Una manciata di settimane fa Cri, la mia grande, è partita per il Canada. Quasi due manciate. Manciata la fai con una mano, no? Allora sì, quasi due. Studierà lì, quest’anno, è in quarta liceo e con il passaporto bordeaux tra le mani è andata che era una domenica ed eravamo a Malpensa e ho pianto poco perché io piango molto di dolore o di rabbia, poco di felicità, e l’orgoglio invece mi emoziona e basta, mi stringe il mento tra le nocche e mi espande il petto.

Quasi due manciate, tritate grossolanamente, di giornate a guardare l’ora e toglierne 5, una manciata, per sapere lei in che punto della giornata si trova. Quando, a decisione presa, abbiamo fatto sapere che sarebbe partita per questa esperienza qualcuno ha chiesto “non è troppo presto?”. Ma non ha chiesto per fare una domanda. Ha chiesto per esprimere un’affermazione. Qualcuno senza alcun titolo né per porre domande né per esprimere affermazioni su mia figlia, ovviamente. Non è troppo presto, rassicuro.

Una manciata di settimane fa ho compiuto quarantasei anni. Sì, una manciata, giusto, sto contando a ritroso le settimane, con le dita, 1,2,3,4. Sì. Stanno nella mano, è una manciata sola. Era un martedì dopo gli F24, Lui giocava torneo quella sera, allora ho spento le candeline dopo pranzo e a cena eravamo solo io e Pepe, ci siamo guardate qualcosa in tv, non ricordo cosa, Lui ha vinto e quando è tornato era soddisfatto, gli ho scaldato la cena, non ricordo cosa ma qualcosa di leggero, non so, queste cose così da un po’ non le ricordo più.

Una manciata, sì, tritata finemente, di giornate a organizzare tutte le nuove partenze  che settembre e ottobre inglobano, senza gli impegni di Cri le giornate sono diventate improvvisamente più capienti, come la lavastoviglie, la tavola o lo spazio sul divano.  Pepe tra scuola e tennis, io tra ufficio e scuola, Lui tra ufficio e tennis.  Quando la sera guardiamo l’ora e ne togliamo 5, in genere un attimo prima di sparecchiare e pulire la cucina, ci chiediamo “l’hai sentita?”. Ma non chiediamo per fare una domanda. Chiediamo per esprimere una negazione. Perché quando uno dei due la sente lo dice subito all’altro e se non ci siamo detti niente è perché non c’è niente da dire, non l’abbiamo sentita, la sentiremo dopo, quando lei avrà tempo, modo, quando uscirà dalla palestra, da scuola, tornerà dal giro con le amiche, chiamerà e si sorprenderà se siamo a letto, “ah già da voi è sera, scusa, è troppo tardi, mami?”  

No, amore mio, non è mai troppo tardi per te. Aspetta che ti sento male, provo a richiamarti. Aspetta che si è bloccata l’immagine. Cosa mangi? Lo stai spalmando sul pane, cos’è? Hai preparato tu, brava, ci hai messo cosa, una manciata di quello che avevi, sì, è così, sai, è così che si cucina, con quello che hai, brava, è così che si vive, sai, son manciate, mettici quello che hai. Cosa dici? Eri tu, una belga, una tedesca e una cinese? Sai che quando ero bambina le barzellette iniziavano così. C’era un italiano, un tedesco e un inglese o quel che vuoi tanto l’italiano era sempre il più furbo. No, amore mio, non è mai troppo tardi per noi. Fatti guardare nello schermo, che bella che sei, sei adulta, perché ti esprimi così, com’è che muovi le mani in quel modo, lo facevi anche quando eri qui, una manciata di settimane fa? Quasi due manciate. Sei raffreddata? A scuola cosa fate? Hai sentito i professori qui per il programma? Cosa dici, dovete organizzare Halloween? Da cosa ti vesti? Non sei grande per dolcetto scherzetto, figurati, non sei grande per niente, dai, fatti guardare nello schermo, che bella che sei, sei piccola piccola, quando metti la mano sotto il mento, sai, dormivi così, che eri poco più di cinquanta centimetri e in cinquanta centimetri ci stanno le mani , due, e si possono mettere sotto il mento e tu lo facevi come fai ora e poi le allungavi e mi strizzavi il mento come fai ora anche da lontano, che non lo vedi ma lo sai. E poi, alla fine, che avete fatto tu la belga, la tedesca e la cinese? Ah, siete andate dalla finlandese. Sì, sì, per organizzare Halloween, ho capito.

Quarantasei. È una discesa, adesso, verso i cinquanta, manca una manciata scarsa tritata grossolanamente. È che io sono molto brava con le salite e delle discese ho paura. Ho paura di farmi male, di inciampare. Se potessi scegliere vorrei salire verso i cinquanta, tanto il dislivello è poco. Vorrei fermarmi, ogni tanto, a riposare. Alla dottoressa Elle è piaciuto molto che abbia usato la metafora del campo base. Che poi mica era tanto una metafora. Un po’ sì, per forza, ma un po’ sto davvero in un campo base in attesa di ripartire. Poi, se proprio non riesco torno al campo base e aspetto ancora. Ecco, questa è la metafora. Io ci provo, poi vediamo. Non garantisco la riuscita, vorrei dire che mi dispiace ma non sarebbe vero, non mi dispiace. Per chi dovrebbe dispiacermi? Se non riesco non riesco amen, torno giù, che poi è qui, e sto al campo base. Aspetto. Ho imparato ad abitare le attese, ma solo le mie. Se altri aspettano qualcosa, spero lo facciano altrove, spero non dipenda da me.

Sono solo numeri, dice sempre Lui. Allora io li scrivo in lettere e non in cifre, anche se così sembrano di più. Ma sono i miei, ci faccio quello che mi pare, mi stizzisco così, dal nulla, rivendico inutilmente, chiarisco l’ovvio, ecco adesso questi quarantasei li metto qui e nessuno li tocchi, per cortesia, anzi ne metto un po’ qui e un po’ lì, sono abbastanza da dividerli, ecco, guarda ne metto ventidue e un pezzo lì, e ventitré e un pezzo qui e se proprio vuoi questi puoi guardarli, se ti serve qualcosa puoi anche prendere senza chiedere ma da quelli no, no, mi raccomando, come quali, quelli, i ventidue e un pezzo, quelli che ho messo lì, lì chiedi, sono più miei di questi, questi sono pure tuoi, che ti devo dire, che ti devo raccontare che non sai, ma quelli no, quelli sono solo miei e saranno pure solo numeri ma sono i numeri miei io che i numeri non li ho capiti mai, cosa dici, sono in un posto scomodo da raggiungere? Sì, e allora, che vuoi?  Li devi raggiungere tu?

Una manciata di giovedì fa, due manciate, forse tre, sì, almeno tre manciate di giovedì fa la dottoressa Elle mi ha detto che le sembrava che stessi meglio rispetto ai nostri ultimi incontri. Alcuni degli ultimi incontri erano stati stile camera ardente, per stare meglio bastava già tornare alla terapia intensiva. Era una metafora, spero abbia capito. È merito della scomodità, le ho raccontato.

Avevo un cliente, nel suo ufficio c’era solo la sua poltrona dietro la scrivania, davanti alla scrivania nulla. I suoi interlocutori restavano in piedi, a me faceva portare una sedia dalla stanza delle impiegate ma era un trattamento di riguardo per le mie condizioni, ero incinta. “Dottoressa, Sonia, mi scusi se la chiamo per nome ma è così giovane, apra la sua mano e conti cinque persone, e basta. A quelle conceda di accomodarsi e di stare comode. A tutti gli altri riservi la scomodità, perché la scomodità è salvifica. La scomodità toglie i discorsi inutili, taglia le ripetizioni, evita gli eccessi. Sonia, gli eccessi nelle relazioni sono distruttivi. Ne tenga cinque, non saranno sempre le stesse, lei adesso è giovane ma già le sue priorità stanno cambiando, aspetta un bambino, sarà uno dei cinque, dovrà togliere qualcuno a un certo punto e le sembrerà di tradire o deludere e invece, lei si ricordi, sarà salvifico. È la scomodità il trucco. Stia scomoda nella vita di altri e lasci che gli altri stiano scomodi nella sua. Non dica quello che pensa a tutti, non risponda sempre a ogni domanda, non dia retta nemmeno a me, adesso, ma tra qualche anno ripensi a me, apra la mano e si chieda se chi è comodo ha motivo di esserlo”.

Alla dottoressa Elle il racconto è piaciuto. Mi dice spesso che sono un’ottima narratrice. Io sorrido, di sghembo, scomoda sulla sedia, alzo gli occhi appena sopra la sua testa, verso la finestra. È l’imbarazzo. L’orgoglio mi strizza il mento tra le nocche e mi espande il petto, l’imbarazzo mi sposta lo sguardo verso l’alto, non verso il cielo sia mai, il dolore e la rabbia mi fanno piangere, la felicità mi sorprende e allora mi commuovo, sono comunque lacrime sì, ma lacrime a diverso funzionamento.  Ho aperto la mano e ripescato la scomodità. Dalla camera ardente alla terapia intensiva. E cosa è successo, mi chiede lei. Ma non chiede per fare una domanda. Chiede perché io senta la risposta, lei già la conosce.

Ho sorriso forte.   

4 pensieri su “Mettetevi scomodi

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