La prima volta che ho visto un morto avevo sette anni ed era una morta. La nonna di mia madre, la madre di mia nonna. Era sdraiata nella bara al centro della sua camera da letto, attorno a lei le sedie su cui si alternavano mia nonna, sua sorella e la signora che se n’era occupata negli ultimi anni, Francesca,una donna che a me sembrava vecchissima anche lei e con un nome molto strano per una donna anziana perché, secondo me, ci sono nomi che non si adattano alla vecchiaia. La singora Francesca portava sempre un foulard colorato in testa, credo non avesse i capelli, e puzzava. Ogni volta che andavamo a trovare la “nonna Vecchia” dovevo baciare anche lei e lo facevo in apnea. Arrivavano i parenti, entravano commossi, io giravo per il corridoio, proprio nel senso che roteavo, piroettavo,giocavo, la casa era piccolissima, un bilocale con una cucina corta e stretta dove gli adulti fumavano, non c’era spazio per tutte quelle persone. C’era uno specchio, uno specchio mobile, a figura intera. La sorella di mia nonna era sarta, riceveva le clienti alle quali confezionava gli abiti su misura, in quel periodo, poi, lei e mia nonna avevano ancora  un negozio di abbigliamento in quella stessa via, di fronte a casa che all’occorrenza quindi serviva anche da magazzino e da atelier. Le clienti si svestivano veloci, provavano l’abito e mia zia, abilissima, prendeva le misure, infilava spilli che teneva in bocca senza paura, il metro giallo e morbido come una collana intorno al collo mentre berciava “ma quando mai questa lunghezza, non usa più, si vede in tutte le riviste, fai come dico io”. Lo specchio era ovale, marrone, forse nero, e mobile. Doveva essere d’ingombro nella camera da letto trasformata in camera ardente e allora era stato spostato in corridoio.  Girato verso la camera, però.

La prima volta che ho visto un morto era una morta e l’ho vista riflessa nello specchio mentre giocavo a fare la stilista, era agosto e avevo i sandalini, un pantaloncino corto e le gambe magre. Mia madre aveva i jeans azzurri e una maglietta bianca, i capelli rossi naturali, mogano diceva lei , ricci naturali anche quelli, non era ancora stata male di quel male che l’avrebbe resa sempre triste durante gli inverni successivi, era magra, dispiaciuta e fumava. Naturale.

Non ho avuto paura, a quel punto ho detto a mio padre che l’avevo vista e lui mi ha presa per mano e mi ha portata davanti alla bara aperta.

“E’ morta. Di vecchiaia”

Non era “andata in cielo”, non era successo nulla che non potessi capire. La nonna Vecchia era vecchia e quindi era morta di vecchiaia. L’abbiamo sempre chiamata così, c’era amore nel chiamarla così, c’era  rispetto. Adesso sento gente che si offende per l’uso della parola “vecchia” ma secondo me è il modo in cui viene detto. Il mio compagno di banco non aveva più il papà perché era morto investito mentre attraversava sulle strisce pedonali. Ho pensato che quello era peggio. Morire di vecchiaia andava bene. Se sei vecchio nessuno deve più portarti il regalo per la festa del papà, lui lo preparava comunque e lo lasciava davanti alla foto in salotto,aveva raccontato in classe. Se sei vecchio nessuno ti chiede di fare il bagno insieme in mare quando ci sono i cavalloni, lui doveva arrangiarsi e con la bandiera rossa restava fermo a riva. Io no, io il bagno lo facevo lo stesso. Se sei vecchio morire va bene, è giusto. Io attraversavo sulle strisce facendo sempre molta attenzione. Comunque, anche la nonna Vecchia finché è uscita faceva attenzione sulle strisce, attraversava veloce con passetti ravvicinati.

Al funerale non ricordo di essere andata, secondo me non mi ci hanno portata per risparmiarmi le lungaggini in chiesa e poi al cimitero, non per altro. Non c’è mai stato pudore nel raccontare la morte.

“rinascerà,papà?”

“io penso di si”

“anche il papà di Massimo?”

“si, penso”

“ma allora come fa a vederlo lo stesso se è già rinato? lui gli porta i regali perché la maestra dice che chi muore vede tutto dal paradiso, anche Don Sebastiano lo dice a catechismo”

“magari non è ancora rinato, forse aspetta che suo figlio sia grande”

“allora la nonna Vecchia può rinascere anche subito perché non deve più vedere nessuno”

“magari vede ancora te”

“non si ricordava nemmeno il mio nome, papà. Secondo me lei può rinascere subito.”

La prima volta che ho pensato di morire è stata la notte in cui ho compiuto trentatre anni, nel 2011.  Cri e Pepe dormivano nella loro stanza, avevano quattro e due anni appena compiuti. Avevo ultimato da poco un percorso intenso di psicanalisi che sintetizzo sempre nella frase ”per due anni ho spalato merda a mani nude”, perchè secondo me detto così rende l’idea di dove sono stata. Avevo -avuto- la depressione post partum. Esaurimento nervoso su base depressiva, c’era scritto sul foglio della dottoressa, una psichiatra. La morte era stato un tema fondamentale, toccato più volte, il mio approccio con la morte, la mia paura della mia morte, una novità per me. Ma era rimasta sempre una paura narrata, una paura intellettuale. Mettevo in conto per la prima volta di morire e temevo di lasciare le mie bambine orfane, così piccole, costrette a portare dei lavoretti di merda fatti a scuola davanti alla mia foto,io che in foto vengo malissimo, lavoretti di merda davanti a una foto di merda, affidate a persone che le avrebbero cresciute in un modo che non approvavo mentre il padre, disperato, avrebbe continuato a lavorare per mantenerle sentendosi ripetere che non c’era problema, mentre mi cercava anche lui, per fare una battuta che fa ridere ma solo se c’è l’altro, io, che la capisce subito, per guardarsi senza parlare e aver detto tutto che non è una cosa che fai così, con la prima che passa. Ecco, a me quel pensiero lì mi scatenava il terrore di morire. Dicevo allo psicanalista “mi basta arrivare ai loro diciotto anni”. Nel dirlo, con la bocca allappata, immaginavo la loro crescita senza di me e mi commuoveva il mio stesso funerale, sentivo la mia mancanza, piangevo per la mia morte come se mi riguardasse mentre in realtà avrebbe riguardato solo loro.

La notte in cui ho compiuto trentatre anni, invece, io ho pensato che stavo morendo. Il dolore all’addome era lancinante. In piena notte sul divano pensavo che lui doveva assicurarmi che si sarebbero laureate, in quello che volevano, ma che avrebbero finito tutti gli studi. Che le avrebbe cresciute usando la sua testa ma pensando sempre a cosa avrei detto io in ogni situazione. E poi pensavo ai miei genitori, a mio padre, non era giusto morire così, senza essere vecchia, senza che lui fosse abbastanza vecchio da dimenticarsi il mio nome. Il mio nome non è un nome da vecchi, però. Allora sto morendo. Pensavo. A mia madre. Ed ero triste di una tristezza straniante ma naturale.

La prima volta che ho pensato che sarei morta, poi, non sono morta. Mi hanno presa in tempo, un attimo prima che “la bomba nella pancia esplodesse”, hanno portato via quel che non funzionava più, messo due cerotti e mi hanno rassicurata, anche la pancreatite era stata evitata. Il chirurgo, amico di famiglia, nel dimettermi mi ha detto “eccoti come nuova, sei rinata”. Senza madre. Rinascere si fa senza essere partoriti di nuovo, rinascere si fa da soli, rinascere si fa perché sei già morto, da qualche parte, in qualche punto,in un certo momento.

La prima volta che mio padre mi ha restituito le mie vecchie pagelle, un mese fa, l’ho preso in giro:

“hai paura di morire? perchè mi dai questa roba?”

“perché è tua, sto facendo ordine nei cassetti, mica ho paura, morire si deve almeno hai già le tue cose “.

Continuiamo a non aver pudore nel parlare di morte.

La pagella di prima elementare riporta di una bambina disciplinata, logica, attenta, educata. Con una sorprendente proprietà di linguaggio per la sua età. In grado di riferire in modo preciso e puntuale un fatto realmente accaduto. Ero una piccola vergine scassacazzi che raccontava per filo e per segno quel che accadeva intorno a lei senza inventare nulla, mi mancava solo di berciare anch’io “ma quando mai, è andata come dico io, senti qui…”. Come faccio adesso.

Insieme alle pagelle mi ha dato anche il lavoretto per la feste del papà fatto nel 1986. Quell’anno mi era andata bene, niente lavoretti manuali, la maestra aveva optato per un libro fatto da noi venticinque, ciascuno dedicava una poesia o un pensiero al suo papà, tutto raccolto in questo florilegio della II C. Anche Massimo, che non si chiama davvero Massimo ma non mi va di scrivere il suo nome che comunque è un nome che secondo me da vecchio andrà ancora bene. Io avevo scritto una filastrocca piena di riferimenti alle passioni di mio padre, la pesca e il cibo fondamentalmente. Nemmeno tanto brutta, ho letto cose peggiori scritte dai miei compagni. E poi mi ha restituito anche la mia prima poesia.

La prima volta che ho scritto una poesia l’ho fatto in corsivo e con la replay blu. Era il 25 agosto del 1986, ho venduto l’opera al prezzo stabilito in 1000 lire, indicato sul retro della stessa. L’ha comprata lui, mio padre, si intitola La Brezza e recita così:

“oggi una  dolce brezza

fa oscillare quel piccolo

giglio in riva al lago.

Nell’aria

c’è un

profumo vivo , e io mi sento

rinascere”

La prima volta che io sono rinata l’ho scritto. Naturale.

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4 pensieri su “La prima volta

  1. Che bel racconto, molto toccante. La preoccupazione di non veder crescere i propri figli c’è sempre, chi più chi meno… forse poi non finisce mai, chissà. Ancora adesso mia madre quando la sento mi chiede se mangio: eh, se mangio! Sulla morte hai ragione, oggi si tende a nasconderla, a renderla asettica, perdendo la grande verità che la morte fa parte della vita. E dopo? Chiedevi giustamente a tuo padre… si rinasce? Sarebbe bello, no?

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    1. Grazie!! penso di si, che si rinasca, ho bisogno che sia così. Come madre ho fatto e faccio molta più fatica a spiegare la vita alle mie figlie, la morte per i bambini è più naturale di quanto si pensi.

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  2. Mi è piaciuto molto quello che hai scritto. Penso che quando, come dici tu, si è spalata merda, e, come dico io, ci si è stati sotterrati, la rinascita che ne segue dà una nuova visione della vita in cui la morte non fa più paura…ti seguo volentieri!

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