Aveva lasciato passare i giorni e quelli erano passati. Non erano andati via, si erano depositati a terra, lì appena dietro le sue spalle, ed erano diventati settimane e lei aveva lasciato passare le settimane e anche quelle erano passate e nemmeno quelle erano andate via, erano diventate mesi con la stessa trasformazione che muta un cadavere in vermi più che una crisalide in farfalla. Adesso aveva questo bello strato di giorni, settimane e mesi, un bel pannello isolante ed era così che si sentiva infatti. Isolata. Aveva segnato su un taccuino: i giorni passano. Le era sembrato un pensiero da fissare. Era una di quelle persone che fissano i pensieri scrivendoli, altrimenti non sono veri.

Una sua amica le aveva confidato di avere il proprio termostato emotivo impostato sul basso,  per preservare quel poco di equilibrio che le consentiva di iniziare una giornata e concluderla mettendo i piedi uno avanti all’altro e facendo tutte quelle cose che i vivi fanno senza però essere troppo vivi perché quando sei troppo vivo anche la morte è troppa. Allora ci si regola sul basso, si vive, ma poco. Ci si muove nel mondo ma piano e non in tutto il mondo, ci si ricava una porzione di mondo, un isolato a dirla tutta. Quando si vive poco si muore poco, le aveva lasciato intendere la sua amica. Ma quando muori fa differenza se è troppo o poco, aveva chiesto. Solo nel dolore che ci metti, le aveva risposto, piano,  la sua amica.

Al terzo giorno di mare un uomo le aveva chiesto di uscire, di bere qualcosa insieme compatibilmente con i suoi impegni di mamma. Non lo aveva proprio chiesto come si chiedono le cose, le aveva scritto. Non un bigliettino con la grafia in mostra, ma attraverso i social. Era seduto due file davanti a lei e non si era girato per chiederle di uscire insieme compatibilmente con i suoi impegni di mamma, ma aveva cercato il nome di lei sui social, lì l’aveva trovata e lì le aveva scritto senza alzare lo sguardo dal cellulare. Lei si era guardata intorno, anche dietro le spalle e ci aveva trovato solo il pannello isolante di giorni, settimane, mesi.  Si era guardata le mani, incredula. Si guardava spesso le mani, si tormentava un po’ le dita perché in questo modo si calmava. L’ultima volta che un uomo le aveva chiesto di bere qualcosa insieme lo aveva fatto portandole direttamente un calice di qualcosa a una festa per i quarant’anni di un suo amico, lei aveva sorriso, aveva ringraziato e si era giustificata: non sono qui sola. Qui nel mondo, intendeva.

Non sono tanto i miei impegni di mamma, quanto quelli di moglie. Aveva risposto così a quel messaggio per rifiutare. L’uomo, poco più di un ragazzo le sembrava con quei dieci anni in meno di lei, si era scusato senza alzare lo sguardo dal cellulare. Aveva frainteso il suo essere sola con le ragazze, non pensava ci fosse un marito.

Lei non aveva più risposto, aveva lasciato cadere lì tutto, insieme agli sguardi dei giorni seguenti, insieme all’irritazione delle ragazze per questo affronto nel non aver saputo usare i social: “se stalkeri qualcuno  guarda cosa posta, se avesse avuto più cervello avrebbe visto che ti interessi solo di noi, libri, cani e papà, papà, noi, libri e cani, cani, libri noi e papà”. Papà. Un marito. L’articolo indeterminativo risultava stridente appoggiato alla faccia di Lui, avrebbe voluto correggere solo quello perché suonava completamente sbagliato nel messaggio. Aveva sorriso alle sue indignate ragazze: non penso fosse il cervello la parte coinvolta nell’invito, aveva detto. “Le altre mamme non parlano così, lo sai vero?”

Aveva segnato su un taccuino: le altre mamme. Verificare. Lo so.

Libri, cani, noi, papà. Bastava guardare, era tutto lì. Si vedeva da fuori.

Era stata molto in silenzio, più del solito. C’erano intorno a lei colori nuovi e suoni vecchi, si era lasciata immergere in tramonti di un arancione mai visto prima al suono di un dialetto che la cullava sin da bambina e che capiva solo lei mentre il mare se ne fotteva e stava lì solo per spegnere il sole alla fine di una giornata mica per altro.  Un giorno aveva visto il sole tramontare 43 volte. Non sapeva a chi dirlo.

Aveva  pensato a tutte le cose che non sa fare. Poi le aveva scritte, così da certificare di non saperle fare. Aveva  guardato bambini non suoi giocare rischiando di farsi male, almeno a lei pareva così mentre i genitori non sembravano per niente preoccupati. Aveva visto famiglie sedersi a tavola con lo sguardo sui cellulari.  Aveva segnato su un taccuino: preoccuparsi di non fare male, alzare lo sguardo dal cellulare.

Non sapeva chiudere il bilancio, lei non era di quelle che la sua commercialista definiva autonome sino al bilancio. Ma era autonoma a fare i bilanci e a chiudere di conseguenza. Non trascinava nulla, chiudeva come si fa con le case dei morti, si dà via quel che si può, si conserva qualcosa per ricordo e poi si chiude. Questo lo sapeva, questo si vedeva, era tutto lì nelle mani, si diceva. A volte lo scriveva, poi lo cancellava. Cancellare era come socchiudere invece di chiudere, restava la traccia, un’ombra.  La differenza è tutta nel dolore che ci metti.

Avrebbe voluto chiedere a qualcuno se il dolore è qualcosa che metti o qualcosa che trovi lì, già fatto, e ti ci adegui. Il dolore, quello è? Il dolore lo porto io da casa? Ce lo metto io? La sua amica era distante e questa domanda le avrebbe variato l’umore costringendola a regolare diversamente il termostato quindi aveva rinunciato all’idea di chiederglielo. Aveva interpellato l’arancione un attimo prima che si spegnesse nel mare: il dolore. Ce lo metto io o me lo trovo addosso? Ma l’arancione si era spento, il mare se ne fotte e la sua domanda era rimasta in sospeso, la si vedeva nello sguardo, bastava un niente, si vedeva da fuori.

-Quanti anni tiene il cane?

-Come, scusa?

-Il cane, quanti anni tiene? Quant’è bellillo, posso accarezzarlo?

-Ha otto anni, sì puoi, fai piano, qui sulla schiena, basta che ti fai vedere sempre bene dai cani, loro devono vederti così non hanno paura.

-Lo so, perché pure io tengo un cane.

-Come ti chiami?

-Sofia. Tu?

-Sonia.

-Perché sorridi?

-Perché vi chiamate tutte Sofia.

-Pure lui si chiama Sofia?

-No, lui no. Si chiama Justin. E il tuo cane come si chiama?

-Aron, tiene cinque anni ma è grosso.

-Ah, sì, ho capito, è quel labrador grande, vero? Complimenti, è molto bello.

-Grazie. Che tiene sulla schiena, Justin, perché gli manca il pelo?

-Forse ha una dermatopatia ischemica. Parola difficile, vero? Significa che il bulbo dove nasce il pelo non funziona più. Comunque tra poco lo porto di nuovo dal medico, un altro dottore e sentiamo cosa dice.

-Tu quanti anni tieni?

-45.

-Sei molto bella per avere 45 anni.

-Grazie.

-La mia mamma ne tiene 35 ma non è bella come te.

-L’ho vista la tua mamma, con Aron, secondo me è molto bella, come te.

-Tu tieni figli?

-Due. Due ragazze.

-Sono belle?

-Bellissime.

-Ti somigliano?

-No.

-Tu assomigli a tua madre?

-No.

-Io assomiglio a papà perché ho gli occhi del suo colore. Pure se lui non tiene i capelli. Perché ridi?

-Perché mi ero dimenticata che qui non si dice mai “avere “e tu me lo hai fatto ricordare, Sofia. E mi diverte un po’ questa cosa che avevo dimenticato di quando ero bambina come te.

-Non ho capito.

-Qui gli anni si tengono, non si hanno. Tu quanti anni tieni?

-Sette.

-Eh. Li tieni tutti, no? Mica li hai gli anni, li tieni, li accumuli tutti e così a un certo punto ne tieni 35 o 45. E continui a tenerli tutti ma mica li hai. È giusto come dite qui, mi sa.

-Tu dove vivi?

-A Torino.

-Sta al Nord?

-Sta al Nord.

-È lontano?

-Un po’.

-Come Londra?

-Meno.

-Come Roma?

-Di più.

-Ti piace Torino?

-No. È bella ma non mi piace.

-Ti piacciono i pelati?

-I pomodori o gli uomini senza capelli?

-I maschi.

-Sì. Mio marito non ha i capelli.

-Si vede che tieni il marito, pure mia mamma ha lo stesso anello tuo qui a questo dito. Dove sta tuo marito?

-A Torino.

-Ma poi viene? Sei triste che non c’è?

-Sì, poi viene. Un po’ sono triste, soprattutto la sera.

-A lui piace Torino?

-Molto.

-E perché?

-Perché è la sua città.

-E la tua città dove sta?

-Non sta, Sofia. Io non ce l’ho una città. Però ne tengo una che amo molto.

-Quale?

-La tua.

-Davvero?

-Sì. È la città di mio padre.

-Tu tieni un papà?

-No, Sofia, tengo il mio papà, mica un papà. Poi tutti tengono il papà, pure se non lo vedono, pure se non lo conoscono.

-È vivo?

-Sì.

-E’ vecchio?

-Non tanto.

-A lui piace Torino?

-Non lo so. Forse sì, penso di sì.

-Che tieni qui?

-Dove?

-Qui sul braccio, dietro, qui, hai un segno.

-Quel segno che dici, sembra una macchia di caffè?

-Sì.

-È il segno dove tengo il mio papà, come tu tieni il tuo nel colore degli occhi. Anche lui ha una macchia uguale ma sul polso. Così anche quando siamo lontani lui guarda il polso io guardo il braccio e ci vediamo.

-Vi vedete da lontano?

-Una specie.

-È più che ricordate allora.

-Forse sì.

-È più che si vede da fuori che lui è tuo papà e tu sei sua figlia perché avete lo stesso segno.

-Forse sì.

-E chi ve l’ha messo quel segno?

-Me lo stavo chiedendo quando sei arrivata. Ce l’hanno messo o l’abbiamo trovato?

-Secondo me lui te l’ha messo uguale al suo e tu lo hai trovato.

-E secondo te il sole si spegne nel mare?

-No. Il sole non si spegne, quello è solo un tramonto.

-Ti dico un segreto: oggi ne ho visti 43.

-Sono tanti.

Aveva segnato sul taccuino: 43 tramonti visti da fuori sono tanti.  

Un pensiero su “Vista da fuori

  1. Fa pensare, questa sostituzione dell’avere con il tenere.
    Anzi, cambia tutta la prospettiva semantica.
    Si tiene qualcosa che può sfuggire, o forse puoi perdere.
    Si tiene per averla vicino.
    Si tiene perché non sarebbe la stessa cosa senza.

    Tenere è qualcosa che decidi. Avere sembra di no, è come qualcosa che ti capita anche se non vuoi: avere caldo, avere un problema, avere le allucinazioni.
    Adesso che ci penso non c’è poi così tanto che vorrei avere, però invece molto che vorrei tenere (oppure anche lasciare).

    Sei sempre illuminante.

    Piace a 1 persona

Lascia un commento