Ci sono notti che finiscono alle tre.
O giorni che iniziano alle tre.
Ci provo per un po’ a riaddormentarmi, prendo le misure del letto e dopo poco mi trovo a prendere le misure dei miei pensieri. Alcuni sono belli, quasi poetici, tanto che mi stupisco di me ed allora vado per scriverli ma sono volati via.
Niente.
E’ così.
Provo a rincorrerli ed alla fine sono lì che faccio il cacciatore di uragani in giro per la mia testa.
Questa notte mi sentivo una tazza rotta ed incollata alla come viene, senza troppa cura estetica ma con un approccio teso al recupero funzionale. E mi sentivo precaria, proprio come sono le cose riaggiustate, riattaccate, incrinate. Basta un tocco e possono rompersi di nuovo.
E un tocco è roba di un attimo.
Basta la porta che sbatte per la corrente, basta il cane maldestro.
Basta un rumore.
Basta un nome.
Basta niente, in fondo.
Forse il pensiero di andare in frantumi di nuovo è meno doloroso che andarci per davvero, tanto sai che la colla è lì, sai che riattaccherai tutto.
E pace se qualche frammento andrà perduto sul pavimento e poi per sempre, aspirato velocemente per evitare che le bambine si taglino sotto i piedi, chè sono sempre scalze…
Si può avere funzionalità anche rimessi su con qualche spazio vuoto tra una crepa e l’altra.
Mi sentivo così. E quando mi sento così torno con il pensiero a momenti felici che nella memoria e con gli anni sono diventati felicissimi. Quel genere di ricordi che migliorano con il tempo. Quel genere di ricordi ai quali sarà triste rinunciare tra qualche decennio, quando la nebbia arriverà ad avvolgere tutto, passato e presente.
E senza particolare fantasia penso alla cicatrice che mi attraversa il ventre, appena sopra l’osso pubico. Il mio tatuaggio, la mia crepa. La porta sul mondo delle mie bambine.
Facevo la medicazione senza guardare, perchè mi faceva senso. Giravo la testa di lato, davanti allo specchio, e tamponavo con le garze imbevute di disinfettante. Sempre senza guardare applicavo la crema per avere una cicatrice sottilissima, non di quelle spesse a “gradino”. E poi coprivo tutto con il mega cerotto.
Con scrupolo e metodo.
Due volte al giorno.
Per entrambi i tagli cesarei.
Le ferite sono guarite, la cicatrice non è spessa ma non è sottilissima. E’ Lì, C’è. Si vede. La vedo.
Mi ricorda cosa può, anche, capitare, quando ti rompi e ti riattaccano.
Mi ricorda i miei ricordi, quelli diventati felicissimi.
La bocca di Cristina che cerca il mio mento e smette così di piangere, perchè sente la mia voce, sente che la chiamo per nome.
Ed io sono rotta dalle ore interminabili del travaglio e dall’intervento d’urgenza.
E lei è tutta viola e schiacciata per le ore interminabili di travaglio e si sente strapazzata dalle mani che l’hanno presa dal canale dove si era infilata di sghembo, incasinando tutto.
Ma siamo intere in due.
A volte basta un nome.
Ed io, di nuovo lì, spaventata più di due anni prima, più di sempre perchè consapevole del male, del catetere, della ferita, dei punti , della medicazione, rotta di nuovo, frugata nella pancia “sentirà le mani muoversi”.
Mi sento di nuovo spezzata.
E gli occhi socchiusi di Benedetta, neri come il carboncino da disegno, tutto in chiaroscuro, tutto o nero o bianco, tutto da urlare, perchè lei aveva il singhiozzo nel pancione e mancava ancora qualche settimana e nessuno ha pensato di dirglielo che era ora di uscire.
Ecco perchè piange, piange, piange finchè non la poggiano sul mio petto, senti il cuore? lo senti il mio cuore, tu che lo conosci da dentro questo rumore, lo senti piccola il mio battito tu che sei il mio cuore??
E siamo intere in due.
A volte basta un rumore.