Facciamo che ero

 

Facciamo che io ero la smania di scrivere, si, ma quando è ora di preparare la cena e le ragazze reclamano e i cani aspettano nel loro angolo di casa e il tavolo è vuoto e le parole quelle non si mangiano, pare.
Facciamo che io ero la pioggia quando piove in un giorno di pioggia che non si lavora e non si va a scuola e non si va al mare e non è vacanza è solo un giorno di pioggia e io ero la pioggia mentre scende, proprio in quell’attimo, non prima che cada quando ancora non è e non dopo, sul terreno, ormai rovinata in una pozza. Facciamo che ero la pioggia per chi ama la pioggia e per chi odia la pioggia e quelli che amano la pioggia sono felici e guardano fuori dalla finestra con un senso di compiutezza e quelli che odiano la pioggia sono infastiditi, non arrabbiati, ma pungolati, irritati, nervosi e facciamo che quelli che amano la pioggia poi amano anche il sole perché amare la pioggia non significa odiare il sole mentre per quelli che odiano la pioggia, per quelli, non c’è speranza perché amano solo il sole e sono soli quando piove e sono soli anche quando c’è il sole perché il sole, tanto, non è tutto loro e sono soli perchè devono sempre scegliere e far scegliere tra il sole e la pioggia.
Facciamo che ero mia madre il giorno in cui mi ha trovato i pidocchi in seconda elementare e me li aveva attaccati lei dopo averli presi da una sua allieva, una bambina con le unghie nere di sporcizia e che mangiava un pasto intero solo a scuola, a cui dava i miei vestiti smessi perché io ero piccola, bassa, magra ma lei di più, lei che aveva solo mia madre a farle da madre qualche ora al giorno, lei a cui mia madre riempiva due volte il piatto di nascosto dalle bidelle, lei che aveva mia madre quando mia madre era smessa da me, lei che le attaccava i pidocchi mente imparava a far di conto, io che mi prendevo i suoi pidocchi mentre le prestavo mia madre.
Facciamo che io ero il tempo lento sui banchi di scuola, le finestre sulla strada, il pullman delle sette, l’abbonamento nella tasca alta dello zaino, Invicta, il controllore che controlla, la professoressa che interroga, il dolore che non esplode, resta come si resta in silenzio per giorni per mesi in attesa e non esplode e vorrebbe e non lo fa. Dolore di cosa, poi? Dolore e basta, poi. Facciamo che io ero il dolore di un corpo i cui confini sono incerti e inesplorati, il dolore di una quotidianità dove nulla cambia e tutto si vorrebbe diverso. Il dolore che si dice sordo ma è solo muto e non trova le sue parole e non trova come passare.
Facciamo che io ero una canzone che diceva “Milady, milady sei vecchia e sembri una bambina”, facciamo che io ero ad occhi chiusi e ascoltavo in silenzio.
Facciamo che io ero mio padre il giorno in cui è morto mio nonno e mettevo un bouquet di nove rose tra le sue mani composte con il rosario tra le dita e c’era una rosa per ciascuno di quelli che lo salutavano e mio padre diventava orfano e io pensavo che mancava la parola per me, per la mia perdita, per il mio dolore. Di nuovo.
Facciamo che io ero la timidezza quando è invincibile. Facciamo che io ero il vaffanculo incorporato, lo sguardo duro, il muso lungo. Facciamo che io ero una risata irrefrenabile per qualcosa di irripetibile.
Facciamo che io ero una lista di difetti elencati in ordine di importanza, facciamo che li lasciavamo stare fermi lì, ciascuno per quel che è, che i difetti sono come le colonne portanti di una casa, non si buttano giù senza pregiudicare l’intera stabilità della costruzione.
Facciamo che io ero te. Nel giorno in cui ti hanno chiesto di scegliere tra me e il resto del mondo. Ma era un mondo che valeva poco, quello che chiede di scegliere vale sempre poco.
Facciamo che io ero la tempesta dello sturm und drang.
Facciamo che io ero me. Nel giorno in cui ho scelto te. Nel giorno in cui ho scelto me, dopo, molti giorni dopo aver scelto te. E quel giorno valevo moltissimo, quando si sceglie se stessi si vale sempre moltissimo.
Facciamo che ero un animale e che volevo dire cane perché amo i cani, amo i cani senza limiti e freni e condizioni. Ma facciamo che io non potevo essere un cane. Facciamo che ero un gatto. Che non ti aspetta, che non ti cerca, che sta da solo, che gli dai forse anche noia, che si acciambella su un termosifone o in una cesta e se si muove è sempre per se stesso. Facciamo che ero un gatto, io, che odio i gatti. Facciamo che tu eri un cane. E ti amavo senza limiti e freni e condizioni.
Facciamo che ero una poesia. Di pochi versi, quasi frammenti. Facciamo che ero scritta in un libro appoggiato sul comodino, con un’orecchietta a segnarmi, come un occhiolino di compiacimento. Facciamo che mi leggevi in un giorno di pioggia.
Facciamo che ero un film ma mi addormentavo prima di finirlo, prima della metà, prima dell’inizio.
Facciamo che ero un foglio sottile infilato sotto la porta per salutare. Facciamo che ero lo scotch marrone per chiudere i pacchi e andare via. Facciamo che ero un racconto di Buzzati, un quadro con le vele in tempesta. O con le foglie che cadono in terra. Facciamo che ero Dio e nemmeno così ci credevo per davvero.
Facciamo che ero mia figlia appena nata e solo così ci credevo per davvero. Facciamo che ero le urla di incomprensione. Facciamo che ero l’incomprensione che sfilaccia i rapporti e occlude le arterie e uccide. Facciamo che ero la terapia intensiva e la riabilitazione, la cura e la fisioterapia, l’accudimento e la dedizione. Facciamo che ero la caposala severa e burbera che impedisce le visite fuori orario. Facciamo che ero il senso di giustizia quando è violato, il buongusto quando è oltraggiato, il senso della misura quando è superato. Facciamo che ero la cauterizzazione sulla pelle di un butterato. Facciamo che ero la terapia allopatica all’ingerenza altrui.
Facciamo che ero felice, ogni tanto.
Facciamo che ero sfinita, ogni tanto.
Facciamo che ero in silenzio. Spesso.
Facciamo che ero impassibile. Anzi, impossibile.

Facciamo che ero lì accanto quando succedeva. Facciamo che ci pensavo io. Facciamo che non mi perdevo mai, in un parcheggio alla ricerca dell’auto, in un posto affollato alla ricerca di un viso conosciuto, tra i miei pensieri alla ricerca della parola che definisce un nome, magari il tuo nome, il nome di mia figlia, in casa mia tra una stanza e l’altra. Facciamo che ero al sicuro. Facciamo che ero presente. Facciamo che ero tutto, tutto quel che basta, tutto quel che si sente, tutto quel che occorre a te, a me, a loro, alle rose che restano tra le mani. Le mie. Facciamo che ero la pioggia anche dopo che è caduta, quando la pozzanghera si riempie e dici ai bambini di non saltarci dentro ma loro ci saltano lo stesso e poi arriva il sole e asciuga tutto e chi ama la pioggia ama anche il sole ed è felice, invece chi ama solo il sole si è perso il divertimento di saltare e dice di essere felice ma nemmeno così ci crede per davvero.

 

Dire, fare, baciare, lettera o testamento?

 

Dire

Speravo, speravo sempre di pizzicare il dito di dire. Il pollice, più corto e tozzo, sembra facile da prendere ad occhi chiusi ma mica lo è. Dire o lettera. Che per me era uguale, ma mica per tutti lo era, c’erano quelli che volevano baciare, a me faceva ridere che baciare fosse collegato al dito medio. Speravo dire o lettera, pollice o anulare. Dire. Qualcosa, di scemo, di furbo, di vero, di strano, di oggi, di ieri, di mio cugino, di te, di falso. No, di falso no. Dire anche se mi hanno sempre detto di non dire che non è come dire stai in silenzio e solo come dire: non dire. Non dire, non ne vale la pena, lascia stare, cosa perdi tempo, in fondo “chettene fotte”. Dire perché mi hanno sempre detto che di un bel tacer non fu mai scritto , questo il vessillo  che mi sventola sulla testa dalla più tenera infanzia, da prima ancora di iniziare a parlare e da ancora prima di iniziare a dire, al posto della girandola di apine gialle e nere sulla culla color frassino, quando ancora mi limitavo a sentire questo è quello che sentivo cosicché mi si scolpisse nitidamente nell’amigdala, nel subconscio, nel profondo del sistema limbico, negli strati più interni delle emozioni di modo da rispuntare fuori a distanza di decenni per confondermi e distrarmi. Dire perché chi ti diceva di non dire intanto diceva e allora non vale, allora non è giusto, alloro dico. Dico anch’io. E mentre dico gesticolo. E mentre dico osservo. E mentre dico sento. Ma se non dico più allora non va bene perché vuol dire che sono tornata laggiù, nel fondo, nel doppiofondo, nello spazio celato tra me e me, nello strato sottile che c’è tra prima e dopo. Quando vado lì non va bene, non perché ci stia male ma perché non si sa mai se torno. Quando vado lì mi serve che qualcuno imbrogli un po’ allungando il pollice, portandolo accanto alle altre dita, mi suggerisca come pizzicarlo. E  mi dica che si può dire.

Fare

No, fare no. Una capriola, una flessione, qualcosa che mi rivelasse quanto ero scoordinata e impedita, no grazie. Fare no e questo dito indice sempre lì, puntato come la canna di una pistola e tutti che invocano la legittima difesa e invece è solo bestialità questa cosa di indicare, di additare e di obbligare a fare e di obbligare a essere quel che si fa che può anche essere, anche se non mi convince. Siamo quel che facciamo ed allora io ho fatto un brutto sogno, ho fatto i compiti ma non sempre, ho fatto due figlie come se fossero di argilla, le ho modellate e le ho cotte bene che non si crepassero e le ho decorate con colori che resistano al tempo. Ho fatto quel che ho detto e ho detto che avrei fatto, non ho detto che avrei taciuto e non ho fatto silenzio, ho fatto il castigo, ho fatto tardi e invece ero in anticipo, ho fatto l’imitazione di chiunque mi passasse a tiro, ho fatto ridere ma ancora non basta, ho fatto tremare la terra come Demetra quando hanno puntato l’indice sulle mie creature d’argilla, ho fatto piangere e forse non basta, ho fatto una deviazione e invece era il percorso. Ho fatto paura, ho fatto innamorare, ho fatto disinnamorare e l’ho fatto con me stessa anche  ed è come farlo più forte e ho fatto l’amore e ho fatto un giuramento, uno, uno solo ma l’ho fatto a me stessa ed è come farlo più forte, ho fatto il bello e anche il brutto tempo, ho fatto la guerra, non faccio la pace, ho fatto un sogno ed era bello e alla fine ho fatto una capriola e anche una flessione. Ma non mi convince.

Baciare

Il dito medio è sempre lui, con la sua fascinazione, con quel rimando facile allo schema stimolo-risposta. Se pizzichi il dito medio allora la tua penitenza è baciare. Io non volevo, più la vergogna della curiosità. Più il desiderio di baciare, il sogno di baciare, il silenzio di baciare che di un bel baciar non fu mai detto. Andrea aveva quindici anni ed era di Vipiteno, io ero più piccola ed ero di Rivoli. C’era il mare, l’estate, nessuno a guardare, nessuna penitenza e se c’era una canzone l’ho scordata, ma l’indirizzo di casa sua no. Desiderio e sogno, con quel rimando facile allo schema stimolo-risposta. Poi era Avigliana, il lago, il parcheggio di una discoteca che oggi forse non esiste più, la canzone era Serenata Rap, gli occhi erano neri, i miei, i suoi, il profumo era buono misto di Marlboro, le speranze tutte lì, tra quattro occhi neri e il silenzio del lago nel casino di una discoteca. E di nuovo era Sardegna, il curvone della strada per arrivare al parcheggio del villaggio, una mano dentro l’altra come i nodi delle reti dei pescatori che li fanno in fretta, abili, e nessuno li sa sciogliere e infatti nessuno l’ha sciolto, in fondo, quel nodo è sempre più piccolo si ma sempre lì e la canzone era quella di un vento selvaggio  e del profumo del mirto ed eravamo così noi che sembrava di sognare. A Milano ci si bacia sotto la pioggia, invece, prima di salire su un motorino, con le dita a pizzicare lo scatto della chiusura del casco, con la pancia sulla schiena e la canzone è dei Lunapop e racconta di vespe truccate, sa di estate appena finita e trattenuta, un pezzo, un pezzetto che sta lì, tra la pancia e la schiena, dove batte il cuore, dove si chiude lo stomaco, a Milano ci si bacia anche a Torino che sembra Milano, sotto la Mole nella sera dei miei ventidue anni, “vedi, qui è dove vengo all’Università, si chiama Palazzo Nuovo”- “no, vedo te, preferisco”.  In una macchina bianca sportiva ci si bacia di nascosto. È aprile, è tardi, è fidanzato. Ma è aprile, è tardi, è qui che voglio stare, che è come baciare più forte. È come giurare.  Per chi non si ritrova in queste descrizioni c’è il dito medio.

Lettera

Si, lettera si, va bene. Posso decifrare i messaggi sul palmo della mano, sulla schiena. Un cuore, un’iniziale, una frase. Basta pizzicare l’anulare, facile, subito prima del dito corto. Facile. Come scrivere una lettera, come scrivere una lettera addosso e saperlo. Vai a saperlo. Vai a capirlo, quello che scrivi addosso agli altri quando scrivi , quando lasci scorrere il dito che sembra facile. Lettera va bene. Ma la scrivo io. È una lettera d’amore. È una lettera di addio. È una lettera mai spedita, lunga otto pagine, scritta a mano. È una lettera mai ricevuta, ma so che è stata scritta, lo so, occhi neri. È una lettera arrabbiata, offesa, imbucata come se fosse un’arma, arriva e morirai. No, non sei morto e Milano non sembra più Torino. È una lettera come una mail per dirvi che siete maleducati, per giocarmi la carta, odiosa, del “non hai figli non puoi capire”. Sarà odioso ma è vero. È una mail nella quale vi dico che mia figlia è immensa, voi piccoli, e mentre lo dico sono Demetra. È una lettera in una bara, chiusa lì dentro e spinta in fondo a un loculo con sopra una lapide con sopra un’incisione che è il mio cognome nella pietra in un giorno di aprile ed è stato come giurare. È una lettera ancora, una sull’altra, sempre diverse, sempre per la stessa persona, buttale via un giorno che sai, solo che scrivere a te è come scrivere più forte.

Testamento

Non si è mai capito. Non penso di aver mai preso un mignolo, nemmeno per sbaglio. Non ero nemmeno capace di inventarmi penitenze particolari. C’era chi diceva dieci, fiducioso, io ho un’indole prudente e non avrei mai superato il due. Non sono avida, potevano essere carezze o sberle, nel dubbio sceglievo la morigeratezza. No, testamento non era per me. E poi sapevo già cosa significava la parola, persino cosa fosse il testamento olografo e quella formula che mi piaceva “nel pieno possesso delle mie capacità…”.  Oggi, nel pieno possesso delle mie capacità mentali (?), disporrei solo di ciò che non può essere diviso. Lascerei tutte le mie lacune perché venissero colmate per me. E la mia assoluta incapacità di perdonare che mi rende così vera e soprattutto così poco superba, perché, dai, quanta superbia e spocchiosità c’è in chi perdona? Infinita. Il perdonante si sente moralmente superiore al perdonato. Odioso. Lascerei i quaderni di appunti con la mia grafia incomprensibile e il compito di trovare una nuova stele di  Rosetta, chiamatela stele di Benedettadettapepe. Lascerei le lacrime versate come antidoto alla banalità. E le risate smodate come kryptonite. Lascerei la libertà di scelta per la quale mi sono battuta sempre. Lascerei ogni problema risibile perché di quelli è fatta la vita. Lascerei i ricordi di me cristallizzati per non vedermi trasformare dopo, raccontare in modo inesatto, impreciso, lascerei ciò che sento in un punto perché venga visto non più con i miei occhi ma attraverso i miei occhi. Che è come dire di me, ma più forte.