A gennaio del 2010 abbiamo varcato l’ingresso di quell’istituto scolastico per la prima volta. Cristina aveva trenta mesi, “come il parmigiano” avevo detto alla maestra Roberta per rompere il ghiaccio ma lei non aveva riso, forse non c’era molto da ridere, in effetti, ma a me è sempre sembrata una cosa buffa usare i mesi per indicare l’età dei bambini. Ma buffo non è uguale a divertente. Il perché, poi, uno voglia rompere il ghiaccio con la maestra della scuola materna è dura da spiegare, figuriamoci da capire.

Quello era il tempo in cui avevamo ancora le pareti di casa tinteggiate di rosa. Quando abbiamo iniziato a vivere insieme io ho scelto il rosa perché pensavo che a Lui piacesse molto dato che nella casa dove viveva da solo aveva la mansarda con le pareti rosa e Lui pensava che a me piacesse molto perché avevo fortemente voluto e difeso quel rosa e così per compiacere l’altro senza dirglielo per anni abbiamo tenuto un colore che ci faceva schifo alle pareti. Era il tempo in cui non avevamo un forno funzionante ma solo un fornetto elettrico senza un motivo valido per non avere il forno funzionante. A Lui avevano detto per tanto tempo che non era capace di fare lavoretti in casa e a me che ero negata per la cucina e come tutti quelli che sentono ripetutamente una storia anche noi ci abbiamo creduto fino a quando Lui non ha riparato il forno e io non ho iniziato a preparare torte e più di qualcuno ha dovuto trovare altre storie da raccontare. Ma senza creatività. Quello era il tempo in cui ancora non avevamo il nostro cane, per il quale avevamo il nome già pronto da anni, da prima di pensare di avere figli insieme, da prima di avere una casa insieme o di lavorare insieme, da quando eravamo insieme e basta, io  e Lui, con l’idea (mia) di questo cane fantastico che già aveva il suo nome, aspettavamo solo di trovarlo. Quello era il tempo in cui un medico mi ha rivelato che la mia non era solo malinconia cronica o tristezza o visione negativa dell’esistenza.

La scorsa settimana quell’ingresso di quell’istituto è diventato un’uscita. Basta cambiare senso di marcia. Pepe ha quasi 14 anni e non ha trascorso tutti questi anni alla scuola materna, nemmeno sua sorella (che quell’uscita l’ha varcata due anni fa ma sembrano mille) anche se per un  periodo avrebbe voluto, “mi basta quello che so” mi disse l’anno del passaggio alle elementari per niente interessata all’idea di imparare a leggere e scrivere. Sono salite di piano, piano piano eppure velocemente, dal piano terra al primo piano e poi al secondo, la materna, poi le elementari e infine le medie. E piano piano, eppure velocemente, sono scese di piano ed eccole fuori. Pepe non vuole si scriva di lei, quindi non lo farò più del necessario, è pronta per il liceo, lo è davvero e adesso lo sono anch’io, dopo oltre tredici anni durante i quali abbiamo cambiato colore alle pareti e riso moltissimo del fraintendimento che aveva generato tutto quel rosa dal quale eravamo circondati, abbiamo trovato il nostro cane e il nome scelto era davvero perfetto, ci siamo sposati perché Lui non voleva lasciare la sua pensione in malora e io non volevo che a decidere per me in caso di grave malattia fossero i miei genitori e ce lo siamo detto senza fraintendimenti. Tredici anni durante i quali abbiamo sfiorato la separazione ma era troppo viscida e abbiamo tirato indietro la mano per cercare conforto, rifugio, forza nella mano dell’altro, abbiamo cresciuto due figlie partendo da idee lontane, i figli crescono anche se non ci sei diceva Lui, i figli si crescono dicevo io, basta l’esempio diceva Lui, devi spiegare il perché, la ratio sottesa, dicevo io , complichi tutto tu diceva Lui, fai tutto facile tu dicevo io e abbiamo cresciuto due aziende, qui qualcuno storcerà il naso ma è così e non c’è altro da aggiungere. Tredici anni durante i quali abbiamo cambiato diverse auto e casa, preso un altro cane per il quale il nome non era deciso, rispettato la regola non scritta di visitare almeno  un posto nuovo ogni anno, chiuso definitivamente rapporti parentali sbagliati, vegliato il nostro cane ormai anziano mentre aspettavamo che lo cremassero.

La scelta dell’inserimento anticipato alla scuola materna l’ho voluta fortemente io, come il rosa sulle pareti, come il cane con il nome, come il cane senza nome. Tra le nostre idee lontane la più lontana era quella sul ruolo dei nonni, io ci vivevo diceva Lui, io li andavo a trovare dicevo io.

Le pareti, a casa, hanno la tinta lavabile. Non è rosa. È stata una scelta intelligente, penso l’abbia presa Lui, non ricordo ma sono quasi certa. Quando il cane ha iniziato a stare male e a perdere l’equilibrio strisciava contro i muri pur di raggiungere il giardino e fare pipì. Dopo la sua morte ho lavato via le tracce di quei passaggi, è stato come togliere la sua ombra, l’ultimo saluto per davvero. Gli operai in questi giorni hanno fatto alcuni lavori e ho trovato le impronte di manate maldestre, segni di un pollice, un palmo lasciato lì come se stesse per cadere dalla scala e avesse trovato solo quel modo di non farlo, e così col fervore di un paleontologo ho ricostruito le abitudini di chi ha lavorato qui, tra le foto di noi quattro a Parigi e quelle di Lui che fuma il sigaro, tra i quadri scelti insieme senza sapere ancora dove li avremmo appesi perché i quadri trovano da soli il loro posto dice Lui, se non mi piace lo cambiamo dico io, tra i libri e i trofei sportivi, tra i ninnoli ricordi di viaggio e la corrispondenza all’ingresso, chiedendomi se anche loro hanno preso tutte quelle informazioni per ricostruire le abitudini di chi vive qui, se hanno capito dove ci appoggiamo, noi, per non cadere.

Al supermercato una donna ha  chiesto due conti separati per la spesa sul nastro. Avrebbe pagato con il bancomat il cibo. In contanti le bottiglie di alcolici. La cassiera mi ha guardato come se potessi farci qualcosa. Ho abbassato lo sguardo, come se fosse stata mia la richiesta.

Mi sono sposata perché non credo nella famiglia. Ecco perché ho scelto un estraneo con cui creare qualcosa. E qualcuno. Esercito il ruolo di madre per come sono, senza infingimenti. In natura a nessun mammifero viene chiesto di sorridere mentre allatta o mentre i cuccioli le mordono le zampe per attirare l’attenzione. Ricordatevi che mamma quokka, l’animale che sorride sempre, se minacciata dai predatori prende il suo cucciolo dal marsupio e lo lancia per mettersi in salvo. E suocera quokka muta.

Sono uscita un po’ da me stessa. Non per guardare fuori ma per guardare anche da fuori, se mi piace.

Tra le cose che non ho più tempo di fare ci sono le giustificazioni. Se proprio sono in vena offro spiegazioni ma le giustificazioni basta, nemmeno a pagamento. Solo quelle per le assenze delle ragazze a scuola.

Appello ai docenti: se correggete le verifiche di sabato e domenica a scuola chiusa, per favore, non caricate i voti sul maledetto registro elettronico flagello di questa friabile generazione, non dico di arrivare al punto di consegnare prima il cartaceo così da guardare negli occhi il giovane autore della verifica come avveniva un tempo lontano lontano in un posto che non esiste più, ma almeno di aspettare e rispettare l’orario scolastico.

Alle comunicazioni che non portano in sé il seme delle risposta, non rispondo.

So per certo di non essere fraintendibile quando parlo. Ecco perché in genere non piaccio. Ecco perché in genere gli altri non m piacciono. Ecco perché parlavo poco.

Il mio modo di amare passa attraverso la pulizia. Quando amo, pulisco. Pulisco le cose che amo, le case che amo, le persone che amo. Ovviamente se smetto di pulire significa che non amo più. La mia auto è sempre sporca. Il mio nuovo ufficio è pulito. Il mio amore passa attraverso la cura, la manutenzione, in alcuni momenti attraverso la contemplazione della pulizia senza permettere alcun passaggio che sporchi o rovini minimamente. Sono i momenti più difficili, quelli. Le case si abitano, le cose si usano e le persone si vivono dice Lui, non tocco perché non voglio rovinare niente dico io. Ci sono stati periodi nei quali ho fatto fatica a raggiungere la doccia. Ci sono state volte in cui quando Lui mi chiamava dal bagno per controllare se la rasatura della sua testa fosse a posto dietro, sulla nuca, dove non riusciva a vedere gli dicevo di sì e invece aveva piccole macchie di capelli, piccoli ciuffetti sparsi di peli perché mostrasse inconsapevole al mondo che lo amavo meno. Che si sapesse.  

La mia depressione è uno spazio da proteggere dalla mia curiosità.

Quando le ragazze andavano all’asilo e il Lupo che mi vive dietro lo sterno era molto prepotente e poco addomesticato avevo immaginato le madri che si susseguivano in quei corridoi e in quelle aule come animali di un circo o di uno zoo o di una fattoria. C’era mamma maiale con il suo piccolo, avevano entrambi il naso con narici larghe e ingombranti su faccioni tondi, lei lo tirava su di peso con braccia grosse come prosciutti in salumeria mentre lui si dimenava a terra per qualcosa da mangiare che lei non aveva portato con sé. C’era mamma giraffa, aveva gambe sottilissime e lunghissime fasciate in jeans a prova di candidosi vaginale, sbatacchiava lo sguardo sorpreso di chi ha il cuore lontano dal cervello mentre acciuffava il suo piccolo dal colletto della polo costringendolo a tirare su la testa così da guardare ammirato prima lei e poi il resto del mondo, se restava tempo. C’era mamma scimmia, con il tutù e il cerchietto in testa, con l’espressione quasi umana e la capacità di saltare da una parte all’altra per impicciarsi di quante più cose possibili nel più breve tempo possibile mentre il suo cucciolo cercava invano di aggrapparsi. C’era mamma oca che organizzava feste a cui le altre madri andavano solo per non sentirla più starnazzare delle feste che organizza per il suo cucciolo che ad occhio era destinato a diventare paté. C’era mamma orsa, se la incontravi era meglio far finta di niente. Capitava di vederla in disparte, in un angolo del corridoio, un attimo prima di entrare nelle classe di una delle cucciole e poi nell’altra, sembrava inanimata, poi prendeva le sue orsette e diventava maestosa. Feroce, anche. Solo se provocata.

Ci sono persone che amano i gatti. Io sapevo che i gatti non si possono lavare. Sapevo che si puliscono da soli.  

Sto trasformando i miei perché. Non tutti. Faccio così: tolgo il punto interrogativo, lo uso come gruccia per stendere le camicie di Lui che lavo con il profumatore per il bucato che sa di pulito e di buono, e metto il punto. Il punto e basta, quello semplice. Ho capito che lo stavo facendo mentre passeggiavo con il cane, ascoltavo una signora parlare con un’altra signora di qualche malattia, robe di urine bloccate chissà dove e intanto svuotavo il cervello come si fa con il cestello delle posate in lavastoviglie. Io tolgo le posate per genere e non per foro del cestello, tutti i coltelli e tutte le forchette e tutti i cucchiai con me, invece c’è chi lo svuota come viene, la posata che prende quella mette a posto, io poi sistemo il cestello nei binari del vano inferiore invece c’è chi lo scaraventa vuoto in lavastoviglie e basta, tipo al bowling. Ero lì che svuotavo il cervello ai giardinetti vicino alla (ex) scuola delle ragazze e ho pensato che forse quel frammento di Saffo che da trent’anni amo e lascio che mi guidi non era una domanda ma una risposta.  Per molto tempo ci ho infilato il punto interrogativo alla fine solo perché era una mia domanda. Invece era la risposta. Perché coloro che amo sono quelli che mi fanno il male peggiore. E così tante altre ne ho trovate di risposte e con i punti interrogativi avanzati ho preso altre domande, nuove. Poi si vedrà. Non a tutto c’è una risposta, a volte basta lasciar accadere dice Lui, l’ho capito, dico io.

3 pensieri su “In ordine sperso

      1. I tempi in cui si sono stato (2 anni) vi era anche il convitto universitario. Ed io ero nel convitto. Non vi era ancora la materna (immagino che l’abbiano aperto in seguito). Parliamo di aa 1997/98 e 98/99… un millennio fa.

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