Pronto, Casa V.

In casa V. da dieci giorni è arrivato un altro cagnetto, dicono sia color cioccolato ma è anche color castagna, è anche semplicemente marrone ma è pure color foglia secca del parco della Pellerina o color terra arata e rimestata. È color autunno e dell’autunno porta con sé la morbidezza anche se, forse, la morbidezza è in relazione alla giovane età. Non so. Lo amo molto, e amo molto anche l’autunno perché sa sedare qualcosa di me che va sedato. Nel mezzo dell’estate ho scoperto che vi è in me un invincibile autunno, insomma.  

Per la scelta del nuovo cagnetto ho adottato un criterio astrologico. È nato con il Sole nella Vergine. Sì, ho scelto e voluto un cane in base al suo segno zodiacale, se non lo avessi trovato avrei aspettato un altro anno e avrei girato intorno al sole per ancora un giro prima di trovarlo. Non vi chiedo di capire, prendetene solo atto.  Di tutti gli altri dettagli parlerò solo con l’astrologo. O con la Dottoressa Elle, la mia terapeuta.

Mi diceva, la Dottoressa Elle, che mi si è inceppato qualcosa ecco perché quei lievi sprazzi di dissociazione con cui convivo da un po’. Il mio pilota automatico viaggia a una velocità sostenuta e una parte di me non la sostiene, allora si ferma altrove e così ho parti sparse, non molte e non sempre ma qualcuna ogni tanto. Tra le parti sparse si crea un vuoto ma non è un vuoto che attira verso di sé come un buco nero, né che chiede di essere riempito, al contrario è un vuoto da cui esce qualcosa di talmente profondo che si pensava non esistesse più, è un vuoto con il doppiofondo, è un vuoto che diventa sottofondo. Mentre cerco di riunire le parti sparse cammino sospesa nel vuoto con la paura di quello che da lì potrebbe arrivare e, invece di ingoiarmi, avvolgermi. Tento di non disunirmi, insomma.

Si inceppano i meccanismi, ho pensato. Allora è così che funziono, ho chiesto. Pare che un po’ tutti funzioniamo così, con i meccanismi. È solo stanchezza, ho detto. “È solo stanchezza” is the new “va tutto bene”, in questi tempi senza tempo  durante i quali non va tutto bene eppure ci sono i motivi perché vada tutto bene. Questo è lo snodo, questo è il dolore. Sapere che c’è un nutrito numero di motivi per cui va tutto bene eppure non va tutto bene. Questo è il velo da squarciare, questo è il bluff da svelare: il dolore è anche delle persone che diciamo normali, delle persone che diciamo fortunate. Che si vergognano di quel dolore, non lo esibiscono, lo nascondono. In un doppio fondo dal quale però, a un certo punto, esce, insomma.

Ho iniziato a insegnare in una scuola privata. Diritto ed Economia Politica, a ragazzi di quarta e quinta liceo che tra pochi mesi avranno l’esame di maturità e saranno valutati anche sulla preparazione delle materie a me affidate. Ho un registro cartaceo, è blu. Un elenco di nomi che scorro per segnare gli assenti, ce ne sono sempre diversi. Ragazzi, maggiore continuità per favore, mi trovo a dire in piedi sulla pedana davanti alla lavagna con un moncone di gesso in mano, ragazzi adesso questa cosa è importante, seguitemi bene e se non è chiaro fermatemi che ripetiamo, ragazzi la Costituzione è come una serie Netflix, non dobbiamo correre, un articolo alla volta: ecco l’art.92 che ci dice come è composto il Governo  è il primo episodio della serie intitolata Governo e poi l’art.93 ci racconta come funziona il giuramento che vedete, va prestato prima di assumere le funzioni e poi ecco, il nuovo episodio dell’art. 94, quanto è importante ragazzi questa vicenda della fiducia, eh? La fiducia, voi lo sapete che alla base di tutte relazioni ci va la fiducia, quindi poteva mancare qui, tra il Governo e il Parlamento? La fiducia è quella cosa che tradisco se nella verifica di Economia copio la definizione di Reddito Nazionale potenziale da Wikipedia, per esempio, vero ragazzi? E la crisi di Governo, mi chiede dal secondo banco Matteo, come quello del Vangelo mi ha detto quando il primo giorno ho chiesto un giro di presentazione per ricordare i loro nomi con facilità. Matteo, tu vuoi saltare gli episodi e arrivare al finale di stagione? Non ci rovinare la suspense. Vi interessa questa roba, ragazzi? Francesca, Giulia, Andrea, vi interessa? Parte dal 10 nelle verifiche, Prof? Caso mai arrivo al 10, Matteo, come quello del Vangelo, perché partire si parte sempre da 0. A volte ci interessa, a volte no, sono cose difficili. Anche ricordare i vostri nomi, sembrava difficile, lo era, invece me li ricordo tutti. Come ha fatto, Prof? Mi interessavate, allora vi ho studiati e vi ho imparati, insomma.

In casa V., io e Lui ci inoltriamo le mail con le prenotazioni delle visite mediche delle ragazze o delle cene al ristorante, degli esami diagnostici, dei biglietti del teatro o del treno. È il nostro modo si salvare le informazioni, le affidiamo all’altro, lasciamo traccia e copia all’altro perché possa essere operativo anche se da solo, piccole consuetudini consolidate in anni di gestione degli imprevisti, mica per forza qualcosa di drammatico. Anche solo una dimenticanza. Alla Dottoressa Elle ho detto che la dimenticanza è drammatica, però. Io ho paura di dimenticare. Ho paura che la parte sparsa di me che si ferma e non sostiene la velocità del pilota automatico non sia solo sparsa ma anche spersa. Ho paura che si dimenticherà la strada del ritorno, il nome delle cose, le parole che mi salvano, i colori che mi sedano, l’amore per i cani, la convivenza con il lupo dietro lo sterno, l’art. 92 della Costituzione e la formula del deflatore del Pil. Ho paura che si dimenticherà di inviare una mail che poteva salvare qualcosa di fondamentale, ho paura che si dimentichi cosa è fondamentale o che non sappia riconoscere il verso di una canzone, distinguere le lettere stampate, impugnare una penna a ribadire una presenza, a dichiarare la vita  per come l’ho voluta e per come mi è capitata addosso dalla sera alla mattina certe volte, ecco perché ancora ci provo, per lasciare la traccia del mio passaggio, per essere salvata seppur condannata, perché l’alfabeto è quanto mi hanno dato al posto di un fucile, insomma.

È la mente che va lì, alle paure. Pare che un po’ tutti funzioniamo così. Mi rassicura, la vecchia storia del mal comune e del mezzo gaudio. Forse. Non è vero, non mi rassicura, mi fa sentire meno strana, meno lontana, meno qualcosa perché in fondo sentirmi meno è ciò a cui sono abituata, è a sentirmi più che fatico. La mia mente mi parla attraverso la fatica, non so se un po’ tutti funzioniamo così, a guardare in giro direi di no, direi il contrario. “Voglia di faticare saltami addosso”, direbbero i miei genitori. Oppure “voglia di lavorare corrimi dietro che io corro più veloce” e anche “chi è buono per la Regina deve essere buono anche per il Re”, questa non la capivo proprio bene, perché i termini erano inadeguati a me, voleva dire, mio padre, che se sei in grado di sollazzarti con la regina allora sei anche in grado di prestare servizio per il re, una variante pseudoerotica del “prima il dovere e poi il piacere”, ma io ci sbattevo contro, a me della regina importava poco, al massimo mi sarei sollazzata con il re e quindi in quanto cortigiana cosa dovevo fare dopo con la regina? Giocarci a carte la domenica pomeriggio? Ma rispondendo così provocavo, dicevano. I miei genitori avevano ben chiaro che senza lavoro, labor,  non si ottiene alcunché. Eppure io me li ricordo capaci di fermarsi, capaci di riposare, capaci di trascorrere la domenica pomeriggio giocando a coppie a carte al tavolo della cucina di mia zia, fumando fino a saturare la casa dove noi cugini giocavamo, e me li ricordo capaci di riposare dopo pranzo e di pretendere il silenzio a custodia del loro sonno. Me li ricordo in movimento e me li ricordo fermi, me li ricordo al lavoro e me li ricordo in ferie, me li ricordo. E ricordo la bambina che li osservava e li imparava e l’adolescente che li soppesava con occhio critico, che sapeva già cosa avrebbe scartato e cosa avrebbe tenuto. Deve essersi inceppato qualcosa anche lì, forse è andato in parte perduto il carico di cosa preservare, mi basterebbe sapere che è finito in qualche doppiofondo ma temo che non sia così. Ecco perché, ad oggi, è principalmente quell’adolescente che parla con la Dottoressa Elle.

“Non sei buona nemmeno per il sugo”, mi ha detto un ragazzo con i boccoli nel 1995.  La mia colpa era stata frequentarlo un po’ prima di capire che non mi piaceva, non davvero, non quanto un altro che, a dire il vero, mi piaceva da prima e non ne avevo fatto mistero quando lo avevo lasciato se lasciare si può dire di qualcuno con cui nulla era davvero iniziato. Erano amici. L’altro è stato il grande amore, primo di altri amori, arrivati spesso a consolarmi, ogni tanto a far sparire il confronto, fino all’amore grande, quello che poggia il palmo della mano contro la mia al risveglio, che sembra una carezza e invece è riparo, quello fanno le palme. L’amore grande, quello che si addormenta con la piante dei piedi sulla mia pianta dei piedi, che sembra un gioco e invece sono  radici che si scambiano nutrimento, quello fanno le piante. L’amore grande, quello che ha cura di ciò che non gli piace di me perché è il modo di curare quel che non gli piace di sé, quello che sa che amo l’autunno, che il respiro dei cani mi placa, che la memoria è, per me, fondamentale, che l’irredimibile  stanchezza è invece inguaribile solitudine di qualche parte sparsa da attendere, se proprio non si riesce a recuperare.

Quel ragazzo con i boccoli, oggi, è un cinquantenne obeso e calvo, con la pappagorgia e una triste carriera comica televisiva corredata da qualche fidanzata maggiorata e con evidenti deficit del QI. Mi aveva spinta, solo con due dita, l’indice e il medio poggiati appena sotto la mia spalla, nell’inserzione della clavicola, non ero caduta ma il gesto mi aveva delusa. Solo negli anni successivi quel sentimento si è mutato in disgusto o forse ne aveva già i connotati ma mancava l’esplicitazione. Avevo scambiato per delusione qualcosa che mi disgustava, in fondo. Perché nella delusione potevo trovare spazio anch’io, potevo essere protagonista, potevo intestarmi la fine dell’illusione, la fine del gioco, quel che per molto tempo a seguire ho inserito nella cesta del “ci avevo creduto io”. Non è tra le cose peggiori che un uomo mi abbia detto o fatto negli anni, ma è stata la prima. È stata la prima mancanza di rispetto per il solo fatto di volere altro, un altro o altro non importa. È stata la prima, non l’ultima. L’amarezza adulta è dover constatare di essere stata fortunata, di aver capito che il modo di chiamarmi fuori era il disgusto perché il disgusto, al contrario della delusione, non originava da me, non ne ero parte, ne ero solo destinataria. Il disgusto non era colpa mia, insomma.

In casa V. è arrivata una nuova poltrona, siamo andati a prenderla io e Lui un sabato mattina di gita con il furgone, abbiamo spento la radio e messo il navigatore, io non ho guardato bene e abbiamo sbagliato strada e Lui non si è arrabbiato anche se gli ho fatto allungare il giro di un bel po’, se l’è presa con chi ha studiato la viabilità della cittadina dove siamo finiti. Eravamo impegnati a parlare e mi sono distratta, è andata così. Lui diceva e io dicevo, io aspettavo  e annuivo poi lui aspettava e annuiva, un po’ di ascolto e un po’ di parola, dopo tanti anni parlare è come cucinare tutta questione di dosi e ingredienti. Non avevamo ancora chiaro dove metterla, io e Lui facciamo spesso così: iniziamo, poi un modo lo troveremo. È finita nello studio, dove preparo le lezioni per i ragazzi, dove cerco un modo di rendere facile qualcosa che non lo è, interessante qualcosa che non lo sembrerebbe, dove correggo le verifiche con la penna verde senza mettere 0 e senza mettere 10 perché niente è 0 e niente è 10, non so se questo si può insegnare ma penso si possa imparare. L’abilità è stare lì in mezzo, tra lo 0 e il 10, aspettando quel che lasciamo indietro, rincorrendo quel che lanciamo avanti, scoprendo quel che di invincibile esiste in noi. Tutto il resto è noia, insomma.