Vivo in questa casa da più di tre anni e non ho ancora imparato da quale lato si apre la doccia. Apro sempre il doccino, quello piccolo, quello mobile, allora giro e chiudo e rigiro dalla parte opposta e l’acqua scende dal soffione, quello alto, quello fisso, quello che pulire dal calcare è una sciagura. Sbaglio sempre. Quasi sempre faccio una scommessa con me stessa, mettendo in palio situazioni delle quali non dispongo direttamente, più che scommesse sottopongo il fatto di riuscirci al realizzarsi di una condizione. Se si apre il soffione allora quel progetto andrà a buon fine. Sai, lo faccio in diverse occasioni, subordino al fatto di trovare parcheggio o di incrociare subito un semaforo verde cose altrettanto aleatorie, su cui non ho controllo, perché è un modo per controllarle, perché è un, altro, modo di auto sabotarmi. So già che non troverò parcheggio e che il semaforo sarà rosso e che la doccia non ricordo mai da che parte si apre.

Sai, la doccia io la faccio bollente sempre, anche ad agosto. Mi si deve arrossare la pelle, mi deve mancare la forza di uscire, il caldo mi deve entrare nella testa. Mi sembra, poi, che l’acqua fredda non lavi, non pulisca. Nel mio bagno ci sono due specchi, uno sul lavandino e l’altro a figura intera sulla parete opposta alla doccia, l’abbiamo messo lì perché stava bene nella cornice di quella che prima era una porta e che noi abbiamo fatto togliere e chiudere, restava un bordino da eliminare e allora ci abbiamo messo questo specchio e ci sta bene, non sembra nemmeno che sia lì per quel motivo. Quando esco dalla doccia gli specchi sono appannati. Su quello a figura intera a volte disegno un cuore. A volte una grande S che poi cancello dopo averla barrata con una grande X. Quello sopra il lavabo, invece, non lo tocco, perché si appanna in modo strano. Si appanna solo sui lati e forma il disegno di due ali o di due polmoni. Ci sono sere in cui le ali e i polmoni mi sembrano la stessa cosa, sai. Sono le sere peggiori, quelle in cui nemmeno disegno la S, quelle in cui subordino l’apertura corretta del rubinetto alla mia stessa esistenza. Quella vena melodrammatica, sai, di chi non distingue ali e polmoni e nel dubbio non li graffia e non li cancella, perché evaporeranno in poco tempo. Basta accendere il phon.

Mi sto esercitando a controllare la mia mania del controllo. Fa sorridere detta così ma è proprio così che va detta. Piccoli espedienti: rinvio il controllo dal punto di vista temporale, lo sposto a un momento della giornata e fino a quel momento cerco di gestire l’astinenza. Ci riesco? No. Per ora no, per ora fatico, ma sai, non conosco un altro modi di fare le cose. Solo che adesso si tratta di non farle. Si può non fare qualcosa attraverso la fatica? Sì. Piccoli espedienti: porto fuori i cani, trito i documenti più vecchi, cerco online un copripiumino a tema montagna e lo inserisco in un carrello che non svuoterò mai. Ci riesco? A volte. Mi sembrano poche, le conto, le controllo, ne tengo traccia, mi arrabbio, non devo contarle o controllarle, non devo tenere traccia di questa vita di espedienti. Non dovrei nemmeno raccontarlo perché non è qualcosa che interessa, sai.

Ho aggiornato la lista delle mie insofferenze nelle ultime settimane. Ci ho inserito, stupendomi nel non averlo mai fatto prima, la categoria delle maestranze che espongono alle donne, intente nell’osservare i lasciti devastanti di lordume, informazioni da dare “al marito”. O che liquidano un argomento perché già affrontato con “il marito”. O che chiedono se possono prendere un utensile “del marito”. Prima d’ora mi sono sempre concentrata solo sul lordume, ho pensato, ecco perché non mi sono mai accorta che il fastidio che provavo non era dovuto, solo, a quello ma che qualcosa risuonava a livello di vibrazione sottile tipo campana tibetana o bagno di Gong che su di me hanno l’effetto avverso di agitarmi più del lordume lasciato da scarpe antinfortunistiche sul parquet. Ci ho inserito un nuovo livello alla scala cagacazzo: quelli che al sommelier fanno cambiare la lista dei vini di una degustazione organizzata dal sommelier. Oltre al nuovo livello, in questo caso, ho sperimentato anche un cortocircuito di pensiero: il sommelier, per lavoro, organizza una degustazione di vini nell’ambito di una cena di lavoro, qualcuno che per lavoro organizza cene di lavoro fa cambiare al sommelier la lista dei vini che , per lavoro, sceglie vini da inserire nelle degustazioni ma basta uno che per lavoro organizza cene di lavoro che contesti il lavoro del sommelier per far cambiare al sommelier la lista dei vini. Sai, mi è venuto mal di testa, perché alla fine erano vini bianchi di merda. E a me i vini bianchi di merda fanno venire mal di testa. Anche i cagacazzo, ma quelli li so evitare da sola, non mi serve qualcuno che lo fa per lavoro.

Sai, la gente è strana, prima si odia e poi si ama dice la canzone ma mica è così. Sai, la gente non è per niente strana, prima si ama e poi si odia. Si ama come può e si odia come riesce. Tentativi, direi. Se ci si ama male poi ci si odia peggio mi viene in mente durante una passeggiata con i cani, davanti a me un uomo parla al cellulare, non sa più come fare, è brutto non sapere come fare ma non è bruttissimo perché se non sai come fare allora è il momento in cui puoi fare tutto, vorrei suggerirgli. Vorrei fermarlo, toccargli il gomito e dirgli mi scusi, dandogli il lei ( quelli che non danno il lei agli estranei sono nella lista delle insofferenze da quando cammino- nota a margine anche i camerieri sono estranei), mi scusi, non volevo ascoltarla ma lei parla a voce alta, lei per caso prima amava male e adesso odia peggio? Prima è stato amato male e adesso viene odiato peggio? Mi scusi se mi intrometto ma se non sa come fare provi a fare la prima cosa che le viene in mente. Se vuole può subordinarla al prossimo semaforo che incontra. È che amare bene è una tale fatica.  Amare bene è distinguere le forme attraverso i negativi quando non hai più la foto, amare  bene è più difficile se le foto vengono scattate con il cellulare, amare bene non c’entra quasi mai con chi amiamo ma solo con noi, amare bene è non distinguere le ali dai polmoni, che sono, poi, la stessa cosa.

Nei giorni di confusione e vento forte, quando mi chiedo dove ho parcheggiato e in che mese dell’anno ci troviamo mi capita di non sapere chi sono o di averne un’idea vaga e incerta. Mi sto esercitando a ritornare alla fisicità, mi obbligo a toccarmi un braccio per sentirmi presente, mi costringo a mettere il piede destro avanti  e spostare il peso sulla gamba, mi alleno a sentirmi corpo. Quando non so bene chi sono ricomincio da chi non sono come quando studio comincio da ciò che non so. Ai miei studenti consiglio di capire, che è meglio di studiare, se qualcosa lo capisci devi solo trovare un buon modo per dirlo, non ti serve ripetere e ripetere. Si ripete quel che non si capisce per impararlo a memoria si ripetono la frasi degli altri, le gesta degli altri, a volte anche i destini degli altri.  Stringo il gesso, alla lavagna, tra il medio, l’indice e il pollice della mano destra, lo sfrego perché mi lasci una traccia addosso che osserverò nel tragitto verso l’ufficio quando lascerò l’aula e mettendo un piede davanti all’altro, perché è così che si cammina, penserò a chi non sono e a come è successo che non lo sono diventata e se, davvero, è andata bene così. Sai, se il semaforo sarà verde penserò di sì.  

5 pensieri su “Sai

  1. “Ai miei studenti consiglio di capire, che è meglio di studiare, se qualcosa lo capisci devi solo trovare un buon modo per dirlo, non ti serve ripetere e ripetere”.
    Ben scritto. L’ho sempre pensata così e nel mio piccolo ho cercato anch’io di farlo capire a studenti e affini; ma c’è chi comunque si aggrappa alla memoria (e impara “alla lettera”) perché ha paura di capire fino in fondo, secondo me; ci sono coloro che non credono abbastanza nelle loro proprie possibilità o forse hanno paura di sondarle fino in fondo, per motivi tutti da scoprire. Si aprirebbe tutto un mondo, di qui in poi…

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