutura, non benda, sutura, non scudo. Sutura con cui il vento è cucito alla terra, come io a te sono cucita, diceva la poetessa. Ogni volta che ci siamo riparati- e in ventidue anni è successo spesso -è questo che abbiamo fatto, ci siamo rattoppati, cuciti, rammendati. Ecco perché siamo dei mostri, adesso, dei nuovi Frankenstein ricuciti malamente, ecco perché gli altri non ci riconoscono più, perché ci guardano e vedono solo le suture senza individuare i lineamenti, quelle suture che possono essere accarezzate solo da chi le ha praticate con cautela per riparare quel che si era rotto. Siamo una coppia sana, una coppia che sa ripararsi, ha detto e io ho unito il pollice all’indice come per scrivere qualcosa prima di dimenticarlo e mi sono ricordata che mi avvicino a Lui il più possibile e solo lì trovo riparo, osservandolo attraverso i suoi occhi verdi che io non ho paura di annegare e Lui si avvicina a me il più possibile e solo lì trova riparo, attraverso i miei occhi neri che proteggono da tutto, che Lui non ha paura dei cadaveri.

Animali forastici e dove trovarli

Sono stanca, Lupo. Stanca, stanchissima. È stanca Mamma Orsa, vorrebbe andare in letargo. Ti ricordi quando le Cucciole Orse mi hanno ribattezzata così? Quanto tempo è passato? Quasi sei anni da quando la Cucciola grande è stata usata per colpire suo padre e me, mio dio. Mayday, mayday, Lupo. Sono stanca e so che lo sai, ti sento anche senza parole, ti sento soprattutto quando non si sentono le parole, so che lo sai, ti sento agitato dentro la mia cassa toracica, smuovi tutto, scavi e tiri fuori, stai di guardia  ai miei pensieri, osservi quelli che escono e aspetti quelli che entrano, hai il tuo carico di lavoro, lo sento.  È stanca Mamma Orsa di tutti gli impegni delle Cucciole Orse che le cascano sulle spalle e l’abbassano ogni giorno un po’, ecco perché le Cucciole sembrano ogni giorno più alte, mica lo saranno diventate per davvero, che dici? Soprattutto la Cucciola piccola, mica può essersi alzata di tutta una testa nello spazio di una stagione? Non è possibile, Lupo, è Mamma Orsa che si abbassa sotto il peso dei giorni, vero che è così? Ti sento, Lupo, ti sento anche senza parole, ti sento con il fiuto, soprattutto di notte quando sto di guardia  al giorno che finisce e aspetto  quello che inizia, che stanchezza, mio dio. Mayday, mayday, Lupo.

Sono cresciute le Cucciole, sì, me l’hanno fatta così sotto gli occhi e oltre gli occhi, me l’hanno fatto in fretta, in quest’anno maledetto durante il quale ti ho fatto lavorare tanto, tantissimo, chissà se sei stanco anche tu, Lupo. Ti sento  affaticato, ti sento anche se non ti lamenti, ti sento senza le orecchie, lo sai che valgono poco ormai, è tutto un bruciare e prudere e scrosciare di acqua lì dentro le mie orecchie, non posso più farci affidamento, guardo le labbra delle persone mentre mi parlano e vivo nel mondo delle ipotesi, con te non ne ho bisogno, ti sento senza le orecchie. Mamma Orsa ti sente stanco, Lupo, e teme sia colpa sua. Mamma Orsa teme sempre che sia colpa sua anche quando non è detto che sia colpa sua, soprattutto quando è stanca, stanchissima, mio dio. Mayday, mayday, Lupo.

Mamma Orsa e Cucciola grande sono state a Roma per due giorni, quarantotto ore filate via sotto una pioggia sconsiderata, in mezzo a lampi e tuoni scagliati da Giove pluvio in gran forma, quarantotto ore passate in fretta, fatte di amiche ritrovate per la Cucciola e di passeggiate mischiata tra le persone per Mamma Orsa, con il cappello a ripararla e una mappa spiegazzata in tasca, con tanti pensieri, tanti davvero, da rimettere in ordine, con qualche affanno dal quale separarsi per poco, solo quarantotto ore, ma vere, con un paio di desideri da gettare agli dei per il tramite di una monetina, Mamma Orsa e il Lupo dietro lo sterno, a passeggio sotto il diluvio come se non fosse vero.

Dopo aver lasciato Cucciola grande alla fermata della metro  Ottaviano con raccomandazioni infilate a caso nelle tasche come spicci lasciati all’ultimo momento sono tornata in San Pietro perché avevo cose serie da sbrigare: mi serviva Santa Lucia. Una medaglietta di Santa Lucia, di quelle che si tengono nel portafogli o in qualche tasca. Mia nonna aveva la medaglietta della Madonna di Loreto, a cui era devota, pinzata nella sottoveste, ogni tanto scostava l’abito o la camicia e me la mostrava baciandola. La Madonna di Loreto non ha le braccia quindi io l’ho sempre patita molto perché sulle menomazioni non vado forte, anche la devozione di mia nonna non me la sono mai spiegata fino in fondo, aveva una sua versione dell’agiografia, diciamo che tendeva alla semplificazione. “Nonna che cosa fa Santa Chiara” “eh, Santa Chiara è importante.” “perché? che ha fatto?” “eh, Santa Chiara se la faceva con San Francesco, per quello è importante”. Ah. “Nonna, ma Santa Sonia esiste?” “No, tu non la tieni la Santa.” “E perché non esiste?” “eh, perché non hai un nome cristiano?” “In che senso non è un nome cristiano, scusa, mi hanno pure battezzata?” “eh, vabbuò, ti hanno battezzata ma quello perché il prete era amico di papà tuo, tua mamma ti ha dato un nome senza Santa”. Questa  nonna era, va da sé, quella paterna.

Mi serviva Santa Lucia, una medaglietta di Santa Lucia made in China direttamente da San Pietro.  Ho iniziato a frugare tra le medagliette infilate in diverse scatoline dentro un negozio grande che prometteva il fatto suo sull’argomento. Niente. Mi sono arresa, dopo sei o sette sante mi sembravano tutte la Madonna con un altro nome scritto sotto, persino Papa Francesco mi sembrava la Madonna con un altro nome scritto sotto (Papa Ratzinger no, sembrava proprio lui)è quello che chiamo l’effetto Trip Advisor per cui al quarto ristorante di cui leggo le recensioni vado in confusione e mi sembrano tutti uguali. Allora ho chiesto aiuto alla commessa. Non ho posto una domanda difficile “buongiorno, mi scusi, vorrei una medaglietta di Santa Lucia, se possibile” “Santa Lucia?” chiede come colta alla sprovvista la giovane ragazza ad occhio mia coetanea. “Sì” annuisco, confermo, sorrido persino. “Forse è meglio che chieda alla mia collega, per questo.” Sono rimasta ferma al forse per un attimo, come quando sai di aver capito bene ma non ti torna nel senso della frase. Forse. Non era sicura nemmeno lei che la sua collega potesse aiutarmi, per questo. Per questo indica la difficoltà del quesito, la specificità della richiesta che necessita di un intervento specializzato. Forse. Mi sono rivolta alla collega, sempre con il sorriso, finto, sulle labbra. Ho riformulato la richiesta. La collega, e forse madre della giovane e inesperta venditrice data la vaga somiglianza che ho colto nel lampo di stupore intravisto nello sguardo altrimenti spento, ha ripetuto la mia richiesta a voce alta. Sì. Ho riconfermato. Santa Lucia. Sono sicura. “allora, qui se vuole c’è Santa Marta.” “No, grazie, non voglio Santa Marta, voglio Santa Lucia, non so nemmeno che fa Santa Marta.” “eh beh, pure Santa Marta fà, per fare, pure Santa Marta fà.” Ho avuto un attimo di esitazione, volevo chiederle se avesse parenti a Napoli, se qualcuno della sua famiglia per caso arrivava dalla zona di Piazza Carlo III, se di cognome faceva come mia nonna. Mi sono trattenuta e ho continuato a sorridere. Per finta. “Allora qui, se vuole c’è San Francesco” “No, grazie, sto cercando Santa Lucia. Mi serve proprio lei” “ah, è per gli occhi, allora? Vuole proprio apposta per gli occhi? “Sì.” “è per lei?”. Ma che te ne fotte a te?! “No, devo regalarla” “ah, ho capito, allora San Francesco lo mettiamo via, pure San Giuseppe lo mettiamo via?” “sì, lo metta via, grazie.” “eccola qui, lo sapevo, visto? Ecco Santa Lucia, guardi un po’, ce ne sono due addirittura” “oh, grazie! Che differenza c’è tra le due?” “nessuna, la Santa è quella” “Sì, però in questa c’è scritto Santa Lucia ovunque proteggimi e in questa Santa Lucia prega per me, quindi la differenza c’è.” “e qual è?” “eh, mica e lo stesso pregare e proteggere, prendo questa che protegge, grazie.” “sì, ma anche la preghiera fà, per fare, pure la preghiera fà”. “Sì, per carità. Ma la preghiera è più in difesa capito, è più come dire difendimi se mi attaccano, io qui voglio la protezione anche se non mi attaccano, come con i figli, no? un conto è difenderli e un conto è proteggerli” “come dice lei, signora, la Madonna che scioglie i nodi la metto via o la prende?” “La prendo, che pure sciogliere i nodi non è da tutti.” Che fatica, Lupo, mio dio. Mayday, mayday, Lupo.

C’era una zia di mia madre, anzi la zia di mia madre perché gli altri erano tutti zii, che iniziava ogni discorso in due modi: “se fossi Dio” oppure “se fossi al governo”, a seconda che la vicenda da gestire riguardasse il potere spirituale o quello temporale. Aveva una soluzione morale e politica a tutto, pur essendo dichiaratamente atea e monarchica nonostante il crocefisso inamovibile in casa e la visione femminista e progressista di se stessa. A volte mi chiedo come si possa arrivare da posizioni così lontane tra di loro, come si possa avere all’interno del proprio DNA le stesse percentuali di una famiglia e dell’altra, mi sembra folle essere il prodotto di istanze così lontane e inconciliabili eppure lo sono e forse sono così per questo, a volte guardo le Cucciole Orse e mi sembra impensabile che abbiano questi universi dentro le loro cellule, eppure li hanno e sono il miglior prodotto che potesse venire fuori o comunque confido molto nella selezione della natura  e nel salto generazionale e così spero che alcune idiozie non le riguardino o che comunque siano capitate ad altri, va da sé, non della parte materna. Che stanchezza, Lupo. Ho tanto desiderato essere Dio, quest’anno. Anche solo dio, un dio qualsiasi. Comunque un dio con determinate caratteristiche. Un dio abbastanza incazzoso e vendicativo, uno che non te le manda tanto a dire, uno con cui non ragioni molto e che promette poco, anzi, un dio che non ti dà garanzia alcuna sul dopo, nessuna teoria escatologica ma solo prospettive scatologiche. Un dio facilmente bestemmiabile, senza timore di essere punito perché imprecherei più forte e fulmienrei a caso e fanculo pure il libero arbitrio, via, tolto, ve lo buco ‘sto cazzo di libero arbitrio. Quest’anno ho trascorso molto tempo seduta sullo sgabellino della lavanderia a guisa di scranno in una cattedrale, che fortuna avere un posto dedicato per stendere dice la mia amica Gabri che sposta gli stendini in ogni stanza della casa a seconda del fabbisongo, io invece ho spostato pezzi di casa in lavanderia e seduta sullo sgabellino quest’anno ho pianto per ore, singhiozzando forte coperta dal rumore dell’asciugatrice e della lavatrice, insonorizzata, protetta e difesa allo stesso tempo, incapace di pregare, con una sola richiesta a riempire le labbra, chiedendo all’Universo di prendermi i pezzi che non mi servono chiedendo di rivolgere altrove tutto questo dolore. Sì. Così. Se fossi stata dio, un dio qualsiasi, anche un ciarlatano, un dio sedicente tale, un dio da poco, se fossi stata un dio minore avrei saputo a chi indirizzare il male che mi stava torturando, lo avrei spostato con un soffio. Sì. L’ho pensato. Ne vado fiera? No. Lo riafarei? Sì. Perché io sono così, ho ben chiara quella parte di me, cattiva, torbida, spietata e non è un difetto, magari fosse un difetto, sarebbe qualcosa che manca, qui invece c’è  e non posso toglierla. Posso farci dei compromessi. Posso metterla a a tacere, posso educarla. Posso evitare che sbraiti. Ma che stancezza, quanta stanchezza, Lupo, mio dio. Mayday, mayday, Lupo.

Ho finto di non conoscerla, speravo facesse altrettanto non per lei ma per me, per il Lupo, per Cucciola Orsa. Invece no, nemmeno il tempo di prendere posto sul treno del ritorno, con le giacche piene di acqua e il trolley da sollevare mi guarda e si aspetta che la identifichi. Il mio sguardo diventa di pietra. Il mio istinto di conservazione è più forte del suo istinto di conversazione e infatti lei cede. Allora pronuncia il mio nome  “Sonia” ma lo fa come se fosse una domanda. “Si” e lo dico come se fosse una sentenza di condanna. Fingo ancora di non sapere di chi si tratti. E poi mi dice “sono la moglie dell’Orrendo Butterato”.  Mi viene in mente una frase scritta a matita sul libro di letteratura l’anno della maturità , il commento a un qualche brano non so quale, vedo la mia grafia sul libro, nello spazio tra due paragrafi, la memoria visiva è uno dei miei cavalli di battaglia, la memoria in generale è una delle condanne che mi sconto in vita: elì, elì, lama sabacthani, lo sconforto supremo, il dubbio nella sua espressione più crudele, fingo ancora, faccio come mia nonna materna quando non mi ha riconosciuta per la prima volta di tutte le volte successive, quando mi ha fregata così, faccio come mia nonna che il giorno prima sapeva chi ero e il giorno dopo mi ha detto “buongiorno Signora” con un distacco gelido che mi si è attaccato dentro,vicino al cuore e il Lupo ci si rifà i denti  quando è nervoso. Immagino di aver sentito male, ho le orecchie a puttane, Raperonzolo dal flaccido doppio mento qui davanti a me non ha detto così, ha detto “ci sono foglie proprio qui sul selciato” oppure ha detto” ho voglie che ho colmato con un gran gelato”, può anche aver confessato “sono doglie anzi no, guarda, ho solo defecato”.  Con lo sguardo disgustato le ho rivolto un olofrastico “eh”. Basta.  Ho preso il Lupo e Mamma Orsa, li ho fatti sedere davanti a Cucciola grande, che nessuno si avvicinasse. Basta. Nessun profluvio di contumelie, tutte rimaste a livello di pensiero. Basta. Ho promesso, seduta sul mio sgabello, che non avrei alimentato la rabbia, in cambio ho chiesto di riavere indietro mio fratello e suo figlio, nulla posso fare per il rancore, quello è e quello rimane. Nulla posso fare per il desiderio di vendetta, quello è e quello rimane, posso solo tacerli, lasciarli sbocconcellare al Lupo, lasciarglieli triturare e poi scusarmi con lui che alla fine mi difende mentre io proteggo la Cucciola, indifferente a tutto questo, lei con lo sguardo rivolto fuori dal finestrino, il sorriso di chi ha capito, di chi ha sentito ogni sforzo e ogni pianto, non con le orecchie e senza le parole. Lascio Raperonzolo alle sue telefonate, devono averle detto di non avvicinarsi ulteriormente altrimenti potrei uccidere. Sì. Posso. Guardo fuori dal finestrino e poi davanti a me, lei, Cucciola grande con gli occhi di suo padre e il mio modo di guardare: come si fa ad arrivare da entrambi questi posti contemporaneamente, nello stesso modo, nella stessa percentuale? È impossibile. È un miracolo. L’ho fatto io. Come se fossi dio. Ma che stanchezza, Lupo, mio dio. Mayday, mayday, Lupo.