Adulterare

Era domenica, la seconda di ottobre. Il giorno del compleanno di nonna Maria, avrebbe compiuto 92 anni. “Potrebbe ancora essere viva”  è la frase che aggiungiamo subito dopo, quando ci rendiamo conto che uno dei nostri morti sarebbe ancora compatibile con la vita.

Invece è morta, un anno prima che nascessi tu. Si sarebbe emozionata molto se ti avesse conosciuta, ma sarebbe diventato un evento riferito a lei, come tutto o molto di quello cui ha assistito in vita. Era un’incontinente emotiva, strabordava, grondava, colava la sua fragile emotività troppo spesso scambiata per buoni sentimenti. Non che non avesse, anche, buoni sentimenti, ma tutto quell’esagerare era solo autoriferimento. Le saresti stata strumentale a qualche manifestazione eccessiva e io mi sarei incazzata, come ogni volta che sei stata strumentale a qualcuno.

Ero a piedi, tornavo dal primo incontro del corso di biblioterapia che ha organizzato la libreria della cittadina dove abitiamo. Non è la mia libreria del cuore, lo sai. Ma ero troppo interessata al corso per farne questione di cuore. E poi, non faccio più troppe questioni di cuore in generale. Sarà l’età.

Sai quando arrivi al fondo di quel parco, che se sei in auto devi per forza svoltare a destra e scendere giù ma se sei a piedi puoi proseguire dritto? Lì, dove la strada curva e c’è una casetta di mattoni rossi tipo quella del porcellino previdente che ha le grate alle finestre e le finestre ad altezza strada, che se qualcuno sbaglia la curva con l’auto finisce dritto in salotto? Ecco, ero lì quando ho visto un gatto, di quelli grigi tigrati, comuni, “razza cassonetto” diceva qualcuno  non ricordo chi, dovrei chiedere a mia madre perché lei lo ripeteva di tanto in tanto, comunque un gatto comune indistinguibile da altri gatti grigi tigrati che rincorreva uno scoiattolo. In mezzo alla strada, quella che curva, che se sei in auto devi svoltare per forza e andare giù.

Io gli scoiattoli ho iniziato a vederli da adulta. Prima non me li ricordo, dal vivo. Nei cartoni animati, nei libri, nei fumetti ma dal vivo no. Adesso ce ne sono tantissimi, lungo il viale che porta a casa nostra attraversano la strada velocissimi, i nostri cani non hanno ancora capito di cosa si tratti, se di un topo o di un uccello. Non li amo, gli scoiattoli. Mi sembrano prepotenti, non chiedermi perché, non lo so. Forse temo che facciano male ai cagnetti, forse questa cosa che salgono e scendono dagli alberi così rapidamente, soprattutto la discesa. Non amo niente che possa atterrarmi addosso, sulla testa o comunque vicino mentre camminino. No, decisamente non li amo.

“Ma tu ami solo i cani”. Mi sembra di sentirti, me lo dici senza alzare lo sguardo da quello che stai facendo, tu stai sempre facendo qualcosa anche quando sembra che non sia così. Sì, ammetto, alzando lo sguardo da quello che sto facendo, io sto sempre facendo qualcosa anche quando sembra che non sia così. La tua constatazione si poggia qui, da qualche parte tra le cose vere che mi hai detto e che custodisco tutte. Non è un giudizio, non sei prodiga di giudizi. Solo quando detesti qualcuno. È raro, ma succede, hai quelle forti e viscerali idiosincrasie nei confronti di alcune persone o di alcune idee e allora non risparmi i giudizi più severi assumendo una postura rigida, irremovibile. Saranno le arti marziali. Non so.

Mi sono fermata, volevo vedere cosa sarebbe successo. L’antipatia per il gatto batte quella per lo scoiattolo e mi sono ritrovata a tifare per lo scoiattolo. È, lo so, pietoso tifare per qualcuno durante una lotta. Ma sono animali, rispondono a logiche diverse dalle nostre. Perché loro rispondono a logiche e molti di noi non sempre, aggiungerei. Alzeresti lo sguardo da quello che stai facendo per spiegarmi come funziona il cervello davanti a un pericolo. Cosa succede all’amigdala.  Ti brillerebbe lo sguardo e muoveresti le dita in aria per mimare le connessioni neurologiche.

Lo scoiattolo girava su se stesso, creando confusione con la coda, diventando sai quella merendina, non so se la conosci, la Girella, non vai forte con le merendine perché non ne avete mai mangiate, non so se la conosci, è un bolo di pan di spagna tutto arrotolato su se stesso. Come lo scoiattolo in fuga dal gatto. Il gatto comune miagolava molesto e allungava gli artigli girando intorno allo scoiattolo che emetteva un verso strano, inaudito, una specie di lamento ma senza lagna, un lamento quasi sfogo, sai quando tutto non va ma cerchi di tenere testa alla mole di merda che ti cade addosso. Lo scoiattolo ruotava su se stesso e il gatto ruotava intorno allo scoiattolo cercando di arpionarlo, una danza tribale, un satellite che perde il giro di tanto in tanto.

Mi sono identificata nello scoiattolo. Va detto. Tra i due ero lo scoiattolo. Quella cosa di accartocciarmi su me stessa, di lamentarmi sì ma aggressiva e mai, quasi, remissiva,  quella cosa di vedersi piombare addosso qualcuno e volteggiando cercare la salvezza. Lo scoiattolo ha fatto un salto fin sul muretto della casa del porcellino previdente, si è infilato tra le inferriate del cancello e si è inerpicato lungo il tronco del primo albero a disposizione. Il gatto non si è arreso, ha continuato l’inseguimento, si è scontrato con l’albero, ha tentato la salita ma non gli è andata benissimo.

Poi ho ripreso a camminare. Non volevo vedere l’epilogo. Perché temevo che il gatto comune riuscisse ad arrampicarsi e non volevo assistere alla fine dello scoiattolo. Spero gli sia andata bene, che si sia  preso solo uno spavento e che il gatto sia rimasto a fissare il nulla, come un coglione comune.

Non te l’ho raccontato, nemmeno a tua sorella, nemmeno a papà. Non mi sembrava una cosa da raccontare, una volta tornata a casa, alla domanda com’è andato il corso rispondervi con la storiella dello scoiattolo Girella e del gatto Comune che lottano, però ho continuato a pensarci. Perché penso che anche tu sei come lo scoiattolo. Sai.

Mi sono fermata. Voglio vedere cosa sta succedendo. Mi sono fermata da quando sei tornata dal tuo anno in Canada e hai compiuto 18 anni e hai iniziato così tante nuovi progetti e nuove avventure e ancora basta un gatto del cazzo a trovarti accartocciata su te stessa.

Mi sono fermata, non so dove stavo andando, io sto sempre andando da qualche parte che ha a che fare con te o con tua sorella, raramente con me, mi sono fermata, non so da dove arrivavo, io arrivo da molto molto lontano, nel tempo soprattutto eppure arrivo da vicino, dalla lunghezza del tuo braccio se lo giri per cercarmi, dalla tua data di nascita più nove mesi per aspettarti, dall’anno prima di te quando chi aspettavo se n’è andato perché non era compatibile con la vita quindi non avrebbe 19 anni oggi.

Mi sono fermata, in auto. Ti aspetto, ancora. Sono i momenti in cui parliamo di più, senza mai guardarci negli occhi, degli argomenti più diversi: la spiegazione biologica delle emozioni, la pedagogia nera, l’ultima canzone di Fabri Fibra e il Malessere con cui si scrive la tua amica. Sono i momenti in cui stiamo in silenzio nel modo più anecoico a cui puoi pensare, pessimo umore, pessime giornate, pessime sensazioni, pessime idee. Il nostro pessimismo (o il nostro peggio, è meglio?) ce lo scarichiamo da dosso così. È raro che ce lo scarichiamo addosso. Grazie, per questo. Rimuginiamo. Stiamo attente a non dire. Chi parla per prima perde. La pazienza. Le staffe. Il senso della misura e la misura invece salva, quando sembra che niente possa farlo è la misura che salva.

Non so cosa sta succedendo, se non che tu cresci e vivi e io cresco e vivo. Il pezzo che stai crescendo tu io l’ho già cresciuto, ho un vantaggio. Il pezzo che sto crescendo io è la prima volta che lo vedo accadere su di me, ho uno svantaggio. Vorrei chiedere come si fa a non sentire male, ancora, ma non saprei a chi. Vorrei dirti che ce la si fa anche se fa male ma non so se vuoi sentirtelo dire da me. Il pezzo che stai crescendo tu non l’ho mai visto accadere su di te, ho uno svantaggio. Il pezzo che sto crescendo io è innestato su quello che ho già cresciuto, ho un vantaggio.

Non so cosa sta succedendo, se non che tu devi andare via perché è giusto e io devo restare perché è giusto.  Tu devi restare perché è giusto e io devo andare via perché è giusto. È un andirivieni la vita, questo è, io resto e vado, tu vai e resti. E ci incontriamo quando torniamo, ci sfioriamo un attimo, sei così bella con gli occhi di tuo padre e il mio sguardo con quel modo tutto tuo di guardare il mondo. E ci incontriamo quando torniamo, ci diamo un bacio veloce, sei così grande con le gambe lunghe e le spalle larghe e quella postura tutta tua nel mondo. E ci incontriamo quando torniamo, ci scambiamo comunicazioni pratiche, sei così bella con la testa nei libri e quel modo tutto tuo di stare tra le nuvole.

Tu devi andare via da me e con me devi restare.

Io devo andare via da me e con me devo restare.

Non so cosa sta succedendo, se non che sono madre di un’adulta adesso. E così sarà fino alla fine. Sarebbe bello che gli adulti fossero un’invenzione. Dovremmo alzarci un giorno e dirci che no, gli adulti non esistono, sono bambini adulterati ma poi l’effetto svanisce e se invece esistono allora non siamo noi, noi siamo solo mamma e Cri, noi siamo solo quello che già eravamo quando io restavo distesa per non farti scivolare via con il sangue della placenta ferita, per dimostrarti che eri compatibile con la vita, con la tua vita e con la mia vita e tu ti comportavi bene e restavi aggrappata, magari accartocciata su te stessa ma aggrappata a me, da dentro. È lì che devi restare.   

Invece, siamo due adulte che camminano nel mondo con un andirivieni poco ritmico.

Non ricordo chi, perdonami, diceva che i posti si conoscono per davvero solo percorrendoli a piedi. La geografia si impara camminando. Anche le persone sono luoghi, sai. Anche le persone si imparano camminando. Accanto a loro, il più delle volte. Dentro di loro, nei casi più importanti. Entri camminando nella vita delle persone e così ne esci. E anche nella tua vita cammini a piedi, sperando nel senso dell’orientamento.

“L. dice che secondo lei io sono la tua preferita”. Così mi hai detto, in auto l’altro giorno.

L. ci ha osservate, quindi. Si è accomodata, ci ha osservate e non ha capito un cazzo. Ti ho risposto, in auto l’altro giorno.

Non sei la mia preferita. Ci sono cose che amo fare o discutere con te, ci sono cose che amo fare o discutere con tua sorella.  Ci sono cose che dovete sparire entrambe. Però. La mia terapeuta riderebbe, perché ho sempre questo modo di dire qualcosa e poi aggiungere il però. L’argomento non è mai chiuso, che sia un sì o un no, c’è sempre lo spazio del però.

Però. Non c’è altro essere umano che io protegga quanto proteggo te. Solo con te mi si attiva la modalità protezione in modo così viscerale e violento. Sia chiaro, per tua sorella passerei sopra chiunque ma so che lei ci sarebbe già passata. Con te mi succede qualcosa di ancestrale e inspiegabile, ti proteggo come se stessi proteggendo me o tutti i bambini del mondo. È da qui che devi andare via.

Era venerdì’, scorso. Sono uscita dalla palestra, dovevo andare al bancomat prima di tornare a lavoro. Sapevo che ce ne era uno a poca distanza, sul corso, accanto alla scuola guida. Ci sono andata a piedi. La palestra è nel quartiere dove vivevo durante l’adolescenza. Non è la mia palestra del cuore, lo sai. Ma ho troppo bisogno di non perdere massa magra per farne una questione di cuore. E poi, non faccio più troppe questioni di cuore in generale. Sarà l’età.

Ho percorso la strada che facevo ogni mattina per andare a prendere il pullman, camminavo accanto alle villette in paramano protette da siepi di alloro, quelle che hanno un appartamento a  piano terra con il giardino e poi un appartamento con mansarda al primo piano. Mi fanno schifo. È una voglia di villetta in paramano. Non starei mai sotto perché l’idea di quelli sopra che scuotono la tovaglia o stendono sul mio giardino mi farebbe impazzire. Non starei sopra perché l’idea di quelli sotto che sgrigliano sulla brace carcasse di animali morti la domenica a pranzo mi farebbe impazzire. Io abitavo in uno dei palazzi alle spalle delle villette. Tanti appartamenti uguali, dal primo al sesto piano, poche polemiche e tanti rumori condominiali. Non sono stata felice, lì. Uscivo il mattino per andare a scuola e rientravo dopo la scuola per studiare tutto il pomeriggio o fare quello che c’era da fare in casa, di mala voglia e senza interesse. Come avrebbe potuto interessarmi pulire i fagiolini o lavare il bagno? Non ero felice, no, l’ho ricordato chiaramente guardando la finestra del quarto piano di quella che era la stanza che condividevo con tuo zio. Non ero felice e pensavo che non lo sarei stata mai.

Ho percorso tutto il marciapiede e ho svoltato sul corso, non nella direzione della fermata del pullmann ma nella direzione della Banca, accanto alla scuola guida. È lì che facevo teoria, come te adesso, anche tu vai vicino a casa così ci vai a piedi. Tuo padre per un attimo ha suggerito l’autoscuola dove aveva preso lui la patente ma si è reso conto subito di aver detto una cazzata. Figuriamoci se la mando lì, gli ho detto in modalità protezione attivata subito. Avevo urgenza della patente, mi sembrava il solo modo di andare via, anche se poi dovevo tornare. Ho prelevato e mi sono incamminata verso la macchina, facendo la strada al contrario. Arrivata davanti ai giardini dove avevo parcheggiato mi sono fermata.

Mi sono fermata, un cane mi è saltato addosso, “mi scusi” mi ha detto la padrona, “non lo fa con nessuno”. Con me lo fanno tutti, invece, le ho risposto con il sorriso. Ho guardato la finestra su al quarto piano, quella della sala, le serrande erano abbassate, quella ragazza è andata via, ha percorso a piedi la strada perché è solo così che i posti si conoscono e si dimenticano, non abita più lì, è andata via. Poi ho iniziato a piangere di felicità e forse era la prima volta in vita mia. Non la felicità che arriva da fuori, da qualcosa o qualcuno, ma la felicità che crei da solo e vorrei chiederti, tu che queste cose le sai tutte, se questa felicità che crei tu la crei con il cervello o con cuore. Perché sarebbe bello farne una questione di cuore. Soprattutto a questa età.