Devo fare i pagamenti. Siamo a fine mese e io ho da gestire i pagamenti a scadenza di entrambe le società, questo mese il 30 cade di domenica e per lunedì voglio che i fornitori vedano che abbiamo saldato, precisi e bravi come da quando di questo mi occupo io. Anche di questo. Devo disporre i bonifici e autorizzare gli effetti, controllare la correttezza delle fatture, verificare che ci siano tutte e poi stilare la mia personale classifica e pagare prima quelli che lo meritano di più e dopo quelli che lo meritano di meno e va bene perché pagare dopo non significa non pagare, se non paghi sei una merda, se paghi dopo vuol dire che la merda è l’altro, quindi può aspettare un giorno in più.

Ho mangiato una roba veloce con Pepe, io e lei in terrazzo, un’insalata scrocchiarella con cetrioli e finocchi e pomodori datterini con tanta erba cipollina e poco, poco sale, un filo d’olio. E polpettine di ceci che vengono via facile, acqua non di frigo per carità. Poi lei ha mangiato anche una pesca, mi ha detto che ho fatto bene a metterle in frigo perché, è vero, sono già mature. Suo padre le ha comprate questa mattina al mercato prima di andare in ufficio, è rientrato e aveva la maglietta sporca, gli ho detto di cambiarsi, non mi piace che vada in ufficio sporco, insomma. Ha opposto una debole resistenza, perché l’aveva appena indossata. Quando fa così c’è da incazzarsi e mi incazzavo, un tempo. Adesso gli dico che se la sporca di più farò più fatica a farla tornare pulita, non posso lavarla a 60 gradi né usare chissà quali prodotti su una polo bianca, allora capisce che è più vantaggioso per lui, per me e per l’ambiente e non insiste. Cri è a pranzo con Franci, poi si allenerà o comunque so che devo andare a recuperarla alle 21.

Il caffè l’ho preso in studio, ho questa tazzina con scritto keep calm un cazzo, , è la mia preferita per il caffè del dopo pranzo. La mattina il caffè lo prendo nella tazzina della Vergine, giusto per una mia necessità di precisione. Ho risposto a due mail, alla terza ho dato conferma di lettura e augurato di schiantarsi al mittente ma senza scriverglielo cosa che non escludo a breve di fare. Non ho più voglia. Ecco. Non ho più voglia. Guardo i nomi, leggo le cifre, riguardo i nomi, controllo se sono cambiati gli iban, controllo se è corretto, se tutto è corretto e tutto riesce a essere corretto e sbagliato nello stesso preciso momento perché io non ho più voglia.

Ho portato i cani al parco, questa mattina. Prima che facesse troppo caldo, sono tornati stremati, io avrei proseguito a camminare e avevo il groppo in gola al pensiero di tornare a casa e mettermi in studio. L’idea di salire in auto e andare in ufficio,  però, mi atterriva e allora ho scelto lo studio. Anche se poi ho portato Cri alla metro e sono passata da Andrea e Bea a ritirare dei libri, uno per Cri e uno per Pepe. Quando qualcuno mi dice che sono fortunata ad avere due ragazze che leggono tanto mi sale un rigurgito grumoso di cattiveria come quando mi dicevano che ero fortunata ad avere due bambine che mangiavano frutta e verdura e facevano sport con tanta continuità e passione. Niente, sono tornata a casa, con i cani dopo il parco intendo, e mi sono messa in studio a spararmi nelle palle quando ho avuto notizia dell’ennesima stupida trovata di qualcuno che trova senza cercare. Le trovate di quelli che stanno fermi mi fanno incazzare. Le cose immateriali che passano da una tempia all’altra e che vengono spacciate per idee mi fanno incazzare. Chi si sottrae al confronto per non essere confrontato mi fa incazzare. Ho l’incazzatura costante. Sono stanca. Stremata.

Lui dipinge molto bene, non glielo dico spesso, non glielo dico abbastanza. Lo penso e non lo dico ogni volta che ci penso che, sì, dipinge davvero bene. Confido nel fatto che sa cosa penso. Mi viene un grande, enorme, groppo in gola, ultimamente a pensare che Lui sa cosa penso e che questo è sufficiente perché io non dica più, non dica altro, non dica molto. Così ogni volta che dico poi mi chiedo se è necessario. Ma se la prendiamo sotto il profilo della necessità poco e niente è necessario.  La verità è che non ho voglia di dire. Indugio nel pensiero. Almeno è il mio, certo. Il groppo in gola, certe notti, mi strozza. Allora penso che sto morendo, ma non è un pensiero nuovo solo che ogni volta è una morte diversa e allora è come se fosse nuovo. Lunedì notte, per esempio, era un infarto. La settimana scorsa era un tir che non frenava e mi faceva fare un salto di carreggiata con la mia macchinina fucsia. Quando non riesce a dipingere pensa al contorno, mi ha spiegato. Se non gli viene una mano, per esempio, smette di pensare che vuole dipingere una mano e inizia a dipingere tutto quello che c’è intorno alla mano. A me suona miracoloso.

Abbiamo stretto tanti patti in tutti questi anni trascorsi insieme.  Il primo non è stato proprio un accordo quanto un atto unilaterale. Mio. Recitava più o meno: ti dirò sinceramente e  sempre cosa penso di una situazione perché tu conosca, quando scegli, il mio punto di vista prima di decidere. Correva l’anno 2001. Non avremmo mai immaginato niente per noi due insieme, c’erano altre storie e altre vite, c’erano altri programmi, altro, altri, non conoscevo la sua famiglia dio che gioia e lui conosceva poco la mia dio che leggerezza, non avevamo niente insieme ma eravamo insieme.  Non sono mai venuta meno all’impegno preso con quella frase. Mi chiedo se lo sa. Dovrei chiederlo a Lui, ma non ne ho voglia. Mi direbbe che lo sa ma sono certa che non ne ha mai tenuto la contabilità. Poi abbiamo fatto giurin giuretto che mai ci saremmo chiesti scusa e mai ci saremmo detti grazie, mai. Inutili orpelli, bizantinismi, quelli che oggi chiamo ghirigori del cazzo. E poi abbiamo deciso che io facevo il missile, perché quella è la mia natura ma lui faceva il supereroe, perché quello ci vuole per fermarlo un missile terra aria. E abbiamo stabilito di essere culo e camicia e io faccio il culo perché modestamente… e poi abbiamo decretato che non c’è posto libero in organico per alcun ex, se li si incontra li si saluta, si cambiano due informazioni su chi è morto e chi è moribondo ma poi basta, non abbiamo caselline di ex da riempire. E abbiamo scelto di lavorare insieme perché era il solo modo per esautorare lo strapotere cannibalizzante dei nonni, il solo modo per avere figlie capaci di mangiare molta frutta e leggere molto e fare sport e conoscere tutte le parolacce prima dei sette anni che poi con l’amigdala è un casino, certe cose vanno infilate nelle teste entro un termine preciso lo dice anche Galimberti e abbiamo deciso di infilarci le nostre cose perché le figlie erano le nostre e gli altri facciano anche un po’ come vogliono.

Non ci ho voluto infilare la tristezza. Però questa roba che mi si infrange addosso loro la vedevano e non potevo nasconderla, così l’ho ridipinta in malinconia, e quella un pizzico va infilata perché altrimenti la vita non ci mancherebbe mai.

Devo fare i pagamenti perché le mie figlie mangiano la frutta, insomma. Al massimo della sintesi la storia è questa. Ci sono giorni del mese in cui devo fare gli incassi, perché le mie figlie leggono molto. Quando faccio la riconciliazione bancaria è perché le mie figlie fanno sport.  Poi ci sono momenti nei quali mi chiedo il missile dove sia finito, non vedo nemmeno il supereroe capace di fermarlo. La settima prossima potrei morire investita da un monopattino in contromano con sopra due deficienti.

Mentre raccoglievo la cacca di cane numero 1 ho pensato al giorno in cui ho disinfettato tutto l’ufficio, cornette del telefono comprese, perché la nipote di un collaboratore si era presa la suina. Tutti facevano un gran balletto di parole e io pulivo.  

Non ci ho voluto infilare il senso di colpa perché interferisce con il senso dell’orientamento. Però questa eterna penitenza che mi sobbalza in petto loro la vedevano e non potevo nasconderla, così l’ho travestita da senso di responsabilità, perché saper portare pesi è sempre meglio, non ci si fa male la volta che tanto poi si deve fare.

Cane numero 2 caga in modo strano. Si apparta, porge le terga a un riparo, contro un muro, un palo, un albero, non si espone alla vista, mi costringe a posture incongrue per raccogliere le deiezioni. Mentre a mia insaputa mi srotolavo in qualche posizione yoga livello intermedio ho pensato a quante volte sono rimasta fino alla chiusura per coprire il centralino, in ufficio, quando chi era in chemioterapia non aveva la voce per rispondere e gli altri erano troppo devastati dal dolore del cancro altrui per farlo.  

Non ci ho voluto infilare il pietismo perché non avrei saputo dove andare a prenderlo tra quello che avevo a disposizione. Però qualcosa dovevo mettere e mi sono ritrovata la pietas tra le mani e mi è sembrato che fosse quanto di più umano poter infilare nell’amigdala di qualcuno che ami e che deve camminare per il mondo.

Cane numero 1 si chiama Justin e cane numero 2 si chiama Power e si chiama così perché con Lui abbiamo riso molto dell’effetto justin power.

Quando ridiamo ridiamo molto, non è mai successo di ridere poco. Io faccio ridere molto più di Lui. Ma Lui ha tre o quattro cose che mi piegano sempre, un certo passo con il piede, una mossa che fa con il piede in avanti che mi fa ridere solo a pensarci. Quella è la cosa che mi ridere più di tutto al mondo. E la sa fare solo Lui.

Una signora prendeva il sole in costume su una panchina dei parco, era cosparsa di crema solare, forse era olio solare, cane numero 2 voleva leccarla o forse morderla, fa questa cosa di avventarsi sulle caviglie delle persone, devo sempre avere i riflessi pronti mentre cane numero 1 passa indifferente tra le gambe dei passanti, viaggia a un altro livello proprio, potrei avere entrambi gli  atteggiamenti  e restare comunque me stessa.  Ho entrambi gli atteggiamenti.

Cane numero 1 si stanca in fretta, è più vecchio di cane numero 2 che è un cucciolone carico a palla, cane numero 1 ogni tanto alza lo sguardo per chiedere una pausa e allora mi fermo. Perché è una passeggiata e non una gara. Ci siamo messi all’ombra, in disparte, vedevamo senza essere visti. Ho pensato a come ho strutturato il recupero crediti, creando una procedura dal nulla con persone che diffidavano anche solo della mia presenza. Il mio obiettivo era recuperare gli insoluti entro il mese.  A disposizione avevo due impiegati informaticamente analfabeti e un dossier di fogli appallottolati nelle buste crystal con qualche documento personale finito lì per sbaglio. Ci sono riuscita. Perché le mie figlie dovevano leggere molto.

Non ci ho voluto infilare la comodità, perché rende poco tonici.  E se un corpo tonico attrae, una mente tonica conquista. L’amigdala non sa se si è maschi o femmine, forse. Ma il mondo lo vede. E avrei voluto insegnare alle mie ragazze che non c’è differenza ma la differenza c’è e allora meglio partire da subito con gli allenamenti e con la scarsa comodità. Come si dice, faccio tutto quello che fa Lui ma con i tacchi e all’indietro. Ecco, al posto della comodità ci ho infilato le scarpe da tennis da tenere in auto per guidare.

C’era un altro patto. Anche questo è vecchissimo, anche questo era partito da me. Sono stata il legislatore di questa vita trascorsa insieme, ma questo patto è inserito in costituzione, roba seria insomma. Prevede di non essere mai messa su un tavolino. Testualmente: non lasciarmi mai sul tavolino. Non capiva, all’inizio. Quale tavolino. Lasciata come. Allora io, strizzata in un jeans aderentissimo a sormontare tacchi altissimi, fortissima delle mie labbra ricoperte di rossetto rossissimo ho preso il posacenere , l’ho sollevato dal tavolino del pub dove eravamo seduti e gli ho detto che non doveva mai farmi diventare, nella sua testa, qualcosa di stanziale su un tavolino. Un oggetto su un cazzo di tavolino. Un cazzo di oggetto immobile sul tavolino. Cosa succede, altrimenti, aveva chiesto incuriosito. La sua curiosità verso di me mi ha sempre addolcito lo sguardo, come con l’acqua calcarea, ecco la sua curiosità è l’addolcitore per il mio calcare, io che produco pietre e sassolini per lanciarli in giro e lui che scioglie piano piano, pezzetto per pezzetto i sassolini e le pietre un attimo prima che io le lanci solo così, con la curiosità quando mi ascolta. Rovescio il tavolino, avevo risposto. E se si rompe? Non importa. Perché? Perché io non sono il tavolino. Non mi devo mai dimenticare di te, insomma, aveva concluso. Mai. È come dire per sempre, noi non diciamo per sempre. No, noi non diciamo scusa e grazie e non è come dire per sempre, non pensare al per sempre, pensa a quello che c’è intorno al per sempre.  Cosa c’è? Il mai, non mettermi mai sul tavolino.

Non ci ho voluto infilare il bisogno di giustificarsi o di spiegarsi, però questo continuo affanno di aprire i due punti lo vedevano e allora l’ho agghindato da capacità di ricapitolarsi, perché sapersi riavvolgere aiuta a non disperdere quel che si è e anche questo ho pensato potesse servire per sapere cosa devi pagare nel mondo, quando sei stremata, quando non hai più voglia.

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