Ho sognato un’onda. Gigante. Anomala, direi. Anzi, più di una. Una serie di onde o almeno tre o quattro, ne ricordo con esattezza tre. Il mare era calmissimo, ero in piedi in acqua, accanto a Pepe e arrivava questa onda che ci sovrasta ma non ci sposta, ci ricopre senza travolgerci, lasciandoci sbigottite e immobili come alcune notizie che non capisci subito, di quelle che devi chiedere “in che senso? “anche quando il senso è chiarissimo.
Io, per esempio, chiedo sempre in che senso quando mi dicono che qualcuno è morto. Come se ci potessero essere altri sensi. Cioè, per me ce ne sono altri, sarà che penso di essere morta e rinata almeno tre o quattro volte, sì, direi tre, ne ricordo con esattezza tre di mie morti e quindi io chiedo per capire se il senso è fisico o no e solo che tutti quando parlano di morte parlano del fisico e allora, ecco, la mia domanda mi palesa scema di fronte a quella che per tutti è un’evidenza.
Mia nonna non mi manca mai, quella paterna, quella con il nome: nonna Maria. Tranne che per questa vicenda dell’interpretazione dei sogni, che era la suo specialità e mi devo arrangiare con Freud.
I nonni sono di due tipi. Ci sono i Nonni. E ci sono i nonni con il nome.
Io, per esempio, avevo Nonno e nonno Stefano, avevo Nonna e nonna Maria. Quando con mio fratello parliamo di Nonno non ci sono dubbi. Ci sono i nonni che non hanno bisogno del nome e ci sono i nonni che ne hanno bisogno per essere individuati. È inutile che i nonni si offendano, anzi, si premurino di comportarsi in modo da non aver bisogno del nome. Perché è evidente che il parente ontologicamente superiore è quello che non ne necessita.
Il mare, del sogno, era quello dove sono stata la scorsa estate. Con Pepe. Cri non è venuta, si è tenuta i suoi 18 anni in città, ha studiato per recuperare qualche argomento in vista dell’ultimo anno di liceo dopo l’esperienza dell’anno all’estero. Io e Pepe siamo state bene. Siamo io e te, mi fermavo a pensare ogni tanto durante le nostre lunghissime passeggiate in riva al mare, due al giorno per mantenere il metabolismo attivo. Siamo io e te era la frase che le sussurravo di notte nei primi mesi della sua vita, quando piangeva e basta. Siamo io e te e le percorrevo la forma del lobo delle orecchie con la punta dell’indice, piccole orecchie in miniatura, dotate di lobi teneri e proporzionati, piccole orecchie come carta di riso in cui suggerire, chiedere, affermare. Staremo bene, le promettevo.
Io, per esempio, al mare ci vivrei anche se con le mie orecchie è impossibile entrare in acqua. Infatti, nel sogno ero stupita che tutta questa mole d’acqua non mi travolgesse e non mi entrasse nelle orecchie, avevo paura che accadesse ma sapevo che non sarebbe accaduto, mi premuravo di togliere gli occhiali da sole e di tenerli in mano (quanta razionalità, eh Freud?! ), sentivo l’onda passarci sopra e la sentivo schiantarsi a riva. Non avevo paura nemmeno per Pepe, stai vicino a me, le dicevo. Così non ci succede nulla, lo sanno tutti che se stai vicino alla mamma non ti succede nulla.
E nemmeno le mamme hanno bisogno del nome. Mamma è mamma, una sola. Non ci sono mamme di due tipi. E nemmeno papà. Ci sono tanti tipi di persone ma è un’altra vicenda. Che poi, non sono sicura ce ne siano così tanti tipi, direi tre o quattro, in quarantasette anni con esattezza ne ho contati tre tipi.
Io, per esempio, ho fatto questa cosa di compiere gli anni ancora, pure questo 17 settembre ed è una cosa buona che ho fatto perché l’alternativa sarebbe stata peggio. Non mi ricordo cosa ho fatto quel giorno ma penso sia stato un buon giorno, ho lavorato perché mia madre mi ha chiesto cosa avrei fatto e io le ho risposto che avrei lavorato esattamente come per i ventidue anni successivi, se ci saranno ho precisato, perché la mia pensione non è vicina e quindi goditi la tua, le ho detto. Quindi sì, ho lavorato. Poi ho portato Pepe ad allenarsi e Cri deve essere andata a scuola guida e poi la sera ho soffiato le candeline che eravamo solo noi quattro. Siamo noi quattro, ho detto a Lui. Poi le ragazze sono andate in camera e allora siamo rimasti io e Lui e allora ho pensato siamo noi due.
Che dire “noi due” e “”io e te è diverso”, siamo d’accordo tutti, no? Io e te c’è lo spazio per la separazione necessaria, quella che restituisce all’individuo la sua unicità, quella che fa andare ciascuno per la sua strada e poi a tratti ti consente un riavvicinamento e allora si è ancora “io e te” ma per poco o comunque non per sempre. Siamo io e te è roba di madri e figli. Se vuoi figli sani di mente.
Noi due come lo separi? Non c’è nemmeno la congiunzione, è un blocco unico, è l’atomo da cui origina la materia.
Io, per esempio, noi due lo dico solo con Lui. E non dico mai siamo solo noi due, perché mica ne servono altri per fare noi due. Abbiamo questo problema, io e Lui. È successa una fusione. Che non lo puoi raccontare o spiegare, che non è nulla che toglie ma anzi aggiunge. E anche quando ho pensato di pensare ad altro poi non è mai successo davvero. Come se lo avessi solo sognato. E gli ho raccontato il sogno.
Ad agosto il mio romanzo ha vinto un premio. Io e Cri siamo andate in Abruzzo per ritirarlo. Alla stazione c’era un autista ad aspettarci, ha preso i nostri bagagli, ci ha fatto accomodare su un’auto con i vetri oscurati, mi ha chiamata dottoressa per un’ora, dopo tre o quattro volte mi sono abituata, ma ricordo con esattezza almeno tre volte in cui ho pensato ma questo sta parlando con me e Cri mi ha fatto un cenno di riconoscimento con lo sguardo, sì, mamma, sta parlando con te, no, mamma non ha sbagliato a chiamarti dottoressa. Sarebbe piaciuto tantissimo a Nonno, che se l’è perso. E anche nonno Stefano ne andava orgoglioso, lui c’era. Invece io l’ho dimenticato, messo lì come qualcosa che non indosso più.
Io, per esempio, ho indossato qualcosa di informale per la premiazione perché non volevo far vedere quanto fossi inesperta di queste vicende e allora andare lì tutta in tiro no, mi avrebbero beccata subito che faccio altro nella vita e che scrivo per restare viva, mi avrebbero beccata subito che scrivo non per lavoro ma per necessità. Che è diverso, siamo tutti d’accordo, no?
Scriveremo la sceneggiatura per farne un film. Non so se succederà, il film intendo, lo scopriremo solo dopo la sceneggiatura. Mia Nonna mi manca moltissimo. Non ci pensare, se deve capitare capiterà. Avrebbe riso dicendo così, facendo un movimento con la mano, un movimento inconferente e proprio per quello lo avrei notato. Ma ho paura di non saperlo fare, avrei piagnucolato io. Ma sicuro che lo sai fare e poi se non lo sai fare lo impari, che ci vuole? E ancora avrebbe riso.
Io, per esempio, rido molto ma non così. E gesticolo molto ma non così. E penso che se deve accadere accadrà ma non lo penso così come pensi qualcosa che senti io lo penso come qualcosa che sai. E so sempre quello che ci vuole o anche solo quanto ce ne vuole. E ho paure, non tante ma almeno tre o quattro, ne conto con esattezza tre di paure. Le sento arrivare, a turno, si aggrappano a quello che trovano, mi rappresentano scenari che a volte accadono, a volte no, mi trovano sempre, non mi sottraggo mai. Si schiantano su qualche riva e a quel punto mi rimetto gli occhiali. Per scrivere.
