Animali forastici e dove trovarli

Sono stanca, Lupo. Stanca, stanchissima. È stanca Mamma Orsa, vorrebbe andare in letargo. Ti ricordi quando le Cucciole Orse mi hanno ribattezzata così? Quanto tempo è passato? Quasi sei anni da quando la Cucciola grande è stata usata per colpire suo padre e me, mio dio. Mayday, mayday, Lupo. Sono stanca e so che lo sai, ti sento anche senza parole, ti sento soprattutto quando non si sentono le parole, so che lo sai, ti sento agitato dentro la mia cassa toracica, smuovi tutto, scavi e tiri fuori, stai di guardia  ai miei pensieri, osservi quelli che escono e aspetti quelli che entrano, hai il tuo carico di lavoro, lo sento.  È stanca Mamma Orsa di tutti gli impegni delle Cucciole Orse che le cascano sulle spalle e l’abbassano ogni giorno un po’, ecco perché le Cucciole sembrano ogni giorno più alte, mica lo saranno diventate per davvero, che dici? Soprattutto la Cucciola piccola, mica può essersi alzata di tutta una testa nello spazio di una stagione? Non è possibile, Lupo, è Mamma Orsa che si abbassa sotto il peso dei giorni, vero che è così? Ti sento, Lupo, ti sento anche senza parole, ti sento con il fiuto, soprattutto di notte quando sto di guardia  al giorno che finisce e aspetto  quello che inizia, che stanchezza, mio dio. Mayday, mayday, Lupo.

Sono cresciute le Cucciole, sì, me l’hanno fatta così sotto gli occhi e oltre gli occhi, me l’hanno fatto in fretta, in quest’anno maledetto durante il quale ti ho fatto lavorare tanto, tantissimo, chissà se sei stanco anche tu, Lupo. Ti sento  affaticato, ti sento anche se non ti lamenti, ti sento senza le orecchie, lo sai che valgono poco ormai, è tutto un bruciare e prudere e scrosciare di acqua lì dentro le mie orecchie, non posso più farci affidamento, guardo le labbra delle persone mentre mi parlano e vivo nel mondo delle ipotesi, con te non ne ho bisogno, ti sento senza le orecchie. Mamma Orsa ti sente stanco, Lupo, e teme sia colpa sua. Mamma Orsa teme sempre che sia colpa sua anche quando non è detto che sia colpa sua, soprattutto quando è stanca, stanchissima, mio dio. Mayday, mayday, Lupo.

Mamma Orsa e Cucciola grande sono state a Roma per due giorni, quarantotto ore filate via sotto una pioggia sconsiderata, in mezzo a lampi e tuoni scagliati da Giove pluvio in gran forma, quarantotto ore passate in fretta, fatte di amiche ritrovate per la Cucciola e di passeggiate mischiata tra le persone per Mamma Orsa, con il cappello a ripararla e una mappa spiegazzata in tasca, con tanti pensieri, tanti davvero, da rimettere in ordine, con qualche affanno dal quale separarsi per poco, solo quarantotto ore, ma vere, con un paio di desideri da gettare agli dei per il tramite di una monetina, Mamma Orsa e il Lupo dietro lo sterno, a passeggio sotto il diluvio come se non fosse vero.

Dopo aver lasciato Cucciola grande alla fermata della metro  Ottaviano con raccomandazioni infilate a caso nelle tasche come spicci lasciati all’ultimo momento sono tornata in San Pietro perché avevo cose serie da sbrigare: mi serviva Santa Lucia. Una medaglietta di Santa Lucia, di quelle che si tengono nel portafogli o in qualche tasca. Mia nonna aveva la medaglietta della Madonna di Loreto, a cui era devota, pinzata nella sottoveste, ogni tanto scostava l’abito o la camicia e me la mostrava baciandola. La Madonna di Loreto non ha le braccia quindi io l’ho sempre patita molto perché sulle menomazioni non vado forte, anche la devozione di mia nonna non me la sono mai spiegata fino in fondo, aveva una sua versione dell’agiografia, diciamo che tendeva alla semplificazione. “Nonna che cosa fa Santa Chiara” “eh, Santa Chiara è importante.” “perché? che ha fatto?” “eh, Santa Chiara se la faceva con San Francesco, per quello è importante”. Ah. “Nonna, ma Santa Sonia esiste?” “No, tu non la tieni la Santa.” “E perché non esiste?” “eh, perché non hai un nome cristiano?” “In che senso non è un nome cristiano, scusa, mi hanno pure battezzata?” “eh, vabbuò, ti hanno battezzata ma quello perché il prete era amico di papà tuo, tua mamma ti ha dato un nome senza Santa”. Questa  nonna era, va da sé, quella paterna.

Mi serviva Santa Lucia, una medaglietta di Santa Lucia made in China direttamente da San Pietro.  Ho iniziato a frugare tra le medagliette infilate in diverse scatoline dentro un negozio grande che prometteva il fatto suo sull’argomento. Niente. Mi sono arresa, dopo sei o sette sante mi sembravano tutte la Madonna con un altro nome scritto sotto, persino Papa Francesco mi sembrava la Madonna con un altro nome scritto sotto (Papa Ratzinger no, sembrava proprio lui)è quello che chiamo l’effetto Trip Advisor per cui al quarto ristorante di cui leggo le recensioni vado in confusione e mi sembrano tutti uguali. Allora ho chiesto aiuto alla commessa. Non ho posto una domanda difficile “buongiorno, mi scusi, vorrei una medaglietta di Santa Lucia, se possibile” “Santa Lucia?” chiede come colta alla sprovvista la giovane ragazza ad occhio mia coetanea. “Sì” annuisco, confermo, sorrido persino. “Forse è meglio che chieda alla mia collega, per questo.” Sono rimasta ferma al forse per un attimo, come quando sai di aver capito bene ma non ti torna nel senso della frase. Forse. Non era sicura nemmeno lei che la sua collega potesse aiutarmi, per questo. Per questo indica la difficoltà del quesito, la specificità della richiesta che necessita di un intervento specializzato. Forse. Mi sono rivolta alla collega, sempre con il sorriso, finto, sulle labbra. Ho riformulato la richiesta. La collega, e forse madre della giovane e inesperta venditrice data la vaga somiglianza che ho colto nel lampo di stupore intravisto nello sguardo altrimenti spento, ha ripetuto la mia richiesta a voce alta. Sì. Ho riconfermato. Santa Lucia. Sono sicura. “allora, qui se vuole c’è Santa Marta.” “No, grazie, non voglio Santa Marta, voglio Santa Lucia, non so nemmeno che fa Santa Marta.” “eh beh, pure Santa Marta fà, per fare, pure Santa Marta fà.” Ho avuto un attimo di esitazione, volevo chiederle se avesse parenti a Napoli, se qualcuno della sua famiglia per caso arrivava dalla zona di Piazza Carlo III, se di cognome faceva come mia nonna. Mi sono trattenuta e ho continuato a sorridere. Per finta. “Allora qui, se vuole c’è San Francesco” “No, grazie, sto cercando Santa Lucia. Mi serve proprio lei” “ah, è per gli occhi, allora? Vuole proprio apposta per gli occhi? “Sì.” “è per lei?”. Ma che te ne fotte a te?! “No, devo regalarla” “ah, ho capito, allora San Francesco lo mettiamo via, pure San Giuseppe lo mettiamo via?” “sì, lo metta via, grazie.” “eccola qui, lo sapevo, visto? Ecco Santa Lucia, guardi un po’, ce ne sono due addirittura” “oh, grazie! Che differenza c’è tra le due?” “nessuna, la Santa è quella” “Sì, però in questa c’è scritto Santa Lucia ovunque proteggimi e in questa Santa Lucia prega per me, quindi la differenza c’è.” “e qual è?” “eh, mica e lo stesso pregare e proteggere, prendo questa che protegge, grazie.” “sì, ma anche la preghiera fà, per fare, pure la preghiera fà”. “Sì, per carità. Ma la preghiera è più in difesa capito, è più come dire difendimi se mi attaccano, io qui voglio la protezione anche se non mi attaccano, come con i figli, no? un conto è difenderli e un conto è proteggerli” “come dice lei, signora, la Madonna che scioglie i nodi la metto via o la prende?” “La prendo, che pure sciogliere i nodi non è da tutti.” Che fatica, Lupo, mio dio. Mayday, mayday, Lupo.

C’era una zia di mia madre, anzi la zia di mia madre perché gli altri erano tutti zii, che iniziava ogni discorso in due modi: “se fossi Dio” oppure “se fossi al governo”, a seconda che la vicenda da gestire riguardasse il potere spirituale o quello temporale. Aveva una soluzione morale e politica a tutto, pur essendo dichiaratamente atea e monarchica nonostante il crocefisso inamovibile in casa e la visione femminista e progressista di se stessa. A volte mi chiedo come si possa arrivare da posizioni così lontane tra di loro, come si possa avere all’interno del proprio DNA le stesse percentuali di una famiglia e dell’altra, mi sembra folle essere il prodotto di istanze così lontane e inconciliabili eppure lo sono e forse sono così per questo, a volte guardo le Cucciole Orse e mi sembra impensabile che abbiano questi universi dentro le loro cellule, eppure li hanno e sono il miglior prodotto che potesse venire fuori o comunque confido molto nella selezione della natura  e nel salto generazionale e così spero che alcune idiozie non le riguardino o che comunque siano capitate ad altri, va da sé, non della parte materna. Che stanchezza, Lupo. Ho tanto desiderato essere Dio, quest’anno. Anche solo dio, un dio qualsiasi. Comunque un dio con determinate caratteristiche. Un dio abbastanza incazzoso e vendicativo, uno che non te le manda tanto a dire, uno con cui non ragioni molto e che promette poco, anzi, un dio che non ti dà garanzia alcuna sul dopo, nessuna teoria escatologica ma solo prospettive scatologiche. Un dio facilmente bestemmiabile, senza timore di essere punito perché imprecherei più forte e fulmienrei a caso e fanculo pure il libero arbitrio, via, tolto, ve lo buco ‘sto cazzo di libero arbitrio. Quest’anno ho trascorso molto tempo seduta sullo sgabellino della lavanderia a guisa di scranno in una cattedrale, che fortuna avere un posto dedicato per stendere dice la mia amica Gabri che sposta gli stendini in ogni stanza della casa a seconda del fabbisongo, io invece ho spostato pezzi di casa in lavanderia e seduta sullo sgabellino quest’anno ho pianto per ore, singhiozzando forte coperta dal rumore dell’asciugatrice e della lavatrice, insonorizzata, protetta e difesa allo stesso tempo, incapace di pregare, con una sola richiesta a riempire le labbra, chiedendo all’Universo di prendermi i pezzi che non mi servono chiedendo di rivolgere altrove tutto questo dolore. Sì. Così. Se fossi stata dio, un dio qualsiasi, anche un ciarlatano, un dio sedicente tale, un dio da poco, se fossi stata un dio minore avrei saputo a chi indirizzare il male che mi stava torturando, lo avrei spostato con un soffio. Sì. L’ho pensato. Ne vado fiera? No. Lo riafarei? Sì. Perché io sono così, ho ben chiara quella parte di me, cattiva, torbida, spietata e non è un difetto, magari fosse un difetto, sarebbe qualcosa che manca, qui invece c’è  e non posso toglierla. Posso farci dei compromessi. Posso metterla a a tacere, posso educarla. Posso evitare che sbraiti. Ma che stancezza, quanta stanchezza, Lupo, mio dio. Mayday, mayday, Lupo.

Ho finto di non conoscerla, speravo facesse altrettanto non per lei ma per me, per il Lupo, per Cucciola Orsa. Invece no, nemmeno il tempo di prendere posto sul treno del ritorno, con le giacche piene di acqua e il trolley da sollevare mi guarda e si aspetta che la identifichi. Il mio sguardo diventa di pietra. Il mio istinto di conservazione è più forte del suo istinto di conversazione e infatti lei cede. Allora pronuncia il mio nome  “Sonia” ma lo fa come se fosse una domanda. “Si” e lo dico come se fosse una sentenza di condanna. Fingo ancora di non sapere di chi si tratti. E poi mi dice “sono la moglie dell’Orrendo Butterato”.  Mi viene in mente una frase scritta a matita sul libro di letteratura l’anno della maturità , il commento a un qualche brano non so quale, vedo la mia grafia sul libro, nello spazio tra due paragrafi, la memoria visiva è uno dei miei cavalli di battaglia, la memoria in generale è una delle condanne che mi sconto in vita: elì, elì, lama sabacthani, lo sconforto supremo, il dubbio nella sua espressione più crudele, fingo ancora, faccio come mia nonna materna quando non mi ha riconosciuta per la prima volta di tutte le volte successive, quando mi ha fregata così, faccio come mia nonna che il giorno prima sapeva chi ero e il giorno dopo mi ha detto “buongiorno Signora” con un distacco gelido che mi si è attaccato dentro,vicino al cuore e il Lupo ci si rifà i denti  quando è nervoso. Immagino di aver sentito male, ho le orecchie a puttane, Raperonzolo dal flaccido doppio mento qui davanti a me non ha detto così, ha detto “ci sono foglie proprio qui sul selciato” oppure ha detto” ho voglie che ho colmato con un gran gelato”, può anche aver confessato “sono doglie anzi no, guarda, ho solo defecato”.  Con lo sguardo disgustato le ho rivolto un olofrastico “eh”. Basta.  Ho preso il Lupo e Mamma Orsa, li ho fatti sedere davanti a Cucciola grande, che nessuno si avvicinasse. Basta. Nessun profluvio di contumelie, tutte rimaste a livello di pensiero. Basta. Ho promesso, seduta sul mio sgabello, che non avrei alimentato la rabbia, in cambio ho chiesto di riavere indietro mio fratello e suo figlio, nulla posso fare per il rancore, quello è e quello rimane. Nulla posso fare per il desiderio di vendetta, quello è e quello rimane, posso solo tacerli, lasciarli sbocconcellare al Lupo, lasciarglieli triturare e poi scusarmi con lui che alla fine mi difende mentre io proteggo la Cucciola, indifferente a tutto questo, lei con lo sguardo rivolto fuori dal finestrino, il sorriso di chi ha capito, di chi ha sentito ogni sforzo e ogni pianto, non con le orecchie e senza le parole. Lascio Raperonzolo alle sue telefonate, devono averle detto di non avvicinarsi ulteriormente altrimenti potrei uccidere. Sì. Posso. Guardo fuori dal finestrino e poi davanti a me, lei, Cucciola grande con gli occhi di suo padre e il mio modo di guardare: come si fa ad arrivare da entrambi questi posti contemporaneamente, nello stesso modo, nella stessa percentuale? È impossibile. È un miracolo. L’ho fatto io. Come se fossi dio. Ma che stanchezza, Lupo, mio dio. Mayday, mayday, Lupo.  

Una piccola madre e altre simili sciocchezze

Sono una persona paurosa, così gli ho scritto in un messaggio l’altro giorno, gli ho confessato qualcosa che già sa, nessuna nuova scoperta né per me né per Lui, ma il bisogno di dirlo, scriverlo, per formalizzarlo, per dire è così.  Sono una donna paurosa, ho pensato di me, prima di scriverlo a Lui, ecco perché metto spazio e tempo tra me e quel che vivo, tra me e quel che faccio, ecco perché arrivo prima e aspetto, aspetto sempre ho pensato mentre camminavo sul lungo Po, guardavo i cani senza guinzaglio camminare accanto al padrone, qualche irriducibile correre ben equipaggiato contro il freddo che stenta ad arrivare , dei ragazzini ridere in canoa incuranti dello sforzo, una ragazza con un passeggino canticchiare una ninnananna a un bambino sveglissimo, ho contato i miei passi, lo faccio quando sono nervosa, ho guardato l’ora e c’era ancora tempo prima della visita di cui avevo paura e non c’era motivo di averne solo che ancora non lo sapevo.

Ho piccole paure, arrivo a quelle un po’ più grandi quando si tratta della salute ma non tanto per me, non tanto su di me, più per le mie ragazze e per Lui, per le conseguenze.  Ho paura delle scale mobili, più in discesa che in salita. Degli ascensori. Di trovare insetti nella farina o vermi nella macchina del caffè, non so perché, non è mai successo, la lavo ogni giorno e penso sia impossibile che succeda e nonostante questo ne ho paura. La paura è sempre nonostante qualcosa che penso o che so. La paura abita il nonostante, per quel che mi riguarda. Ho paura di investire un cane, di citofonare e che nessuno risponda perché il citofono è guasto o perché ho sbagliato giorno. Ho paura che il bancomat si smagnetizzi. Ho paura di tagliare troppo i capelli, di rischiare di non piacermi per un po’, ancora, o peggio di non riconoscermi. Hai mai pensato alla frangia? Mi ha chiesto la parrucchiera. L’ho inventata io la frangia, le ho detto, quando ero bambina esisteva solo la frangia che ricresceva troppo e prima del resto e cadeva dentro gli occhiali, penzolava moscia lì, come fai a vedere con questa frangia così lunga mi dicevano e allora si andava a tagliare di nuovo e poi ricresceva troppo e sempre prima del resto e ricadeva dentro gli occhiali e tutta la storia si ripeteva sempre uguale a se stessa esattamente come fa la storia finché non si cambia un elemento. La frangia mi fa schifo, deponi la forbice parrucchiera, limitati a ciò che ti ho chiesto, è finito il tempo dell’osare senza pensare, lascia che io mi guardi con amore, ancora, che arrivare a farlo è stato un lungo viaggio.

Sono stata brusca, allora ho sorriso sperando di addolcire un po’ il tono. “È che hai questo modo tranchant di parlare”- mi ha detto qualcuno a cui raccontavo l’episodio pochi giorni fa- “ma è normale perché hai la Luna in Ariete”. Grazie, non lo sapevo. Per anni mi hanno detto che era il carattere di merda  e adesso scopro che c’è una spiegazione. Astrologica, va bene, ma che importa? Ho la Luna in Ariete, scansatevi tutti, mia madre mi ha messa al mondo a quell’ora e ha decretato ciò, bastava che partorisse in un’altra fascia oraria e invece no. Che significa, gli ho chiesto. Che sei un maschio alfa. Ma chi, io? Sì. No, guarda, questo no. Sono una donna paurosa, quale maschio alfa. Non sono nemmeno femminista, io. Non come sono femministe le donne che guai ad offrire la cena perché possono pagarsela da sole, non come sono femministe le donne che usano nomi maschili per le loro cariche, non come sono femministe le donne che forzano un sostantivo per declinarlo al femminile a tutti i costi. No, guarda, io sono cresciuta guardando la Signora Minù, che ne sai tu, quanti anni hai, quanti giri intorno al Sole hai compiuto caro esperto di astri? La signora Minù diventava piccola, piccolissima, lei e il suo cucchiaino.  Sono cresciuta guardando Strega per Amore, che ne puoi capire tu, quante volte hai immaginato di poter diventare così piccolo da stare dentro una lampada arredata in stile Maison du Monde con una coda svolazzante e la frangia(!) perfetta perculando un astronauta che chiami Padrone senza che nessuno davvero ci creda? Sono cresciuta immaginando di poter diventare piccola, piccolissima in caso di necessità e che solo così potevo fare quello che volevo, esattamente come quelle donne, mentre gli uomini restavano grandi, grandi e basta, persino un po’ ridicoli come tutte le cose grandi.

“Prenditi il tuo spazio, Sonia, non sei così piccola come pensi”. Questa frase me l’ha detta Enrica, quasi dieci anni fa. Ero su un futon, in abbigliamento comodo e calzettoni, tutto comprato per l’occasione perché nel mio guardaroba non c’era niente di simile. Era la prima lezione del Corso per diventare operatrice Shiatsu e non avevo mai toccato nessuno lungo tutto il corpo in quel modo, non avevo mai tenuto una testa tra le mani che non fosse quella delle mie figlie o di qualcuno che stringevo a me perchè non andasse via, Enrica è stata la mia insegnante, da allora ho tenuto tra le mani molte teste, ho contattato e toccato molti corpi, ho comprato molti calzettoni e ho capito la differenza tra sentirsi piccola ed essere piccola. Soprattutto ho imparato che nessuno è talmente grande da poterti fare sentire piccola. E se lo è, allora è anche talmente ridicolo da poter essere preso in giro senza paura o con una piccola paura. In ogni caso in modo tranchant.

Lo insegno alle mie ragazze ogni giorno da molti giorni, lo farò ancora ogni giorno per molti giorni, ma meno di quelli già spesi così. Arriverà il giorno in cui diventerò inutile, c’è un brano molto bello “la buona madre è quella che diventa inutile” , io sto lavorando in quella direzione, in quel senso. E sto lavorando per essere non una buona madre ma una madre buona, perché la posizione delle parole è importante quanto il tono con cui vengono pronunciate. E sto lavorando per diventare una piccola madre, di quelle che occupano poco spazio e che porti con te un po’ ovunque, un amuleto nel portafogli, il rossetto ferma al semaforo, una ditata sulle lenti degli occhiali che appanna appena ma ti permette di vedere, il prurito di una cicatrice prima che cambi il tempo, l’abilità di fare da soli le piccole cose di ogni giorno, la cautela nell’amore che prende il posto dell’impeto, la cura che arriva quando si ama da molto tempo, l’attenzione a non colpire, l’istinto di coprire anche se il freddo non è ancora arrivato, la conoscenza dell’altro che è come imparare a parlare, prima si impara ad ascoltare e solo dopo a parlare la conoscenza di se stessi che è come imparare a  scrivere, prima si impara a leggere e solo dopo a scrivere, la conoscenza che è come imparare a camminare, prima si impara a correre e solo dopo a camminare. E sto lavorando per diventare una  piccola madre, di quelle che non disturbano, che ti sembra di vederle per strada e non sono loro ma potrebbero, una battuta che fa ridere, un bicchiere di vino rosso, una ricetta che sai replicare senza sapere perché, l’occhio colorato del Daruma sulla mensola e non l’altro, quello da colorare, per ricordarti che non importa esaudire il desiderio o realizzare il progetto, importa avercelo un desiderio, averlo espresso, importa avercelo un progetto e impegnarsi. E sto lavorando per diventare una piccola madre, di quelle che puoi nascondere bene così nessuno te la ruba, un ricordo lontano ma vivo, un rito anche senza fede, un’ attesa contando i passi per fare qualcosa, ché attendere è un’azione che si fa da fermi altrimenti, una piccola paura che non era tua ma te la intesti e poi ne parlerai all’analista, una ninnananna che serve solo quando si è sveglissimi, altrimenti non è utile, una stella luminosa a cui guardare e va bene anche se forse è già morta che della morte non c’è da aver paura perché è grande e ridicola.

(E sto lavorando. Perché ho il Sole nella Vergine e pare che non possa fare altro che lavorare, nel mio piccolo.)

Lo imparo dalle mie ragazze ogni giorno da molti giorni, lo farò ancora ogni giorno per molti giorni, più di quelli già spesi così. E sto imparando ad essere una piccola madre, di quelle che sai non potranno mai farti male, un cerotto su un taglio, una sciarpa intorno al collo, la crema alla calendula sulla pelle irritata, una foto mossa perchè la vita è ferma solo quando si aspetta, la salute prima di tutto, un fazzoletto di stoffa ritrovato nel giaccone dopo un anno. E sto imparando ad essere una piccola madre, di quelle che le sposti facilmente, non pesano e non devi chiedere aiuto a nessuno, d’estate al sole e d’inverno al riparo, che basta poco, un po’ di luce e acqua quando vedi che il terriccio è proprio secco, non occorre il rinvaso e non farà fiori ma sarà sempre verde, che basta niente, davvero, per non farla gelare, un minimo di attenzione. E sto imparando ad essere una piccola madre, di quelle che non le vedi per un po’ e te le ritrovi un mattino dentro lo specchio, appena dopo esserti sciacquato il viso, prima di lavarti i denti, con la bocca un po’ aperta e il sopracciglio che mai si era alzato così prima, di quelle che inizi a mangiare o smetti di mangiare che robe da matti cambiare gusti alla tua età. E sto imparando a essere una piccola madre, di quelle che aspettano contando i passi per fare qualcosa, ché attendere è un’azione che si fa da fermi altrimenti, di quelle che hanno piccole paure anche se non ce n’è motivo, è che magari ancora non lo sanno.

(E sto imparando. Perchè ho Mercurio nella Vergine e pare che non possa fare altro che imparare, nel mio piccolo.)

Da queste parti

Sono andata via, non ho nemmeno bevuto il mio tè bancha, ho lasciato la borsa e i documenti e l’auto con le chiavi nel quadro in garage e le chiavi  di casa quelle le ho proprio scaraventate sul pavimento e lo stesso ho fatto con il telefono e vaffanculo ho detto, vaffanculo a tutte e due e a me che vi ho fatte, mi sono infilata le scarpe e ho preso il piumino, quello rosa che non è proprio rosa, ma è un colore molto tenue, Lui dice che è dorato, io mi innervosisco ogni volta che lo dice perché non è dorato e ho preso il cappello di Borbonese, per la pioggia, quello che mi ha regalato Lui dopo l’ecografia in cui ci hanno confermato che Cristina era una femmina e io scoppiavo di felicità dentro i pantaloni premaman, ho messo il cappello perché pioveva, pioveva che Dio la mandava giù davvero, pioveva come piace a me che piove davvero, non quelle pisciatelle stupide con la gente che piagnucola blaterando di pioggia battente, tutti che partono con la tiritera della pioggia battente. Vaffanculo anche a loro, anche a voi, so io cosa vi batterei e dove. Sono andata via al culmine di una scena madre che se si dice così un motivo c’è, ho urlato e pure menato, le ho colpite sulle braccia, non ho mai dato uno schiaffo, mai. Però ho menato le braccia, due o tre colpi a testa mentre recriminavo, mentre imprecavo, piccole ingrate che non siete altro, ho menato e sembravo una bambina che colpisce i genitori, sono così alte e inarrivabili ormai, eppure sembravo comunque una madre che colpisce come colpiscono le madri, nodose. Dolorose.   Pioveva una pioggia insistente, una pioggia che puoi scambiarla per un’abluzione rituale se ti infili un cappello ed esci senza niente perchè niente ti serve.

Sono andata via sotto la pioggia insistente perché hanno iniziato a discutere tra loro, ancora, di nuovo, per l’ennesima volta. Ieri. Che era giovedì. Il giovedì non devono discutere. Il venerdì possono mangiare carne e il sabato lavorare, possono fare tutto quello che vogliono, possono fare tutti quei rumori che i corpi di giovani donne producono in casa, possono chiudere le porte, far scattare le serrature, aprire il rubinetto dell’acqua calda più e più volte, accendere il phon, mettere musica, porre domande imbarazzanti ad Alexa, far singhiozzare il frigorifero a furia di aprirlo senza motivo, lasciare scorrere i cassetti nelle guide con quel sibilo struggente di animale morente, lasciare la tv accesa e dimenticarsene. Possono fare quello che vogliono. Ma non il giovedì. Il giovedì non si litiga, non si discute per ogni cazzata, il giovedì tutto è una cazzata per mia decisione insindacabile. Il giovedì è come se io mi muovessi  con il trespolo dell’ossigeno, con il catetere che raccoglie le urine e le espone alla vista di chi c’è, è come se fossi ricoperta di tubi e tubicini che mi permettono di respirare e funzionare un po’. Il giovedì affronto l’abisso e quando torno sono sfinita e allora non si dicute, non si dicono parole inutili, tutte le parole sono inutili il giovedì per mia decisione insindacabile. Sono andata via perché sono sedici anni che progetto di farlo almeno una volta al giorno e almeno una volta al giorno l’ho sempre fatto senza che nessuno se ne accorgesse.  Sono andata via ogni volta in cui ho aspettato un momento prima di scendere dall’auto e prenderle da qualche parte. Sono andata via ogni volta che mi sono chiusa a chiave in bagno e mi sono seduta sul bordo della vasca a guardarmi nello specchio. Sono andata via ogni volta che ho lasciato un biglietto amoroso nel quale promettevo rientri veloci. Sono andata via ogni volta che ho cercato un nuovo lavoro, ogni volta che mi sono iscritta a un corso di formazione o di aggiornamento, ogni volta che ho detto al cane “meno male che ci sei tu”.

Camminare sotto la pioggia, solo questo, volevo solo questo, sbollire, mettere distanza tra me e le parole crudeli che avrei usato, volevo fermarmi un attimo prima di fare male, volevo solo creare distanza, uno iato, un respiro più lungo nel quale rilassarmi. Ho pensato di non tornare, certo. Il primo pensiero. Poi mi sono detta: cazzo Sonia, è giovedì, la puntata di Chi l’ha visto è andata in onda ieri e ho pensato alla mamma di Ceci: la mamma di Ceci lo guarda sempre, io no, non lo guardo mai ma lei dice che è uno spaccato sociologico interessante e allora mi sono immaginata la mamma di Ceci sul suo divano che porta una mano al viso e dice ma questa che cercano è la mamma di Benny, ma comunque mercoledì prossimo ormai. Per la mamma di Ceci io sono la mamma di Benny. La chiamano così, fuori. Noi dentro la chiamiamo Pepe e io mi confondo sempre, parlo di Pepe e dico di Pepe e racconto di Pepe e alla fine le persone mi chiedono ma chi è Pepe, ah, Benny. Come volete, pure voi. Ho pensato di non tornare, certo. Il primo pensiero e dopo il secondo riferito alla mamma di Ceci mi sono immaginata di essere ritrovata così com’ero uscita, che insomma, dall’incazzatura repentina che mi è montata su ho infilato il piumino, quello rosa che non è proprio rosa ma sotto avevo già messo il maglione che uso per stare a casa. Rosso. E spuntava anche un po’ dal piumino. E le scarpe. Presa dall’incazzatura mi sono infilata gli anfibi senza le calze perché io a casa non porto le calze e nemmeno fuori, le ho abolite, basta calze, mi ribello alle calze, non sopporto le calze, le uso solo quando mi alleno e quando dormo. Sì. Dormo con le calze, ma non è questo il punto. Se mi succede qualcosa, mi sono detta, mi ritrovano con gli anfibi e senza calze, con un maglione rosso che spunta da un piumino rosa, più o meno rosa, così, senza documenti che se dovessero chiedere a Lui di riconoscermi direbbe no, perché Lei ha un piumino dorato. E mi sono immaginata le amiche e gli amici di Cri che a volte quando stanno insieme dicono “ma parliamo un momento di quanto è figa la mamma di Cri”. Così dicono, questi matti, che mi è venuto da chiamarli e dirgli allora, guardate adesso, con la pioggia insistente che mi batte sulle spalle, con le mani in tasca e lo sguardo a terra, con il nervoso che non spurga nemmeno così, nemmeno se parto per il cammino di Santiago, guardate adesso che schivo le pozzanghere e i pensieri dolorosi allo stesso modo, i ricordi dai quali non guarisco, le mancanze che non riesco a colmare da sola, guardate adesso che vago sotto la pioggia e c’è ancora chi pensa che ad essersene andata sia la mamma di Cri e di Pepe e invece è Sonia che se n’è andata per ritrovarsi in qualche posto dove si arriva solo a piedi, è Sonia che cerca modi per sopravvivere, è Sonia che cerca, cerca, cerca perché ha il sistema motivazionale dell’esplorazione predominante. È Sonia. Quella che ha il cuscino sporco di mascara. E l’accappatoio azzurro Tiffany, lo voleva verde acido ma non c’era della sua taglia allora ha lasciato che lo prendesse Lui di quel colore perché, in fondo, le metteva allegria l’idea di vedere quella tinta in bagno e allora che fosse il suo accappatoio o quello di Lui poco cambiava e in quel momento ha capito qualcosa di più sul senso del matrimonio. Del suo, per carità, non di tutti i matrimoni. È Sonia, perché la mamma di Cri e Pepe dove volete che vada, cosa volete che faccia senza quelle due piccole ingrate, immense facce da culo, cosa volete che dica e a chi volete che lo dica senza una versione di latino su cui intervenire e la ricerca di un nominativo introvabile e cosa dico alla professoressa, dai, se ne accorge che non posso averlo trovato da sola e tu dille che c’è dentro un po’ di tigna e un po’ di culo che li hai presi da mamma e papà, indovinate da chi la tigna e da chi il culo. Dove volete che vada la mamma di Cri e Pepe, al massimo fa il giro dell’isolato e se proprio si spinge più in là è per recuperare Sonia, adesso che sta in pensiero anche per lei se non la vede tornare, adesso che le hanno dato il compito di parlarle come parla alle sue ragazze, di menargli pure se è il caso ma di fare esattamente come fa con le sue ragazze, di guardarla con lo stesso amore, di accoglierla e di non farle pesare tutti i pezzi in cui è rotta, tutte le volte in cui si inceppa, magari si aggiusterà, magari no, ma si può provare a farla funzionare lo stesso. Ci vuole un po’ di tigna e un po’ di culo.

E poi la pioggia si è indebolita, come fiaccata, forse stufa. Poche goccioline, ho tirato su il viso per vedere se mi bagnavo ma c’erano solo le lacrime di rabbia ferme agli angoli degli occhi, forse un po’ di mascara colato, il naso rosso per il freddo ma pioggia poca. Ho tirato fuori la lingua e non ho sentito nessuna goccia. Ho tirato fuori le mani dalle tasche e ho aperto i palmi verso il cielo come certe anziane quando pregano inginocchiate al primo banco e niente nemmeno così. Ho preso la strada del ritorno, con calma, con più calma di quanta calma volessi usare, a ogni passo un respiro a ogni respiro un soffio a ogni soffio uno sbuffo a ogni sbuffo un passo a ogni passo un respiro a ogni respiro un soffio a ogni soffio uno sbuffo a ogni sbuffo un passo fino al citofono, cognome di Lui, cognome mio, quattro lettere, sei lettere per totali dieci lettere, dieci è un bel numero ho pensato, ho suonato e non mi hanno aperto e mi sono incazzata e allora ho suonato di nuovo una scampanellata lunga che la sentono anche sotto il casco della parrucchiera altro che phon e chissà se esistono ancora i caschi dalla parrucchiera, dal mio non li ho più visti e allora mi hanno aperto e nel vialetto ho incontrato il vicino che usciva per andare a buttare la spazzatura, io non la butto mai la spazzatura, a casa nostra la butta sempre Lui e svuota anche il tappo del lavabo in cucina dai residui perché io lavo e pulisco ma quello mi fa sempre un po’ schifo e lo faccio proprio solo se vedo che non lo fa Lui che comunque è molto bravo e lo fa con una certa continuità e il matrimonio è fatto di queste cose, penso io, il mio matrimonio per carità, mica tutti i matrimoni. Il vicino sorride sempre e io lo ammiro per questo perché sorride davvero, sorride genuino e io a volte mi esercito ma non riesco a sorridere sempre, la mamma di Cri e Pepe in questo è molto più brava, lei sorride spesso e ride molto. “Sonia”, mi ha chiamata e l’ho guardato perché penso che in due anni sia la prima volta che usa il mio nome e mi è venuto da guardarmi alle spalle perché ho avuto il dubbio per un attimo di non essere io come quando mio padre mi ha mandato gli auguri di compleanno il giorno prima e prima di rispondergli per correggerlo io comunque ho controllato la data e poi ho messo in discussione per un momento 44 anni di certificati, ecco per un attimo ho pensato di non essere Sonia, non completamente e invece lui aveva solo pronunciato il mio nome che è il modo con il quale i consociati e i condomini e le persone in genere usano appellarsi e niente mi ha offerto del cavolo nero. Che coltiva lui. Senza niente. Senza pesticidi o niente, senza robe non previste dalla natura del cavolo nero. E ho accettato e allora mi ha portato questo sacchetto di carta con dentro il cavolo nero a kilometro zero già lavato e ho ringraziato, davvero, grazie mille, che meraviglia che ti occupi anche di questo e ti viene in mente di offrirmelo e mi sorridi e scusa adesso rientro, ho un maglione rosso che spunta dal piumino e i piedi scalzi raggrinziti negli anfibi e devo sbollentare il tuo cavolo , ho sbollito il nervoso, è giovedì ma niente gnocchi, fatico a respirare e non voglio sentire rumori, mi viene da piangere un po’ di più il giovedì, è così, adesso rientro, perché ero andata via ma mica per davvero.

E’ tutto (l)oro

“È tutto loro” ho detto spazientita dopo dieci minuti, circa. Mi sono spostata sulla sedia, senza alzarmi, il peso da una chiappa all’altra, le gambe hanno cambiato incrocio, ho tolto un capello dalla maglia. Ne sto perdendo da non crederci. Di capelli. E di pazienza. Ma i capelli, quelli sono corti quando stanno al loro posto e poi sembrano lunghissimi quando li raccatto in giro che mi chiedo se davvero sono i miei. Che finimondo per un capello biondo cantava mia madre quando ripiegava gli abiti di mio padre. Lei aveva i capelli rossi mogano, quelli biondi che sfilava dalle spalle dei maglioni erano i miei, poggiavo lì la testa. Ho sempre perso i capelli, mi consolo. E la pazienza.

Cosa è loro? Mi ha chiesto senza scomporsi, le braccia lungo i braccioli, la schiena dritta, i piedi su due delle cinque razze della poltrona, è ergonomica, non ho ancora perso l’occhio della consulente aziendale, anche se quella era una delle vite precedenti e proprio come da una vita precedente ogni tanto arrivano suggestioni. Cerco sempre l’uscita di sicurezza, controllo sempre che sia sgombro il passaggio in quella direzione, per esempio.

Tutto. Il tempo. Il tempo delle lancette, io non ce l’avevo un orologio prima di loro, non mi serviva. Mi regolavo con il cellulare o con il cruscotto dell’auto, chiedevo a un passante. Non dico guardare il cielo per orientarmi, quello no, però mi orientavo senza lancette, arrivavo e andavo via e il tempo trascorso tra quei due momenti era solo tempo trascorso tra due momenti senza interruzioni.

Tutto. Le interruzioni. Io non avevo interruzioni prima di loro, iniziavo qualcosa e lo finivo, bene o male dopo si valutava. Tutto. Lo spazio dentro le interruzioni, lo spazio dentro il tempo, lo spazio che si crea come un doppiofondo nelle attese, piccoli vani nascosti dietro pannelli al fondo di un armadio. I miei nonni ne avevano uno così in camera da letto, ci tenevano i gioielli o i contanti. Ogni tanto vedevo mia nonna sparire dentro l’armadio e poi uscirne con dei sacchetti di velluto scuro, non si poteva dire a nessuno ma adesso non c’è più nessuno, sono tutti morti e quell’armadio non so nemmeno se esiste ancora. Io esisto ancora, quella bambina e quella ragazzina seduta sul letto che promette di non dirlo a nessuno anche. Se esistesse il doppiofondo mi ci infilerei ma loro sarebbero anche lì, lo so, perché è tutto loro. Anche quello che non esiste più.   

Tutto. Tutto lo spazio. In casa, fuori casa, in ufficio, ovunque c’è qualcosa di loro, io stessa sono qualcosa di loro in fondo. Mi guardi. Questa maglia è della grande. Anzi è mia, ma l’aveva voluta lei e poi me l’ha restituita. Questa collana, me l’ha regalata la piccola per via del ciondolo, un enorme cuore nero sfaccettato e sfacciato che mi rimbalza sul cuore a ogni passo. Tutto. Le attese dentro lo spazio che occupano, tutta la vita incastrata lì, quella è tutta loro. Ogni mattina dalla tangenziale vedo un aereo in fase di atterraggio. Ogni mattina. Sempre questo aereo che arriva e mai, mai uno che parte. Ogni mattina chiedo alle ragazze ma secondo voi chi cazzo atterra alle 7.30 a Torino e perché? Perché ti viene di atterrare a Torino così presto? Cosa devi fare a Torino? Le ragazze non rispondono, non c’è risposta in effetti. Io però non atterrerei a Torino un martedì alle 7.30. Ma sarei all’aeroporto ad aspettare qualcuno che lo fa. Ecco, la vita io la vedo incastrata lì. Subito fuori dalle porte scorrevoli a controllare un monitor che indichi landed. Cioè, la mia vita. Mica voglio generalizzare. Sa come si dice: parlo di me così non offendo nessuno. Eppure io parlo di me e comunque qualcuno che si offende lo trovo sempre. Sarà il modo. Il mio, ovviamente.  

Tutto. La paura. La stanchezza. Il sonno arretrato. Le cicatrici sulla pancia. La sveglia delle sei. La dieta bilanciata, le verdure fresche e la frutta nel cestino sul carrello accanto alla credenza. Il latte e gli yogurt che non scadano, le uova un paio di volte a settimana, il profumo dell’ammorbidente e il cambio delle lenzuola, i complimenti esagerati volutamente quando indosso un caschetto da cantiere e mi arrampico sul ponteggio della loro autostima, qualcosa mi rovina sempre addosso e devo restaurare e sistemare e non so come si fa, non so come si costruisce quella sicurezza di sé che ti fa stare dritto nel mondo anche se arriva il terremoto. Non lo so. Tutto, anche quello che non so. Soprattutto quello che non so. Quello che ho dimenticato. I vocaboli irregolari della terza declinazione, i verbi deponenti, la maieutica, la Metamorfosi di Kafka. Tutto quello che sono stata e non sono più, è tutto loro, la mia infanzia e la mia adolescenza che mi tormentano di prurito come arti fantasma. La vita, la morte. È loro anche la morte. La mia morte. La loro morte. Loro moriranno, un giorno. Le ho messe al mondo e moriranno e come possiamo vivere così? Come possiamo non soffrire noi che sappiamo già come andrà a finire? Tutto. Tutto loro. La cacciata dall’Eden è solo questo: sapere che moriremo, la conoscenza che non dovevamo assaporare è solo questa. Io vorrei morire come muoiono gli animali e vivere come vivono gli animali. Invece lo so. E lo sanno anche loro. Tutto, anche la conoscenza. Anche quella è loro. È tutto loro e io non ci sono più.

Come quale animale vorrebbe vivere? O morire?  E perché? Mi ha chiesto sorridendo, le braccia sulla scrivania, le dita che sfiorano il cappuccio blu della penna, quella gialla e nera, una tra le migliori, ho ancora l’occhio della grafomane scribacchina perché è tutta la vita che faccio quello e non potrei fare altro mica per talento ma per necessità, mica per vanto ma per urgenza, mica per gli altri e nemmeno per me. Mica è una penna. È un guinzaglio.

Il cane. Forse dovrei dire il lupo ma così già ci vivo, così già mi vive dentro, sa, il mio lupo dietro lo sterno. Perché? Perché. Perché il lupo è cattivo solo quando non racconta lui la storia, ci ha mai fatto caso? Perché il lupo è monogamo, sociale, famelico. Il mio lupo forse non è nemmeno più un animale. Allora dico il cane. Perché è fedele. Perché crede in qualcuno e non in qualcosa, perché per farsi capire non ha bisogno di parlare. Io odio profondamente, dalle viscere davvero, chi parla di cani mordaci e bambini indifesi, chi colpevolizza il cane e non educa le persone. Abbiamo sempre avuto cani e sempre ne avremo. Le ragazze non hanno ricordi senza. Pensi, una volta Cristina, aveva 13 mesi, era estate e aveva iniziato a muovere i primi passi, era burrosa e morbida con le pieghe di ciccia sui polsi, aveva solo il pannolone perché faceva caldo, era scalza in terrazzo e con una mano si teneva alla ringhiera e con l’altra portava il biberon alla bocca, io stavo stendendo o non so, mi sembra però di sì comunque ero distratta e con la coda dell’occhio intercetto questo movimento strano e allora osservo e lei stava sì portando il biberon alla bocca, dava una golata e poi via, un sorso al cane e poi via di nuovo lei e così, un po’ a lei e un po’ al cane. Di quella volta mi sono accorta, di tutte le altre no. Ecco. Così. Ho insegnato alle bambine quando erano bambine che i cani si chiamano prima di toccarli, che ci si avvicina mai frontalmente ma sempre di lato, loro devono vederti arrivare così e non dritti sparati come un pericolo, che non li si tocca dietro senza che prima ti abbiano visto e sentito, che la fronte non è il posto preferito dove amano essere contattati, meglio la schiena. Che il cane non ha modo di dirti che gli dai noia o che non ha voglia di giocare o che vuole stare da solo tranquillo e allora ringhia o peggio morde, perché non ha un altro modo se gli si dà fastidio, siamo noi che abbiamo gli altri modi e allora siamo noi che ci dobbiamo adeguare. Cioè loro. Noi ma intendo loro. Ho insegnato alle bambine quando erano bambine come si sta con un cane. Anche questo, vede, adesso è loro. È tutto loro. Anche il cane, anche saper stare con il cane, anche la scelta del cane, anche la morte del cane. È tutto loro e io non mi trovo più.

Tiro su con il naso. Mi viene da piangere, dovrei sporgermi fino alla scrivania e prendere un kleenex ma non mi va di muovermi e di piangere. Guardo in su, un angolo del soffitto e poi l’altro, la porta è alle mie spalle, il passaggio è sgombro eppure non cerco di uscire. Di uscirne. Passo la lingua da una guancia all’altra, sento sapore di ferro, mordicchio il labbro inferiore, con l’unghia del pollice non do tregua all’unghia del mignolo, già nei nomi c’è il destino, se ti chiami mignolo devi soccombere al volere del pollice, mi perdo in queste cazzate per restare salda sulla sedia, spazientita, stanca, sfinita, accucciata. Non cerco i suoi occhi, non voglio guardarla perché è di fronte a me, mi sposto appena un po’ di lato, non voglio guardarla e non la guardo perché ormai se non voglio fare qualcosa non lo faccio e basta, perché ormai decido io e gli altri si regolano di conseguenza, perché adesso l’adulto sono io e non c’è da sentirsi amputati o sbagliati e come dicevamo una o due o tre sedute fa, che ne so, sono parte di questo progetto immenso che sono le mie ragazze e non spettatrice, sono agente anche se non so come si fa perchè nessuno sa come si fa e chi dice che lo sa è un bugiardo o un idiota e vince chi sbaglia meno ammesso che ci sia un premio e va bene anche se mi perdo in questi pensieri e una parte di me dice così all’altra parte di me, dice che va bene, cioè va bene anche se siamo in due a parlare e io sono solo una perché finché so che lo sto facendo non è schizofrenia mi ha detto ridendo quella volta che le ho chiesto e lo saprà bene lei, no, cos’è schizofrenia e cosa no e se uno che è solo uno parla e risponde che così sembrano due ma lo sa va bene. Non cerco i suoi occhi. Guardo la mia borsa, il cavo del computer attaccato alla presa, il filo nella canalina a norma, non ho perso l’occhio e nemmeno il fiuto, ho solo perso la pazienza e tanti capelli in quest’ora che sta terminando.

Sono io, vero? Il cane? Quando alle bambine ho insegnato a stare con il cane, a non farsi fare male dal cane ma a non averne paura, io stavo insegnando alle bambine quando erano bambine come stare con me? Con la loro mamma?

Sì, Sonia. Anche la mamma è tutta loro. Tutta.

La Signora senza Sogni

La Signora senza Sogni dorme poco, trascorre gran parte della notte a rigirarsi su sé stessa. Ecco spiegata la mancanza di sogni, le dicono. Ma con la Signora senza Sogni bisogna andare cauti in fatto di spiegazioni perché lei è una specialista della materia, a tutto cerca la spiegazione e quando, a volte, le capitano situazioni per le quali non c’è spiegazione cerca la spiegazione dell’assenza di spiegazione. Sbuffa sfinita dalla banalità di certe affermazioni. Cosa c’entra la mancanza di sonno con la mancanza di sogni? È quello il tempo per sognare, le dicono allora. Sbuffa ancora più sfiancata dall’ingenuità di certe risposte. I sogni non hanno bisogno di tempo, ma di spazio. Altrimenti perché uno li metterebbe nel cassetto? Il tempo serve ai progetti. Ai sogni serve lo spazio.

La Signora senza Sogni cammina in lungo e largo all’interno di un’area delimitata. Tra Piazza Rivoli e Piazza Bernini lungo Corso Francia, tra Corso Lecce e Corso Svizzera sino a Corso Tassoni. Avanti e indietro, tra le vie e i controviali, a scendere e salire, il cane a guidarla come se non ci vedesse e un po’ è davvero così. Un paio di volte alla settimana si spinge fino al Parco della Tesoriera, inizia il giro sempre da destra, costeggia gli alberi e torna indietro, uscendo da sinistra. In quelle occasioni il cane è più felice, lei lo sa perché è come se lui glielo dicesse o, comunque, lei lo capisce. La Signora senza Sogni cammina in lungo e in largo e mentre i talloni si poggiano e le punte si sollevano conta i passi arriva a dieci e ricomincia. Sua madre le direbbe che sembra un’anima in pena, pensa, e intanto perde il conto ma non è grave, ricomincia. Una volta alla settimana, in genere il giovedì, invece si spinge oltre Piazza Bernini, ma da sola, senza cane e senza contare i passi, attraversa Piazza Benefica che forse non si chiama nemmeno così, l’attraversa facendosi largo tra i clienti del mercato, la attraversa come se dovesse farlo a  nuoto, c’è una speranza di sopravvivenza nel modo in cui lo fa e attraversa davanti alla farmacia nella quale aveva comprato il test di gravidanza che le avrebbe annunciato l’arrivo della piccola, si infila in una via e in un portone e in appartamento e in una stanza e su una sedia e parla per un’ora di come sopravvivere a una donna che le chiede sempre come si sente e lei risponde sempre dove si sente, in quale punto. Poi esce e compie lo stesso tragitto al contrario, si lascia alle spalle la farmacia e attraversa il mercato come se dovesse farlo a nuoto, questa volta a dorso, guarda il cielo e chissà se le anime in pena sono lì, se in mezzo a tutte quelle persone è la sola ad aver comprato un test di gravidanza in quella farmacia e ad avere avuto una bambina che sembrava solo una bambina e invece era la sopravvivenza, se è la sola ad essere senza Sogni, se è la sola ad avere uno stradario aggiornato con tutti gli eventi della sua vita, se è la sola che si sente da qualche parte invece che in qualche modo. Chissà se sua madre ha mai visto un’anima in pena, com’è fatta e dove. Dove l’ha vista?

La Signora senza Sogni ha il sogno inserito nel nome. Quando era bambina qualche presa in giro c’era stata per quel nome a cui bastava togliere una I e inserire una G per trasformarlo nell’imperativo del verbo sognare, che però non regge l’imperativo. Il verbo dormire sì, ma il verbo sognare, dai, non si è mai sentito. E dormire non c’entra niente con i sogni, non con quelli che mancano a lei.  Quali sono i sogni che ti mancano, le chiedono. Ma con la Signora senza Sogni bisogna andare cauti con le domande, perché lei è una che risponde sempre e tante volte chi fa una domanda non vuole, davvero, la risposta. Sbuffa snervata dall’inutilità di certe domande. Se sapessi quali sogni mi mancano me li procurerei, non confondiamo quello che manca con quello che si perde. Ma forse se chiudi gli occhi e ti concentri, le suggeriscono. Sbuffa ancora più insofferente dalla limitatezza di certe semplificazioni.  I sogni non hanno bisogno di occhi chiusi, quelli servono ai desideri. Ai sogni servono occhi ben aperti per essere realizzati.

La Signora senza Sogni lancia pensieri e corre a riprenderli, li riporta indietro e li lancia di nuovo, poi si ferma per riposare o per ricordare, all’interno di un’area delimitata tra il 1981 e oggi. Ha festeggiato un compleanno palindromo da quindici giorni , una coppia di quattro comodi come un divanetto a due posti dove stare per un po’ a guardare che succede, cosa danno in tv, per aprire un libro o per bere una tisana. Non abbastanza per sdraiarsi ma va bene così, va bene anche stare seduti e fare cenno a una persona, una sola, che c’è posto, ci si può stare in due, il cane si sposta un po’ o lo si tiene in braccio e anche se lo spazio non è molto è sufficiente per dirsi quello che è rimasto da dire, ora, perché le parole non hanno bisogno di spazio ma di tempo e quel tempo è adesso. Allora invita accanto a lei un uomo dal profumo buono e le mani forti e gli dice che adesso ha capito quella canzone che lui le cantava serio “ma che cos’hai, ma cosa non ho, solo le stesse parole che io ancor non ti ho detto, comunque vada comunque sia io non ti perdo, sei qui con me, noi, ma io ho te, è solo un timido pretesto”, adesso ha capito cos’è un timido pretesto lei che rideva di quell’aggettivo fuori contesto perché a diciotto anni i pretesti sono inutili e non timidi e gli dice va tutto bene, sai, non sono cambiata ma solo invecchiata. Allora invita accanto a lei un bimbo di tre anni e gli legge un libro e un altro e un altro ma lui si muove e sale e scende e non sta fermo e lei ringrazia e ringrazia e ringrazia e ogni salto che lui salta lei ringrazia e ogni calcio che lui calcia lei ringrazia e ogni parola che lui parla lei ringrazia perché ha avuto paura che non succedesse più e ha chiuso gli occhi per tante notti senza dormire e ha espresso un solo desiderio così tante volte da pensare di non poter più chiedere nulla per il resto della sua vita e adesso il bimbo scende e corre e allora lei fa sedere un uomo che le somiglia, tutti hanno sempre detto così ma non sa più se è vero o se lo sia mai stato e aspetta che lui parli ma lui non parla e lei nemmeno, lui la guarda offeso e con disapprovazione ma lei non ci casca più e allora gli dice puoi andare, sai, non ho voglia di essere rimproverata, lui non capisce nemmeno questa volta ma lei sa che non può farci nulla. Allora sorride e fa solo un cenno a lei che si siede e le dice Soniè, qua stai? Sì, Marè, qui sto, le risponde. E guardano nella stessa direzione come facevano a sedici anni, senza grandi cose da aggiungere perché tra loro è sempre stato il tempo delle parole, è lo spazio insieme che è mancato un po’ ma la vita fa cose strane. E poi tocca a Lui sedersi accanto alla Signora senza Sogni. Lui le ha insegnato che l’amore è solo quello ricambiato, lei per sicurezza ha sempre con sé pezzi di ricambio per aggiustare quel che si rompe, se si rompe, quando si rompe. Lui le tiene la mano, senza fare domande e senza dare spiegazioni, senza stringere troppo, senza fretta, senza censure, senza fine.

Tormentoni (Lo sai che non mi va)

È un’estate senza tormentoni, questa, tutte le canzoni mi sembrano già ascoltate anche quelle che dovrebbero essere nuove  e tutte le parole mi sembrano già dette anche quelle che riporto sul quadernetto delle parole nuove. I tormenti, quelli sempre. Ma non sono nuovi neppure loro. Li metto e li tolgo dalla valigia, alcuni ben piegati tanto so che li userò di meno, altri appallottolati a riempire spazi che altrimenti resterebbero non solo vuoti ma sprecati. Li ho tirati fuori soprattutto al mare, è un’abitudine consolidata. Ho letto che esiste nel mezzo di non so quale oceano un’isola costituita interamente di plastica e ho pensato che potrebbe esisterne una simile ma nata dalla stratificazione dei tormenti che quelli come me negli anni hanno provato a gettare nel mare. Quelli come me.

Quelli come me il mare lo guardano, ci entrano fino alle spalle e poi basta. Non è paura semplicemente non possono più.  Quelli come me hanno le orecchie che non possono bagnarsi mai, pena dolori ingestibili. Quelli come me hanno acufeni che non sono sibili o fischi  ma sciacquoni del cesso che perdono incessantemente come sottofondo alle azioni quotidiane. Quelli come me lanciano i tormenti nel mare e lo sanno che non li disperderanno, il mare li restituirà un po’ levigati e potranno immaginare di maneggiare smeraldi e non cocci di vetro. Quelli come me non raccolgono conchiglie per sentirci il rumore del mare dentro perchè come dice  mia figlia, la piccola, siamo noi le conchiglie con le onde nelle orecchie. Quelli come me hanno figli poeti che trasformano acque di scarico in flutti.

Il solo tormentone che mi risuona è ancora e sempre “l’estate sta finendo, un anno se ne va, sto diventando grande lo sai che non mi va”, inizio a canticchiarla a luglio perché sono una che arriva sempre in anticipo. La fine dell’estate coincide con il mio compleanno, alla fine di ogni estate io divento davvero più grande e ormai mi va come non mi va,  non importa più. Quando ero piccola volevo diventare grande. C’era anche un film: un ragazzino desiderava diventare adulto e non ricordo come o perché ma una mattina si sveglia ed era grande, all’improvviso. Ecco, a me sarebbe piaciuto. Ero una bambina che non voleva essere bambina, volevo togliermi di dosso la subordinazione come facevo con il pigiama. Sono stata una bambina diligente, questo è quello che ricordo e questo è quello che riportano le fonti, anche quelle ufficiali, le vecchie pagelle, una bambina silenziosa che raggiunge tutti gli obiettivi prefissati da altri, una bambina che legge moltissimo non per piacere, quello è arrivato dopo come arriva il piacere nella vita, sempre dopo, ma per estraniarsi, per non esserci pur non potendo andare via. L’assalto alla diligenza c’è stato con l’adolescenza, ma quella roba degli obiettivi prefissati da altri galleggia ancora lì, è diventato uno schema, dice la Dottoressa Elle. Appena qualcuno mi indica un obiettivo  io non fisso il dito che indica, magari, no. Mi fiondo su quello che ci si aspetta che io riporti come un Retriever ben addestrato.  

A metà luglio è morto il nostro Pastore Tedesco. Kimb. Kimb aveva il nome prima di nascere, prima di sapere che avremmo avuto un Pastore Tedesco, prima delle mie figlie. Kimb era Kimb nella mia mente anni prima che andassi a prenderlo un giorno prima del compimento dei 60 giorni, un piccolo orsetto che dormiva sul divano, quando ancora lo chiamavano Rudolph, per l’amor del cielo! Era Kimb. Aveva un orecchio moscio che non si è mai tirato su ed era il solo della sua cucciolata a pelo lungo, diverso da tutti i suoi fratelli anche nella stazza, era grande, il più grande tra tutti. Era Kimb, la crasi tra i due soprannomi che usiamo per chiamarci io e Lui. Era Kimb, il cane più buono del mondo, quello che mio padre mi consigliò di dare via perché mordace lo stesso giorno in cui il veterinario mi fece i complimenti perché oltre ad essere bellissimo era straordinariamente bravo. “Ascolta tuo padre, farà male alle bambine” . Io le frasi che iniziano con ascolta non mi sforzo nemmeno di sentirle, ormai, mi sembrano preludio a quelle cantilene ecclesiastiche, le invocazioni guidate durante un’elegia funebre. Alle mie bambine il male è arrivato sempre e solo dalle persone, mai dagli animali e infatti quelle abbiamo dato via. Kimb è morto a dodici anni sei mesi e un giorno, alle 20 di un venerdì sera, mentre mangiavamo sushi a casa, sdraiato al suo posto tra la sedia di Pepe che è sempre stata il suo grande amore e quella di Lui che è sempre stato il suo riferimento. Ha lanciato un urlo, rovesciato gli occhi e perso un po’ di urina. Basta. Lui ha cercato di fare qualcosa ma non c’era niente da fare perché non è che la morte arriva e puoi fare qualcosa, la morte porta via e non puoi fare niente. “non c’è più” gli sussurravo mentre gli scuoteva il muso. Pepe ha detto “non è vero, Kimb ci sarà per sempre”. Lo abbiamo vegliato per circa un’ora in attesa che venissero a prenderlo, gli abbiamo chiuso gli occhi e composto la bocca, lo abbiamo ringraziato, gli ho chiesto di salutare i cani con cui avevo condiviso pezzi di vita prima di lui, gli ho detto che nessuno sarebbe mai stato come lui. Lo hanno portato via ed è come se ci avessero svaligiato casa. Ho capito perché si dice “lanciare un urlo”: perché qualcuno viene colpito e ferito.

Io e il cagnetto ci ammazziamo di passeggiate. Al mare abbiamo percorso chilometri pisciando ogni cespuglio e annusando quanti più culi sconosciuti possibili, lui. Io ho percorso gli stessi chilometri limitandomi a chiedere “è maschio?” . Mia figlia sostiene che quella sia la frase che il cagnetto mi sente pronunciare di più, dividiamo il mondo canino non tra buoni e cattivi ma tra maschi e femmine, con i maschi litighiamo e con le femmine soccombiamo. Io e il cagnetto parliamo al plurale. Quando non siamo in giro con valigie cariche di tormenti andiamo nel giardino vicino alla casa dove vivevano i miei nonni, pochi minuti da casa mia. Ci andavo quando ero bambina, con mia cugina più grande. Nonna si affacciava ogni tanto, quando si ricordava che eravamo lì, penso, più per farci vedere che ogni tanto avrebbe controllato che per controllarci davvero. Noi sapevamo che si sarebbe affacciata prima o poi, ce lo aspettavamo. Ogni tanto mi siedo su una panchina e fisso la finestra del loro salone o quella della camera da letto, ripercorro la casa, i velux della mansarda da questo lato sono quelli sopra il divano sul quale guardavamo la televisione noi nipoti, dall’altra parte, quella che da qui non si vede, la camera dei miei zii. Il cagnetto si muove quel tanto che il guinzaglio consente, ogni tanto mi guarda ma finché sono seduta con lo sguardo fisso sa che non faremo niente di particolare, sa che aspetteremo un po’ un segno che non arriverà, poi ci alzeremo e continueremo la passeggiata, schivando i maschi come si fa con certi pensieri.

Ho rivisto mio fratello e mio nipote dopo sette mesi, la maggior parte dei quali passata pensando che non so se li avrei rivisti. Mesi nei quali ho imparato a non giustificarmi per le emozioni che provavo, mesi nei quali mi sono chiusa a chiave in stanze inaccessibili e dalle quali adesso fatico a uscire. C’erano regali sul pavimento tutti da scartare, un tripudio di carta scricchiolante e plastica di imballaggi, libri e strumenti musicali, pongo, palle e mazze da golf, c’era la pasta verde e il piatto a capotavola, la pipì fatta in piedi nel water , zia vieni a vedere. C’era un libro sulla gioia e c’era un momento in cui siamo rimasti soli e allora abbiamo letto il libro sula gioia non per estraniarci me per essere lì insieme a leggere una storia in cui Topolino è felice quando vede i fiori e Minnie è felice quando vede la neve e Pluto è felice quando spunta l’arcobaleno e Paperina è felice quando sta con gli amici e allora anch’io ho detto che sono felice quando Geppetto è con zia e gli ho chiesto quando sei felice tu? E c’era Geppetto che ha risposto “io sono felice quando sono felice”. Perché la felicità è cannibale.

C’era una festa senza torta e senza striscioni, senza invitati, c’era una festa e ho aperto tutte le stanze perché prendessero aria e luce, c’era qualche goccia di pioggia che alla fine non so mai se son lacrime con questa cosa che faccio sempre di tirare su la faccia, verso il cielo, appena cambia il vento e proteggo le orecchie ma il viso mai, lascio che si bagni e si asciughi e si stropicci che un anno se ne va, c’era un segno che questa volta è arrivato e un tormento trasformato in smeraldo, questa volta per davvero.   

Precis(e)azioni

La grande si è addormentata nel mio letto, questa mattina, quando io mi stavo alzando lei è arrivata in punta di piedi sulle sue gambe lunghissime, si è sdraiata al posto di suo padre e ha tirato su il lenzuolo lasciando scoperto un braccio, buttandomelo addosso in quel modo che significa che devo accarezzarlo, farle il solletico ma il solletico dolce, a sfioro con i polpastrelli, una lunga coccola per un lungo braccio. È tutta lunga questa bambina mia che non è più bambina, che sta male di notte e non si prende la briga di chiamarmi, di chiedere aiuto, si arrangia da sé e poi arriva da me, perché un conto è arrangiarsi e uno è aggiustarsi e io a questo servo, ad aggiustarla. Con i polpastrelli, a sfioro. È tutto un muoversi a sfioro ormai, un chiedere lieve, un entrare bussando, un affermare senza punti esclamativi. Avere quindici anni è più faticoso che avere quindici mesi, i denti che bucano le gengive sembrano niente al confronto di tutto quel che cresce e taglia e spunta e ferisce adesso. Il senso di impotenza, mio, invece è lo stesso e ora come allora la stringo quando è tra il sonno e la veglia e le dico l’amore direttamente nell’orecchio, un sussurro lieve che le arriva così, a sfioro e le concede un sorriso appena accennato.

Abbiamo fatto un lungo viaggio, per tornare a casa e per essere qui così come siamo. Sarà stata l’aria condizionata, le ho detto, gli sbalzi di temperatura, il mangiare un po’ disordinato. Il pensiero di tornare. Sarà stato il condizionamento che provo ad evitare, ho pensato, i miei sbalzi d’umore, il suo disordine che ingoio per non litigare.

La piccola mi tocca sempre, non riesce a starmi accanto senza allungare la mano su una qualche mia parte: il collo, i capelli, una gamba, la spalla. Mi guarda, mi tocca, a volte mi morde persino. Cosa fai, le chiedo spazientita, ti pare che si morde. È per assaggiarti. Non sono buona, sì che lo sei. E non toccarmi sempre, lo sai che non mi piace.  Non riesco, confessa, devo toccarti, anche poco, anche solo la mano. “La parte per il tutto” diceva la mia professoressa di Italiano al ginnasio.  Ci sono molti giorni nei quali vorrei un esonero, chè non basta più la giustificazione. Vorrei proprio allegare un certificato medico che mi dispensi dall’attività per un lungo periodo e non la giustificazione per indisposizione. Vorrei un esonero per indisponibilità. Un documento che accerti che non posso più rendermi disponibile a tutto questo amare ed essere amata, toccare ed essere toccata, lo produrrei bella tronfia a chi pensa che sono una brutta stronza, lo sbatterei sul muso a tutti quelli che sanno come si fa e che lo farebbero meglio di me. Forse non sono molti i giorni, forse sono solo giorni in cui lo desidero molto.

Da qualche settimana nella mia vita è arrivata la Dottoressa Elle. Un’ora alla settimana, senza lettino ma su una sedia, una quasi poltroncina, comoda ma non troppo. La Dottoressa Elle è la nuova addestratrice del Lupo che mi vive dietro lo sterno, una specie di comportamentalista. Ma cognitivista. Non sono tornata dall’Uomo con la Barba perché temevo le minestre riscaldate, avrei passato settimane a raccontargli gli ultimi dieci anni, mi sarei offesa se non avesse ricordato tutto quello che già gli avevo raccontato, sarebbe stato malinconico e il Lupo ci avrebbe sguazzato. La Dottoressa Elle è caruccia. Competente. Mi riceve sulla porta e mi accompagna all’uscita, mi osserva partecipe e mi ascolta attenta, ha un bell’accento dell’Italia centrale che la fa sembrare sempre stupita e lo stupore è stupendo. Penso.  Ecco, da qualche settimana ho iniziato a pensare più a fondo del solito, pensieri verticali, prendo fiato e mi immergo. Al Lupo non piace, non sguazza e teme di annegare.

“Alle nonne importa poco di chi sei”, mi ha detto la grande a ridosso di un incontro che voleva evitare. Si fanno la loro idea e non la cambiano, pensano di conoscerti e se provi a raccontare qualcosa di te tirano in ballo i confronti con gli altri nipoti, confronti inutili e al limite del ridicolo. Può essere, amore mio dalle gambe lunghe. È l’inghippo delle famiglie. Non c’è la cautela e il rispetto che si usa con gli estranei però se ci pensi si nasce estranei, ci va tempo per impararsi, per conoscersi. Abbi pazienza, amore grande dalle braccia lunghe. Sfangati questa cena ogni tanto, lasciale con la loro idea di saperti, le famiglie sono un incrocio strano di persone che si arrogano diritti fino a diventare arroganti. Scegli le persone e crea la tua famiglia diffusa, come certi alberghi, ripari sparsi dove trovare ospitalità.  Fatti scegliere per quello che sei da chi ha voglia di saperti e sii riparo ospitale.

Capita, un giorno, che un amico ti chiami per dirti che suo padre è morto. Questo fanno i padri a un certo punto, questo fanno gli amici subito dopo. Ti chiamano e usano la parola papà. “È morto papà”. Non dicono mio padre, non c’è bisogno del possessivo. Capita allora che te lo ricordi quel papà, nel corridoio del ginnasio, un attimo prima dei colloqui con il professore di greco, con lo sguardo all’orologio per tornare a lavoro. E il giorno della discussione della tesi in Diritto Civile seduto in prima fila, elegante e preparato che ti viene da chiederti se per osmosi devi chiamare anche lui Dottore, alla fine. E il giorno del matrimonio, un attimo dopo il lancio del riso, defilato sul sagrato, stretto a sua moglie, da stasera rimaniamo solo noi, le sussurra, cingendole l’abito blu. Le mamme degli sposi indossano sempre abiti blu. E sorridono accanto al fotografo quando chiamano gli amici di lui per scattare le foto e gioca a riconoscerli, come nella foto di classe portata alla fine dell’anno, le mamme delle spose sono più propositive, più operative, gestiscono direttamente, le mamme degli sposi sono invitate, magari un po’ speciali ma pur sempre invitate. Capita che in un pomeriggio di sole ingiusto porti il tuo saluto a quel papà e abbracci il tuo amico che per mestiere parla, parla molto e sempre e parlava molto e sempre anche prima di quel mestiere e tu lo sai perché sai chi è. Adesso non parla. Si lascia abbracciare, si lascia piangere sulla tua spalla e non parla perché non si può citare in giudizio la morte, non si può presentare una comparsa di costituzione e risposta al cancro che ti ha trascinato in una lite temeraria. Non si può fare. Capita, un giorno, che un amico non parli. Ma tu sei lì lo stesso, lo guardi e vedi quanto gli assomiglia, al suo papà. E pensi a quanto assomigli al tuo.

È che il dolore non è veloce e nemmeno lento. Il dolore è solo dolore. Sai di essere adulto quando sai che proverai dolore. Fino a un certo momento della tua vita il dolore ti coglie di sorpresa, quasi impreparato, fino a un certo momento della tua vita il dolore è postumo, è a consuntivo. Poi un mattino ti alzi e il dolore è preventivo, lo metti tra le voci corrette e spunti la casella. Quello stesso giorno ti aggrappi ai “non”. A tutto quello che non è. A tutto quello che non si verifica, a tutto quello che non è successo. Da quel giorno troverai sollievo in frasi che iniziano con non : non è un tumore, non si è aggravato, non dovrebbero esserci danni. Da quel giorno in poi il condizionale ti sembra certo come l’indicativo. È un piccolo esercizio di fiducia, tra le possibilità offerte dal condizionale accarezzi quelle che preferisci, con i polpastrelli, a sfioro, vuoi raccontarlo ma non sai a chi importerebbe e allora non lo racconti per non passare per mezza matta o tutta matta, lo osservi e basta.

Anche la madre che viaggia sul vostro  treno la osservi a lungo, nove ore sono molte. Alta e cerulea come sono i piemontesi rimasti tali, con il pallore dell’incarnato e i capelli spenti, la bocca come una riga sottile tracciata da un bambino in un disegno venuto male. Il marito sembra suo fratello tanto si somigliano. A vederli erano compagni di Facoltà, entrambi studenti brillanti. Sportivi, sciano e nuotano, forse giochicchiano a tennis. Hanno la casa di famiglia a Bardonecchia. E a Noli. Sono quasi certamente figli unici. Lui ha portato l’apparecchio ai denti da bambino ma veniva preso in giro per le orecchie a sventola, entrambi indossano gli occhiali con montature inconsistenti.  Dopo cinque o sei anni di fidanzamento e conseguimento delle abilitazioni professionali hanno convissuto per un anno. Poi si sono sposati. La cerimonia religiosa, non sono praticanti e forse nemmeno credenti però le nonne sì. La wedding planner è stata suggerita dalla cugina di lei e per prima cosa ha voluto capire le loro esigenze, seduta davanti a un gin tonic con una sigaretta Iqos. È andato tutto per il meglio, la cugina di lei aveva ragione, l’organizzazione è stata impeccabile, la richiameranno per il baby shower. Il parto in clinica, un cesareo programmato perché lei ha paura di soffrire, la sua socia di studio è stata ventiquattro ore in sala parto, l’hanno ricucita tutta e ha pisciato solo sotto il getto della doccia per sei mesi dopo la nascita del bambino.

Eccolo il bambino ceruleo, assomiglia a entrambi, era facilmente immaginabile. Non possono fare il gioco dell’eredità senza de cuius, il gioco perverso che ogni genitore e ogni nonno compie: il naso ereditato da uno, gli occhi ereditati dall’altro, la parte superiore del viso, dal naso in giù, la bocca. Ho visto visi sezionati e mostruosamente ricomposti dopo essere stati attribuiti a una o all’altra parte. Quando è nata Cristina qualcuno è arrivato a sostenere che le unghie fossero uguali a quelle della nonna del padre, la sola morta. Quando è nata Cristina era tutta uguale a suo padre, bastava questo. Quando è nata Pepe nessuno ha sostenuto niente perché era tutta uguale al mio di padre. Tutto questo prendere in eredità il più delle volte senza il morto mi immalinconisce un po’.  Il bambino ceruleo ha iniziato a piangere a Lecce e ha smesso a Torino Porta Susa per quel che mi riguarda perché lì sono scesa, ma avrà proseguito fino a Torino Porta Nuova e poi fino a casa sua.  Il bambino ceruleo piangeva e sua madre era in imbarazzo. Poi in difficoltà. Poi in agitazione.  Poi ha ceduto allo sconforto. È passata attraverso la rabbia, l’ha avvolto nella fascia sull’addome e ha percorso chilometri dentro i chilometri percorsi dal treno, si è alternata con il marito, ha aperto vasetti, riempito biberon, smosso sonaglini, ha dondolato su se stessa, ha intonato canzoncine.  È stata un’ora davanti al bagno, nello spazio tra un vagone e l’altro, senza aria condizionata per non disturbare gli altri viaggiatori, quelli che per nove ore hanno parlato al telefono di tutti i cazzi loro a voce alta senza pensare che, forse, poteva recare disturbo, imperterriti nel raccontare la banalità delle loro vite consequenziali, dove il nesso causale e a vista come la polvere sui mobili, senza mai il brivido di un salto logico, di un tuffo in un pensiero che non si sa, che non si conosce come le persone, come i nipoti.

Ho guardato Lui, che stava leggendo assolutamente impermeabile al pianto del bambino ceruleo non essendo nostro, e gli ho chiesto se, davvero, era stato così difficile anche per noi. Siamo in quella fase, osserviamo e non ci ricordiamo più. Forse abbiamo rimosso come si fa con certi traumi, penso io quando penso verticalmente e vado giù, giù,giù. No, mi ha risposto, non è stato difficile ma nemmeno facile. È stato. Ci siamo riusciti, ci riusciranno anche loro. Anche lei? Ha stretto il bambino ceruleo e gli ha sussurrato adesso basta, tu vuoi farmi impazzire. Bisognava abbracciarla in quel momento. Bisognava alzarsi, percorrere i metri di corridoio che ci separavano e abbracciarla e accoglierla nel club delle madri sbagliate, quelle che le hanno buttate in un branco di madri perfette e sono state espulse perché nuotavano controcorrente e a dorso per non preoccuparsi di dover anche respirare. Bisognava darle il benvenuto tra le madri che premettono. Ci sono madri che promettono e poi ci sono le madri che premettono. Quelle che iniziano ogni discorso premettendo che amano i propri figli, come se nessuno se l’aspettasse, proprio da loro, tanta capacità. Quelle che premettono che li amano davvero i propri figli, come se fosse il giusto bilanciamento a quel che segue, al desiderio di fuggire. Alla richiesta di esonero che a un certo punto vorresti inoltrare. Bisognava rassicurarla e nessuno l’ha fatto. Nessuno le ha detto che non impazzirà. Non del tutto. Nessuno le ha detto che tutto si aggiusta, che basta sfiorare.      

  

Non sono brava

Ridendo e scherzando è giugno, dice la ragazza del bar. Ragazza. Potrebbe avere dai 25 ai 45 anni non lo so, io non sono brava a dare l’età come non sono brava a risolvere i rebus o i cruciverba crittografati, come non sono brava a fare la pasta frolla perché mi dà fastidio maneggiare il burro, come non sono brava a inventare i parcheggi. Lui è bravo a inventare i parcheggi. Anche mio padre è bravo a inventare i parcheggi. Io no, io devo avercelo lì bello grande, comodo, come entro così esco e non importa quale sia la mia auto, piccola o grande, il parcheggio per me è taglia unica e non lo invento. In ogni caso la barista è una ragazza, che ne abbia 25 o 45. In ogni caso non mi interessa. Come non mi interessano i rebus o i cruciverba crittografati. In ogni caso ho riso molto poco e scherzato ancora meno vorrei dirle, ma non servirebbe. Come le bustine dello zucchero, ti ho detto no, che non mi servono, lo prendo amaro. Ah, come la vita risponde lei. Che cazzo dici vorrei dirle ma non servirebbe. Sorrido. Come certi rettili. No, amaro come il caffè senza l’aggiunta di qualcosa che gli cambi il sapore. In ogni caso non è ancora giugno, manca qualche ora, precisazione inutile soprattutto fatta da me che sono campionessa di precisazioni ma anche di arrotondamenti. Come tutti quelli nati dopo l’estate, penso. Io ho gli anni che ho solo per tre o quattro mesi , poi scatta l’anno nuovo e io ragiono per competenza, come i commercialisti. Da ragazzina arrotondavo, durante l’estate, quando il ragazzo che avevo puntato mi chiedeva l’età scavallavo di un paio di mesi e arrotondavo, siamo a luglio, ti dico sedici che ti frega poi se li compio a settembre? Ormai è fatta, luglio o settembre non fa differenza. Siamo a giugno, ripeto alla barista. Il tuo caffè è una merda imbevibile ragazza senza età con tutte le età del mondo addosso, da quanti anni fai questo lavoro e perché ancora non sei capace di farlo? Siamo a giugno e a Torino è tornato l’autunno tranne che per i colori, c’è troppo verde, si capisce che qualcosa non è a posto: o il cielo o le chiome degli alberi.  Nemmeno io sono a posto. Sono al mio posto, sì, quello sì.  Come un militare di leva nella garitta. Ma a posto no.

Per me è febbraio. Sono ferma su un treno, sto tornando da Firenze a Torino. Ho sbagliato nella prenotazione dei posti e così le mie ragazze viaggiano sedute nei sedili davanti al mio, ne intravedo i movimenti delle teste mentre parlano avvicinandosi per non essere sentite da altri. Gli altri siamo noi: io e il padre.  Ho gli occhi sul cellulare che mi rimanda parole scritte da lontano a cui dare un senso che mi fa senso, un senso che non voglio sentire, parole a cui restituisco un significato diverso io che con le parole ci parlo anche quando sto zitta per giorni, io che le parole le invento se non le trovo comode, guardo fuori dal finestrino potrei essere ovunque nel segmento che unisce Firenze a Torino, sono un puntino su una linea, come una macchia di cui non si capisce l’origine e la destinazione, la risonanza è questo rumore nel centro del mio petto potrebbe essere il cuore impazzito che uno pensa si impazzisce con la testa e io penso che se si è fortunati si impazzisce con la testa altrimenti si impazzisce con il cuore. E il contrasto è la vita che scorre dentro il treno che uno pensa che sia il treno a scorrere e sì, bravo, penso, e quello che c’è dentro il treno? Quello non conta? Il controllore o capotreno o come cazzo si chiama con il cappello sotto il braccio in una posa così antica mentre scansiona il codice della prenotazione, si è accorto che ho sbagliato, si vede che dovevo prendere i posti da quattro e invece ne ho presi due e due? Quelli che salgono e trovano il posto occupato e discutono. C’è un posto libero accanto, non ti intestardire vorrei dire, a cosa ti serve? Guarda, te lo dico io che sono campionessa di precisazioni eppure, vedi, ho sbagliato la prenotazione e le mie figlie viaggiano sedute davanti a me e guarda tu che botta di culo mentre a me scoppia il cuore che loro non lo vedano, che loro non se ne accorgano così io posso prendere un po’ di tempo, quello si fa con i figli, sai, si prende tempo e sai da dove si prende? Ti risulta ci sia un negozio, uno spaccio, un centro dove andare a prenderlo? No. Non c’è. Si prende dal tuo. Facile. Prendi tempo dal tuo tempo. Quindi, davvero vuoi dedicare tempo alla discussione di un posto occupato? Siediti dove trovi posto, ascolta. Nella vita, davvero, fidati. Magari è la tua botta di culo e non lo sai. Per me è febbraio e so che non riderò e non scherzerò più. Alzo lo sguardo dal cellulare e vedo Lui che mi guarda. Lo sapevo. Io lo so sempre quando mi guarda perché lo sento come se mi toccasse. Il contrasto è la mia paura riflessa nel suo sguardo. Ha capito che sarà febbraio per molto tempo, che non scenderò per davvero da quel treno nemmeno quando saremo arrivati, nemmeno quando torneremo a casa nostra e scaricheremo i trolley e il salotto ci sembrerà bellissimo e il giardino pieno di erbacce già dopo pochi giorni.

Il tempo non si può prendere all’infinito. Arriva un momento nel quale si devono dare informazioni, arriva il momento in cui serve un adulto responsabile e quell’adulto responsabile sei tu. Sono io.  Io non sono brava a essere un adulto responsabile, come per la pasta frolla. Non mi piace maneggiare le aspettative degli altri perché mi lasciano addosso la mollezza del burro. Guardo le mie ragazze e dico loro: prestatemi attenzione. Si dice così perché poi va restituita, è un prestito, ok? Allora prestatemi attenzione. Io porto pazienza, quella che ho, non molta, la porto e forse me la porto via, se ne avanza o forse ve la lascio, non lo so, lo stabiliamo dopo. Voi prestate attenzione, io poi ve le restituirò, prometto. Io sono campionessa di promesse mantenute, lo sapete. Sono stanca, così stanca da essere stufa, così stufa da stare qui come una stube nel centro della stanza dove la famiglia si riunisce, così stufa da pensare di esplodere e lasciare macerie dopo la deflagrazione, così stufa da continuare comunque a scaldare perché è quello che ci si aspetta da una stube. Continuerò a farlo sbuffando più del solito perché adesso il solito non è più solito, perché sarà febbraio anche a giugno quest’anno, perché lo dico io e basta come quella volta che avevate tre e cinque anni e all’uscita dall’asilo vi colava il naso, a ridosso del fine settimana che sapevo già condannato a casa a fluidificare il muco e vi ho detto che forse eravate vestite in modo troppo leggero e mi avete risposto che dovevo pensarci io, perché sono io la mamma, dovevo dirlo io quella mattina che non andava bene il vostro abbigliamento. Sei tu la mamma- ha detto la grande- sei tu la mamma ha ripetuto la piccola- sei tu la mamma- ha ridetto la grande saltellando- sei tu la mamma le ha fatto eco la piccola saltellando-, sono io la mamma di queste scimmie- ho piroettato io sul marciapiede davanti all’auto ben parcheggiata. Quando vi sembrerà tutto assurdo sedetevi davanti a me senza girarvi, lasciatemi prendere tempo.

Le cose stanno così, sono ferma su un treno che nel frattempo si è fermato in un punto non precisato lungo un segmento che non so calcolare. Non sono brava con la geometria, lo sono di più con le definizioni ma poi quando si tratta di applicare le regole mi annoio. Come non sono brava con le attese nonostante mi sforzi da anni, nonostante ultimamente la vita, pare, mi stia facendo fare solo quello. Non sono brava con la vita, a viverla intendo. Me ne tiro indietro, mi siedo dietro e osservo, mi piacciono quelli che salgono a passo veloce e sicuro, quelli che hanno subito trovato il vagone e il posto libero, quelli a cui non devi dire che va bene lo stesso, mi piacciono ma non so essere come loro e non vorrei nemmeno. Sono ferma su un treno, ci sono salita adulta e adesso mi ci ritrovo un po’ più piccola, ogni giorno un po’ di più. Mi guardo intorno per vedere se ci sono mamma e papà, i miei. Mi giro e non sono seduti dietro. Ogni giorno un po’ di più, dimentico l’adulta ma piango come piangono gli adulti, contratta, arricciata, nascosta. Ogni giorno un po’ di più mi aspetto che nessuno scenda, che nessuno salga, che niente cambi. Sono ferma su un treno, ci sono salita da adulta e adesso mi basterebbe incrociare lo sguardo di mio fratello, dirgli siediti qui, ti cedo il posto vicino al finestrino, possiamo muovere le teste, i tuoi riccioli appoggiati ai miei lisci, vieni qui, guarda fuori oppure se vuoi appoggia la testa qui sulla mia spalla e addormentati, ti avviso quando ripartiamo che siamo ancora lontani, che non dobbiamo ancora salvare nessuno.  Ma lui non c’è, perché è un adulto adesso, ogni giorno un po’ di più, dimentica il bambino che allungava i piedi sulle mie gambe per stare comodo durante un viaggio, perché da adulti certi viaggi si fanno scomodi e da soli. Le cose stanno così, sul treno resta ferma la bambina, l’adulta deve scendere e tutto quello che può fare e aiutare la piccola a fare altrettanto quando sarà il momento.

Sono io la mamma e voi siete le figlie solo che i figli sono come i princìpi, poi devi difenderli sempre e non puoi cambiarli, non puoi non crederci più. Io non sono brava con i princìpi, ne ho una manciata e mi interessano poco. Sono più brava con i finali possibilmente troncati e con poche speranze, che anche quelle sono faticose, dopo una certa età soprattutto. Ma quel fenomeno di personaggio che nelle settimane scorse ha tirato su quella lezione magistrale sulle donne dopo “gli anta” lo sa? Lo sa che dopo gli anta anche le fatiche le scegli, le selezioni e le abbini? Cerchi quelle che ti valorizzano, mica ti infili più in qualunque fatica solo perché di moda. Sono io la mamma, ho passato gli anta ormai senza arrotondare, sono nell’età di mezzo, combatto la cedevolezza dei muscoli e assecondo la cedevolezza del cuore io che mai si sarebbe detto e invece sono una donna di mezza età nell’età di mezzo e nel mezzo in genere ci si perde e ci si confonde e infatti così è e mi dispiace per chi passa da queste parti, per questo febbraio perenne che incombe, per la bambina sul treno a cui fare da madre, sono io la mamma anche per lei, per il mio farneticare dalla cucina di bambini che diventano adolescenti, di tutto quello di cui non parliamo quando parliamo d’amore, di tutto quello di cui non parliamo quando parliamo di figli. Mi dispiace per chi l’ha chiamato giro di boa, descrivendolo come età dell’oro: donne che hanno fatto il giro di boa. Ma lo sanno che dopo il giro di boa torni indietro più lenta e appesantita e soprattutto non sei più nella corsia da dove eri partita? Lo sanno che dopo il giro di boa te la fai tutta nella corsia di salvamento come un Terranova che deve recuperare quante più persone possibili? Sono io la mamma e voi siete le figlie e quando vi sembrerò assurda sedetevi davanti a me senza girarvi e iniziate a prendere tempo. Il vostro.

E’ andata così

Il 16/05/1982 avevo tre anni e otto mesi meno un giorno. Infatti, come negli anni precedenti, il mio compleanno è stato il 17 settembre di quello stesso anno. Questo aspetto dei tre anni e otto mesi meno un giorno è importante, tenetelo a mente. Il 16/05/1982 era una domenica, potete controllare oppure fidatevi, è così. Era domenica e faceva caldo. Quella domenica io ho mangiato, senza finire la porzione che avevo nel piatto e non sporcando la camicia con bretelle che indossavo graziosa, le lasagne altrimenti dette pasta al forno seduta al tavolo di una cucina in un alloggio in via Italo Pizzi a Torino. Durante il pranzo la padrona di casa, la zia di mio padre, si è alzata per andare a rispondere al telefono che era posto sul mobile dell’ingresso, altrimenti detto corridoio. Al telefono era suo nipote, mio padre, che annunciava quel che andava annunciato. Non ricordo mia nonna, la sua reazione ma la immagino facilmente: finti svenimenti e pianti inutili e poi la domanda, stupida, rivolta al figlio al telefono “hai mangiato?”. Non ricordo mio nonno, la sua reazione ma la immagino facilmente: sorriso enorme, aria compiaciuta come se, in fondo, fosse merito suo e speranza, ancora non disillusa, che quella ragazza ossuta e riccia cedesse all’importanza del nome da attribuire. Non ricordo la reazione di mia zia, sorella di mio padre, incinta del primo figlio e prossima al termine della gravidanza ma la immagino facilmente: tacitare suo marito che infieriva sulla suocera, mia nonna, per la storia dei finti svenimenti e dei pianti inutili. Ricordo che ero seduta tranquilla in mezzo alla confusione quando mi hanno detto “è maschio, hai un fratellino. Sei contenta?”. Ricordo di aver detto no, che non ero contenta. Volevo una sorellina che si sarebbe chiamata Silvia, nome che non mi piaceva. Anzi, forse non volevo niente. Anche questo è un aspetto importante, tenetelo a mente.

Il 16/05/1982 al nono piano di un alloggio in via San Marino 69, a Torino, nella camera da letto dei miei genitori, sotto la supervisione di un’anziana ostetrica miope e di mia nonna materna è nato mio fratello. Con almeno tre settimane di anticipo sul termine, ricoperto di una patina gelatinosa, la camicia, tipica dei prematuri pare. Con la bocca rossa e tantissimi capelli. La teogonia, narrata oralmente sino a questo mio tentativo odierno, riporta che la nascita pretermine sia dovuta all’ingenuità materna che il giorno precedente aveva indotto la gravida a lavare la trapunta matrimoniale nella vasca da bagno e, resasi conto del fatto che l’attività così faticosa non era adatta alla sua condizione, per non farsi rimproverare dal marito aveva pensato bene di sollevare la trapunta bagnata e stenderla, senza preoccuparsi di fornire spiegazioni sul come una trapunta matrimoniale bagnata potesse arrivare da sola dalla vasca ai fili sulla stessa penzolanti. E così, sulle lenzuola appena cambiate è arrivato nel mio mondo Diego, 3,5 kg per 52 o 53 cm, sorprendendo tutti per il fatto di essere maschio e per il fatto di avere capelli perché, sempre secondo la teogonia ufficiale, mai nessun bambino aveva osato nascere con i capelli nella famiglia materna e soprattutto mai nessuno aveva pensato che un bambino che nasce ha anche una famiglia paterna alla quale rendere conto, famiglia paterna nella quale sono nati tutti con i capelli, circostanza appurata solo quel giorno.

Le fonti riportano la gioia incontenibile della nonna materna, che dopo tre nipoti femmine e un solo maschio vedeva avanzare la squadra per la quale ha fatto apertamente il tifo per decenni, salvo ricredersi un attimo prima di soccombere alla dimenticanza di tutto e tutti, rivalutando la squadra delle femmine ma solo perché figlie delle sue figlie, in aperto spernacchio ai figli dei figli, che pagano lo scotto di essere, soprattutto, figli delle nuore. All’urlo di “è maschio, è maschio” declinato in dialetto era uscita dalla camera adibita a sala parto per comunicare a mio padre, serissima:” è femmina”. A mio padre, pare, importava molto poco, c’era solo l’incombenza del fiocco nascita, insomma, azzurro o rosa, quello bisognava chiarire, perchè la precisione viene prima di tutto. E poi la vicenda pruriginosa del nome, ma tanto sapeva che non c’era possibilità, avrebbe dovuto dire a suo padre che no, il nipote non avrebbe avuto il suo nome. Oppure poteva fare finta di niente, non dare spiegazioni e mettere tutti di fronte al fatto compiuto di un nome diverso. Come ogni figlio maschio che si rispetti, incapace di sostenere un contraddittorio con sguardo di disapprovazione genitoriale nonostante l’età adulta, mio padre percorse questa seconda strada. Il fiocco azzurro apposto sul portone del condominio recitava la mia felicità nell’annunciare al quartiere Santa Rita la nascita del fratellino che per gli anni successivi avrebbe dovuto dire che no, non si chiamava come Maradona per questioni calcistiche. Come Zorro, diceva la mamma.

Comunque, non ero felice. La teogonia ufficiale, a questo punto, si concentra su questo aspetto e narra che la prima domanda rivolta da parte mia alla puerpera ancora sdraiata nel letto con una lunga treccia poggiata sulla spalla destra sia stata “adesso puoi prendermi di nuovo in braccio?”. Questo non lo ricordo, quindi non posso certificarlo. Come non ricordo che proprio l’evento nascita abbia scatenato un peggioramento della mia balbuzie. Come non ricordo di aver chiesto nei mesi precedenti alla gravidanza di avere un fratellino, proprio un fratellino, e di averlo quindi suggerito e voluto e di essere stata, perciò, accontentata e di dover, persino, ringraziare quindi. Come non ricordo di aver specificato che il fratellino lo volevo ma con un altro papà, per non dover dividere il mio che tra i tanti meriti che aveva quello era il più importante, il fatto di essere tutto mio. Qui diventa importante la questione dei tre anni e otto mesi meno un giorno. Perché il fratellino è stato pianificato a tavolino, spero concepito non sullo stesso tavolino, ma comunque tre erano le certezze granitiche di mia madre dopo la prima esperienza di maternità, cioè io, e queste certezze erano: partorire entro il primo semestre dell’anno perché un’altra estate incinta nemmeno morta/non partorire mai più in un ospedale asettico correndo il rischio di fare il travaglio accanto a una donna che deve partorire un feto morto e che ci tiene a dirtelo durante una tua contrazione/ aspettare che la bambina (cioè io) abbia almeno tre anni così è alla scuola materna il che significa buon livello di autonomia e giornate dedicate al neonato sino alle 16.30 almeno. Eccolo qui, otto mesi dopo il mio terzo compleanno, nato in anticipo, con il suo inspiegabile carico di capelli, la dimostrazione vivente della capacità procreativa, della facilità a concepire, delle fertilità, della fecondità delle donne della famiglia, quella peculiarità sintetizzata dall’espressione secondo la quale mia nonna, mia madre e mia zia rimangono incinte con lo sputo.

Nel mio piccolo confermo la caratteristica insita nel dna mitocondriale, ma avendo avuto un aborto e una partenza stentata delle gravidanze terminate in parti  d’urgenza non rientro completamente nel gotha di quelle che figliano senza accorgersene, circostanza che mia madre sottolinea con un discorso al plurale, retaggio della professione di maestra, per cui sostiene che noi donne di oggi (ormai quasi di ieri anche noi, ma poi noi chi?) facciamo fatica a partorire naturalmente, a portare a termine una gravidanza. Loro, dopo lo sputo fecondante, non c’era pericolo che non portassero a termine la missione, naturale, per la quale siamo (ma siamo chi?) fisicamente progettate. Fa così lei, parla al plurale come quando metteva la nota di classe.

Il 16/05/1982 non avevo nemmeno quattro anni e già portavo gli occhiali, avevo un occhio pigro e storto, l’altro dominante e arrabbiato perché doveva fare tutto da solo. Seduta sul sedile anteriore di un’automobile che non so, in braccio alla zia di mio padre, mi hanno portata a casa mia e mi hanno fatta salire su uno sgabello nero per farmi vedere il contenuto della carrozzina. Un neonato del quale mi hanno detto che si chiamava fratellino. Il giorno dopo, all’asilo, ho disegnato male la scena e sul retro del foglio, ho scritto bene “è nato il mio fratellino”. Sapevo per certo di non averlo chiesto, di non averlo desiderato. Della gravidanza di mia madre ricordo solo una scena, lei con una camicia da notte stretta sulla pancia davanti a me, io in piedi in camera loro, pronta per andare in camera mia a dormire, lei che mi mostra un bozzetto, uno gnocco che si muove dentro la pancia, è un piede del fratellino o della sorellina, mi dice. Tocca, mi invita. Mi fa senso solo l’idea ma pare sia importante e allora poggio l’indice sul rigonfiamento e quello si sposta. Vorrei togliere il dito ma non posso, allora seguo il piede del fratellino o della sorellina. Quando venticinque anni dopo ho visto il primo calcio di Cristina, non sentito ma visto nella pancia che cambia forma, ho pensato a mio fratello.

Perché negli anni, poi, il fratellino è diventato fratello. Questo succede, ai più fortunati e io lo sono stata. Anche lui, va detto. I primi lustri sono stati di assestamento, è vero, ma già il fatto che abbia deciso di nascere sotto il segno del Toro come la maggior parte delle persone che amo (ovviamente non sei tra queste, Orrendo Butterato, ti ho beccato sei di nuovo qui) e non dei Gemelli come la maggior parte delle persone che detesto (scusa mamma, prendila più come una nota di classe, una cosa generale insomma) ha contribuito a rendermelo meno inviso, lui sapeva che sarebbe stata una vita impossibile, altrimenti. E sono passata oltre alla volta in cui ha cercato di strangolarmi con la cintura dell’accappatoio di spugna mentre giocavamo al cavallo, dove io ero il cavallo e la cintura fungeva da redini, lui era il cow-boy e mia madre quando se n’è accorta dalle abrasioni sul mio collo mi ha rimproverata perché non dovevo lasciarglielo fare e lì ho imparato che poco importa se è colpa degli altri se tu li lasci fare.  E nessun rancore nemmeno per i morsi. Per le bambole brutalizzate. Per il cibo mangiato al posto mio. Per i compiti rovinati con la parte indelebile del cancellino della stilografica. Per tutti i conflitti, senza i quali non avremmo avuto gli armistizi. E le alleanze successive. E va bene anche per i giri al pronto soccorso durante i quali annuncio chiaramente che io entro con il ragazzo perché è minorenne e io sono la sorella, scansatevi pure, non potete impedirlo. O per le visite di controllo dopo l’intervento, quando lo accompagnavo solo per fare la scema con il chirurgo che l’aveva operato e gli dico di esagerare un po’ nel riferire la lentezza della ripresa, che gli costa, un’altra visita?  E va bene anche quando se n’è andato, via su un aereo, via a Londra e io sono rimasta, invece, qui, a immaginarlo lì. A insegnare alle mie bambine a salutare ogni aereo in cielo perché magari lì sopra c’è zio, sono rimasta qui, a chiedere a mamma e papà quando arriva Diego? Diego che nel frattempo aveva ripescato anche il secondo nome, quello che non ce l’aveva fatta quel 16/05/1982, il nome di nostro nonno, ricollocato accanto al primo come fanno i figli a un certo punto, che recuperano qualcosa che avevi messo da parte per loro ma che a loro non piaceva. E va bene per i segreti, tutti, li ho mischiati nel cestino di vimini che lui sa, non li può toccare nessuno, neanche l’ultimo, l’ultimo segreto in ordine di tempo, io l’ho mantenuto dopo che me l’ha raccontato al tavolo della sua cucina, a Londra, nell’estate del 2018 e quel giorno resta un segreto ancora oggi, il più prezioso di tutti forse, perché è stato come toccarlo di nuovo prima che nascesse, mio fratello. Quel giorno resta segreto, ma il segreto di quel giorno a giugno compirà tre anni, ha un sorriso immenso e un padre immenso, un nome che pronuncio male e un secondo nome che ha appena scoperto di avere e che gli piace pronunciare: come ti chiami gli chiedo, sorride inquadrato male dal telefonino, Ethan, zia, mi chiamo Ethan Marco, come il nonno. La fai una cosa per zia, gli chiedo. Sì. Dai un bacio a papà da parte mia e gli dici i love you? Anch’io i love you zia ma adesso siamo un po’ lontani, io poi vengo a casa tua da Pepe e Cri.   

Allora, Ethan Marco come il nonno, fai così oggi, prendi tu la mano del tuo papà, sei il solo che può toccarlo prima che nasca e perché non muoia mai, prendilo tu per mano che noi adesso siamo un po’ lontani, e digli di non fare lo gegge. E se sorride (sorriderà) digli che, forse, era vero che lo volevo (a nonna, invece, non lo confesseremo mai).

Per favore

Cucino come se pregassi. Cerco lavorazioni lunghe, come un rosario per i defunti, taglio la verdura, elimino le parti brutte, seleziono quelle belle, sminuzzo, taglio, affetto, lavo, passo le dita sotto l’acqua del rubinetto, agito e scuoto, sfrego se serve e risciacquo e ancora da capo poi la lascio sgocciolare, metto sul fuoco un tegame, inizio a cuocere, accendo le luci sopra la cappa, mai la cappa perché m dà fastidio il rumore. Misuro la farina, investo del ruolo di tara una tazzina da caffè per calcolare quanti sono 30 ml di olio, impasto, accarezzo, benedico senza sapere come si benedice, benedico di buone intenzioni e di speranze, di regole rispettate tutte, di peso lordo meno tara, di sale messo a sentimento ma è un sentimento buono, benedico chiedendo aiuto a Pepe, assaggia, dimmi tu se va bene, io non assaggio perché altrimenti non sarebbe più un atto di fede, metto da parte, copro con un canovaccio pulito preso nello scomparto della credenza, appoggio la ciotola sempre nello stesso posto e prometto di non guardare se succede, se lievita, prometto di aspettare perché siccome non so farlo devo promettere per riuscire a farlo. Ma non prego. Cucino come una liturgia, mi inchino davanti al forno, genuflessa, guardo, cresco con gli occhi, mi alzo, apro le mani, faccio cose buone che raramente vengono anche belle, Pepe la mia chierichetta laica, se dovessi avventurarmi in chissà quale avventura la vorrei al mio fianco, è già stato così. In cielo come in terra.

Giocano ancora insieme, in giardino, non ai giochi di quando erano piccole ma ancora si perdono insieme da qualche parte. Litigano anche allo stesso modo di quando erano piccole, si fanno i dispetti, si provocano a vicenda ma non mi chiamano più per risolvere, per avere ragione. Le sento parlare: Pepe insegna a sua sorella a tenere una racchetta in mano, Cri insegna a sua sorella ad avere pazienza, Pepe non ci riesce, Cri impara subito il rovescio, Pepe si incazza, Cri ha un talento per ogni sport, inutile discutere. Discutono. Ogni tanto ci provo a chiedere silenzio, per favore, fate piano vorrei dire ma non esce niente, in queste settimane arrivo solo a un verso come un rutto dopo l’acqua frizzante, allora sto zitta, sento le bollicine nel naso e sul palato, parlo che nessuno mi senta così non devo spiegazioni, parlo al Lupo dietro lo sterno, sei sempre lì gli dico, dove vuoi che vada mi risponde. Lasciami stare male, allora, per favore. Lasciami il male da sbocconcellare, da succhiare, da ruminare, chè non posso mandarlo giù con un bicchiere d’acqua, nemmeno frizzante e per favore non mi guardare, non mi consolare, non mi dire che sono la più bella che non lo sono più da un pezzo e forse lo sono stata ma solo una volta e comunque non oggi. Quando rientrano dal giardino mi chiedono tutto bene mamma, tutto bene amore rispondo. La pace sia con te. E con il tuo spirito.

Sai cosa faccio, a volte, quando ho pensieri che mi intristiscono, mamma? No, amore, cosa fai? Ci gioco al gioco delle foche, te lo ricordi? No. Quello delle foche che spuntano fuori con il muso e tu le devi schiacciare. Povere foche. Parlavamo dei pensieri che intristiscono, però, mamma, non delle foche per davvero. Sì, è che io ho bisogno di andare fino in fondo anche alla tristezza, amore, ci vuole pazienza con me, so che non è il tuo forte perché non è nemmeno il mio, però ci vuole pazienza con me. Assaggio, mamma? Sì. È strepitoso. Amen.

Le ragazze vivono in un eterno presente, il futuro si spinge fino a lunedì o al massimo a maggio, io cerco qualcuno a cui appaltare il restauro dei ricordi e il futuro lo conto nelle ore di lievitazione, anche di quel tempo mi prendo il merito, come se le avessi messe di tasca mia, come se facessero parte della ricetta ecco, le metto una per una, le conto, le misuro, le verso, le aspetto, quelle ore sono mie al pari della farina, dell’acqua, dell’olio, del lievito, delle mani che impastano con decisione e con una forma nuova di gentilezza che solo io lo so quanto poco costa la farina, l’acqua e persino la gentilezza ma quanto pesa quando tutto pesa, anche il respiro.

Copritevi, fa freddo. No, mamma, non fa freddo, è aprile non fa più freddo, come fai a sentire freddo? Oh, ma il mio è un freddo lontano,  un freddo di tutte le volte che mi hanno detto di non camminare scalza, di portarmi dietro un golfino, di asciugare bene i capelli, bene la radice diceva mia madre, solo dietro la nuca e un po’ le punte capivo io, è quel freddo vecchio arrivato tutto insieme a farmi sfregare le mani, a farmi curvare le spalle, avete ragione, non fa freddo, ma per favore chiudete le finestre, lasciatemi un pezzo di coperta sul divano, ci mettiamo vicine, sì ma tu raccontaci qualcosa, mamma. Cosa? Qualcosa di te, per favore.

Sono le ragazze il mio lavoro. Me l’ha detto Lui una sera, forse era mattino. Avevo appena abortito l’idea di un progetto, io sono così, concepisco facilmente nuove idee ma sono un soggetto poliabortivo, dovrei essere seguita da un centro per i progetti a grande rischio, dove qualcuno di molto competente monitori i parametri e la crescita della mia idea, ma per come sono io potrebbe morire durante il parto. Con loro fai un ottimo lavoro, mi ha detto una donna gentile a cui la gentilezza costa poco ma pesa molto. Lo diremo alla fine, le ho risposto. Lo direte alla fine, bambine belle.  Quando sarà pronto, quando sarete pronte e scusate fin da ora per il giorno in cui piangerete l’una per l’altra, scusate se l’amore che provate l’una per l’altra vi arriverà addosso all’improvviso come un amore lontano, di tutte le volte che vi ho detto di tenervi per mano, un amore vecchio arrivato tutto insieme.

Mamma, ho trovato il modo di parlare con la me del futuro. E come fai? Con un sistema di lettere, scrivo alla me del futuro e nascondo le lettere, poi quando le trovo io sono già nel futuro, è come parlare con un’altra persona e così parlo con me stessa che poi, mamma, a volte è come parlare con lo sconosciuto numero uno. Io vorrei parlare con la me del passato. E perché, mamma, ci sei già stata con la te del passato. Per sperimentare la tenerezza, per accarezzarla un po’ di più, per non costringerla a stare dove non vuole, per dirle che alcune paure si sono rivelate insensate, come quella di venie colpita dal telefono della doccia con conseguente trauma cranico, chiusa a chiave in bagno, con l’acqua che continua a scorrere in una stanza d’hotel senza la possibilità di chiamare i soccorsi. Se la te del passato è arrivata nel futuro nonostante questa paura non hai più niente da dirle, mamma, che storia.

Siamo una società, mi ha detto Lui una notte che non dormivo, io e te siamo una società. Devo smaltire qualcosa di me, gli ho risposto io ma non è uscito niente, nemmeno un verso come un rutto dopo l’acqua frizzante, allora sono stata zitta, mi sono alzata, ho preso gli occhiali e un libro dal comodino, ho acceso la lampada vicino al camino, ho rubato la coperta al cane, ho letto perché quando leggo è come se pregassi, torna a letto mi ha suggerito il Lupo dietro lo sterno, stai troppo sveglio gli ho detto, lo so che ci sei, puoi appisolarti, mi accorgo di te anche se non sembra, sai, puoi agitarti anche meno. No, non posso. Allora stai qui, ti leggo questa storia, è scritta bene. Scrivine una tu, per favore. No, non ne ho più voglia. E di cosa hai voglia. Di niente.

Cucino come se bestemmiassi. Cerco lavorazioni veloci, apro il surgelatore, ravano negli scomparti, guardo le scadenze. Cerco ricette online, digito velocemente, accolgo i suggerimenti, mi mancano gli ingredienti, mi manca tutto. Maledico sapendo benissimo come si fa, maledico di cattiveria, di rancore, non me ne dispiaccio, non me ne pento. Accarezzo la carne che non mangio più da quasi dieci anni, la uccido due volte, con il sangue sulle dita segno l’uscio della porta, non è qui che devi venire, vai altrove, vai da chi so io a portare la sciagura, rosolo su tutti i lati, sfumo, chiudo con il coperchio, non ho mai creduto che il diavolo non fosse in grado di farli, abbasso la fiamma, osservo, resto in piedi ad aspettare che passi oltre, che arrivi il futuro e ci lasci incolumi. Ma non bestemmio. Cucino come un sabba, arrivo al limite del bruciare, dimentico, mi distraggo, recupero all’ultimo, non controllo, aggiungo senza misurare, apro buste e rovescio in pentole ancora fredde, faccio cose belle che non ho preparato io, io non sono qui, sono altrove con le dita sporche di sangue. Scrivo una lettera alla me del futuro, la consegno al Lupo che vive dietro il mio sterno, il mio futuro, oggi, arriva a lunedì, al massimo a maggio, è una lettera di scuse, una lettera di tenerezza, una richiesta di perdono. Tienila tu, per favore, dammela quando sarà pronto, quando sarò pronta, se dovessi perdermi all’Inferno sei il solo che può venire a prendermi, è già stato così.