Consigli non richiesti

 

Sei nata nel nostro villaggio, 16 mesi fa oggi. Sei contata in mesi, ancora. Sei contata in versi di animali che impari, quanti ne sai adesso? Il cane, il gatto, il pesce, ieri sera mi hai fatto il pesce che schiude le labbra e resta muto. Sei contata in sedute vaccinali che mancano al compimento dell’obbligo. Stamattina ne avevi ancora una. Sei contata in laringiti invernali, le tue cugine erano contate in otiti e broncospasmi, ciascuno ha le sue. Sei contata in risvegli notturni, in denti che spuntano, in rigurgiti in auto alla prima curva, prima della prima curva, quando vedi la prima curva.

Sei nata nel nostro villaggio e poteva andarti molto meglio. Ma anche molto peggio. Sei nata nel nostro ecosistema osmotico e qualcosa significherà. Qualcosa comporterà, nella tua vita, nel modo in cui funzionerai, nel modo in cui sceglierai, nel modo in cui reagirai. Qualcosa non ti piacerà di tutto quanto ti sarà stato passato insieme al nutrimento in questo villaggio sgangherato e strano. Qualcosa ti mancherà per sempre quando sarà finito. Qualcosa chissà. Mi racconterai il tuo qualcosa, un giorno tra tanti, quando ci conteremo come si contano i superstiti, quando saprai cosa conta, cosa conta per te e solo quello sarà importante da tenere a mente. Spero che me lo racconterai.

Fino a quel giorno, tra tanti giorni, tocca a noi contarti e raccontarti. E lo facciamo per come siamo capaci, sai. Tocca a noi darti e prenderti, sollevarti, guardarti, lasciarti. Facciamo tutto con il ti in fondo ai verbi, ogni azione del villaggio prevede questa particella al fondo, il ti che sei tu, il ti che è per te, il ti che è a te. Siamo strani. Scoordinati, a volte impacciati. Mica per i tuoi 16 mesi, figurati. Ti. Ci impaccia e ci impiccia la salita degli ultimi tempi, le scelte degli adulti che ti riguardano. Quanti ti anche qui, li senti. Ti. Ci faremo una canzoncina, sai, con questi ti. Li infiliamo tutti in una sequenza di parole stonate e ci inventiamo un balletto, di quelli stupidi. Ti va?

E allora ti tocca il villaggio e quel che c’è. Una volta si diceva quel che passa il convento, porta pazienza con me, il mio agnosticismo mi fa ripiegare su una scelta verbale  che sia  a metà tra i cartoni animati della mia generazione e le vacanze da ragazza, con gli animatori e il gioco aperitivo. Innamorati di un animatore nella vita, almeno una volta. Non del capo animazione, troppo esposto. Nemmeno di quelli degli sport in spiaggia, sempre circondati da smutandate accaldate. Io avevo puntato tutto sul maestro di tennis. In campo dalle 10 alle 12, libero quando tutti erano a pranzo. Io mi ero innamorata della sua voce, prima di tutto il resto. Non lo avevo ancora visto, lo avevo solo sentito parlare, dietro di me e avevo sentito qualcosa spostarsi, dentro di me. Comunque, guarda Dirty Dancing appena potrai. Io mi ci sono formata.

Metti la crema solare, metti la protezione alta in viso, quasi lo schermo totale. Non è una metafora, questa. Davvero. Proteggi la pelle e abbine cura. È la prima sensazione che diamo, è la prima cosa che siamo. “A pelle” è una motivazione validissima da addurre. Ti diranno che non è scientifica, che non è corretto, ti diranno che hai delle manifestazioni uterine, che sei in preda agli ormoni e non hai capacità di discernimento. Stronzate. Vai di crema solare e poi via a pelle.

Qualche pelo tienilo. Non sulla lingua, però. Tienilo dove non vuoi lasciar correre, scivolare, dove vuoi l’attrito che ti fermi un po’ nella velocità che tanto tutto è nella resistenza, sai. Non serve essere più veloci. Serve resistere. Tieni qualche pelo sullo stomaco, non tanto e non solo per avere coraggio ma per mantenere la capacità di non far scendere giù qualunque rospo. Vomita. Appena vedi le curve, vomita. Non è un problema come penserai, a un certo punto lo penserai. Il problema è trattenere.

Non accumulare, vivi senza risparmiare. Non ti servirà niente di quello che metterai da parte. Il vestito più bello, indossalo appena lo compri. La borsa più elegante che avrai usala tutti i giorni. Vivi senza risparmiarti. I patrimoni sentimentali non maturano interessi. Fatica tutta la fatica, ama tutto l’amore, odia tutto l’odio, bacia tutti i baci, ridi ogni risata e versa ogni lacrima e poi inizia di nuovo tutti gli inizi e fatica tutta la fatica, ama tutto l’amore, odia tutto l’odio, bacia tutti i baci, ridi ogni risata e versa ogni lacrima e poi inizia di nuovo tutti gli inizi.

Sii onesta quando ti mentirai da sola. Riconosci che lo stai facendo. Fallo, tu fallo lo stesso. Poi scopriti da sola, rimproverati, ammonisciti. Ti. Cantati la canzoncina del ti, sorridi pensandomi,se te la ricorderai. Altrimenti chiamami. E se me la sarò scordata anch’io la reinventeremo da capo. Quel ti sarai tu a farlo. Solo che sarà un mi. Sii onesta con tua madre e tuo padre quando dovrai vederli per quello che sono, che saranno. Riconosci che sono persone, persone e basta. Che hanno preso la loro strada e che non c’erano altre strade. Le strade che prendiamo sono le sole da prendere, il resto fa parte delle ipotesi e vanno bene per farci una serata di chiacchiere. Riconosci che sono stati la tua fortuna. Riconosci che la fortuna è solo la sorte, poi siamo noi a decidere se quella fortuna è buona oppure no. Spera, comunque, in una botta di culo ogni tanto.

Non copiare, a scuola. Inutile. Hai il mio dna mitocondriale, la furbizia non ti è stata data in questa vita. Saresti beccata subito e proveresti vergogna. Studia anche le note a piè di pagina, non saltare capoversi o paragrafi e men che meno capitoli. Il nonno si presentò a Diritto Privato senza aver studiato la rappresentanza e fu quella la prima domanda. Io ho fatto una cosa simile all’esame di Diritto Commerciale e ovviamente l’esito è stato simile. Quindi, lascia perdere, Gigi. Studia tutto lo studio.

Usa il tuo nome per intero, ma non a casa, non nel villaggio. Non ti capiremmo. Prenditi questo Gigi come Pepe si è presa Pepe, come tua madre si è presa Kia o Barabba ma non dirglielo tu che sono cose tra lei me e zio, come io sono So’. Usa il tuo nome dal sapore romantico e foriero di speranze per stringere le mani che troverai nella vita, accompagna la stretta con un sorriso e poi via a pelle, per decidere se stringere ancora o lasciare e passare il palmo sul pantalone ripulendoti. Ti. Usa il tuo nome per intero ma non lasciar credere a nessuno che sia un diritto pronunciarlo. Il tuo nome deve essere una conquista per chi lo fa suo, per chi lo inserisce nei suoi pensieri. Non sei un diritto di nessuno. Al “per sempre” preferisci il “per niente”. Scegli quello a cui non rinunceresti per niente al mondo, e poi via a pelle. Il per sempre è una follia degli uomini. Siamo presuntuosi, Gigi. Pensiamo che ci sia qualcosa per sempre. O siamo bugiardi. Pensiamo che ci sia qualcosa per sempre.

Gira nel mondo come un punto interrogativo, con quella forma ad uncino rovesciato- ?- come un amo di quelli che il nonno usa per pescare. Gira nel mondo per fare domande, per essere una domanda, tante domande, contati a domande se possibile. Incontra altri punti interrogativi, trova il punto interrogativo. Il. Quello che quando sarete uno di fronte all’altro sembrerà di veder un cuore e non due punti interrogativi. Poi guardalo come si guardano i punti interrogativi. Indagalo come si indagano i punti interrogativi. E non pensare alla forma del cuore, quella è una cosa che si vede da fuori. Contano i punti interrogativi, nessun punto interrogativo è mezzo cuore, capito? Nessuno è mezzo. Uno è uno, che sia un punto interrogativo o un uncino, o un amo o un cuore. Tu sei un punto interrogativo, tu sei un cuore, tu sei un uncino. E un amo. Chiedigli come fa il pesce. E buttati. Come un amo, buttati. Ti.

Che sia una buona fortuna, la tua, Gigi.

 

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Quel che so

 

Quel che so oggi non conta. Questa settimana, di questo mese, di questo anno che già mi sta sui coglioni.

Quel che so poco importa, tanto lo dimenticherò. In parte. A pezzi. Alopecia della conoscenza, sarà brutto da vedere, sarò brutta da sentire con il mio sapere frammentario, quoziente di una vita divisa per episodi. Chissà se darà il resto, l’operazione. Trattandosi di me penso di si. Darà il risultato e pure il resto.

Quel che so oggi mi irrita. Mi prude. Mi “crude”, dicevano le mie figlie da piccole. Mi fa vomitare. “Gomitare”, dicevano le mie figlie da piccole. Quel che so, oggi, è crudo, crudele, molesto come una gomitata su un fianco, lì dove dovresti trovare accanto quelli che vuoi accanto e, invece, spesso ci trovi uno che ti rifila un colpo per superarti. O per rallentarti e basta, che è ancora più meschino.

Quel che so è tutto vero. Quel che so non è vero per niente. Tutti i Cretesi mentono. Achille non raggiungerà mai la tartaruga. Quel che so è un paradosso. Quel che so è che non so abbastanza. Quel che so è che non so niente. Pepe l’altra sera si è arrabbiata con suo padre, non so per cosa, qualcosa, a lei capita di arrabbiarsi, prendere fuoco e spegnersi e in genere nel farlo scaraventa per il mondo una qualche rivelazione. L’altra sera gli ha detto “tanto tu non sai neanche di non sapere”. Quel che so è tutto scaraventato.

Quel che so qualcuno me lo ha insegnato. Hanno messo un segno nella mia mente. Hanno lasciato un’ impronta. Qualcuno mi ha insegnato qualcosa. Qualcuno mi ha insegnato a guidare, a svoltare a sinistra dando la precedenza a chi arriva da davanti. Qualcuno mi ha insegnato le divisioni, cos’è il dividendo, cos’è il divisore. Il quoziente. Il resto, se c’è. Qualcuno mi ha insegnato la costruzione di una frase in greco,il verbo, dannazione il verbo dove va messo, così lontano. Qualcuno mi ha insegnato a mettermi in fila, ad aspettare, a dire grazie prego buongiorno buonasera il padre nostro e l’eterno riposo. Quel che so qualcuno me lo ha insegnato mettendosi davanti a me. Accanto a me, dove c’è la curva del fianco. Dietro di me, con la mano che prende la mia e ricalca la lettera h in corsivo maiuscolo, dannazione come si fa.

Quel che so l’ho imparato. Io mi sono procurata quel che so, questo è imparare: apparecchiare, predisporre, procacciare da sé. Ho imparato a parlare davanti a un gruppo di persone di quel che so. Improvvisando quel che non so. Ho imparato a riconoscere il pianto di fame e distinguerlo da quello di pannolino da cambiare. Ho imparato a consolare. Gli altri. Ho imparato a non fare domande quando lo sguardo è scrostato. Ho imparato a farne quando è incrostato. Ho imparato ad abitare la mia vita dandomi il diritto di superficie così ho imparato a costruire. Sopra, edifici, stanze, palazzi. E sotto, cantine, autorimesse, locali di sgombro. Soprattutto sotto. A mettere sottosopra. Ho imparato a dire Grazie. A pregare preghiere nuove. Ho imparato ad allontanarmi, non prestando il fianco. Ho imparato che chi scegli di avere accanto a volte è lo stesso della gomitata. Ho imparato che il problema della gomitata è di chi la dà.  Ho imparato a distinguere gli infelici dai felici. I felici sono belli e si fanno i cazzi loro. Gli infelici sono brutti e si fanno i cazzi miei. Tra chi mi legge ci sono tanti felici. Belli che siete. Grazie. Qualche infelice. Li distinguo da come prendono queste parole. Queste parole riguardano me o riguardano te? Se parlo di me e tu te la prendi sei felice o infelice? Se parlo di me e tu pensi che io parli di te sono io brava bravissima a trascinarti nei miei locali di sgombro facendoteli credere tuoi o sei tu egoico e infelice, quindi brutto? E’ il paradosso dell’infelice. Ho imparato che mica mi devi stare accanto per forza. Ho imparato che si può cambiare idea e si può cambiare strada e si può cambiare e basta.

Quel che so l’ho ereditato. Quel che so l’ho guadagnato. Quel che so l’ho inventato. Quel che so è reale. Quel che so è tutto inutile. Buttate via tutto. Quel che so è fondamentale, non si può stare senza, non si può vivere senza. Quel che so lo dico a tutti. Quel che so me lo tengo per me, figuriamoci se do le perle ai porci. Quel che so è prezioso. Quel che so vale niente. Quel che so è tutto qui. Tra le mani, le mie. Nelle dita, le mie. Dietro gli occhiali, i miei. In mezzo ai capelli, i miei. Tra le pieghe degli abiti, nelle tasche interne delle borse, sotto le scarpe, le mie. Quel che so è tutto lì. Fuori, nel mondo, scaraventato lontano da andare a recuperare. Da lasciar perdere. Quel che so oggi, ma oggi proprio no. Questa settimana lasciamo perdere, di questo mese. Quest’anno, poi, che già mi sta sui coglioni con i suoi casini che si sono ossificati in un attimo e ci vorrebbe qualcuno che mi insegni come si fa. A non tornare. A frantumare. Quel che so è scomodo e se potessi non lo vorrei indossare. Quel che so è ruvido e se potessi non lo vorrei sfiorare. Quel che so è accogliente e se potessi mi addormenterei. Quel che so è liscio e se potessi vorrei scivolarci su e giocare. Ci vorrebbe qualcuno che mi insegni come si fa.

Quel che so mi basta. Quel che non mi è sufficiente. Quel che so fa ridere, quel che so è tremendo. Quel che so riguarda me. Quel che so riguarda il mondo. Riguarda te. Quel che so dipende da me. Quel che so prescinde da me. Come il cuore. Quel che so è tutto nel cuore. Quel che so è tutto nel cervello. Quel che so è sotto i piedi, oggi. Questa settimana, di questo mese, di quest’anno che già mi sta sui coglioni. Quel che so è aulico, intenso, vibrante. Quel che so è rozzo, banale e deludente.

Quel che so sono io. Sei tu. La mia felicità, la tua infelicità. La tua felicità, la mia infelicità. Quel che so lo insegno. Quel che so non lo impari. Quel che so te lo racconto in silenzio, sotto, qui sotto, dove tutto è sottosopra.

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Non c’è mai solo quello che si vede

 

Bimbe mie belle, ora mi spiego.

Diffidate da chi inizia a parlarvi dicendo “ti spiego”. Come se foste voi a non capire. È molto più probabile che stia prendendo tempo per trovare il modo di rivendervi una versione stazzonata della realtà. Non accettate verità stropicciate e sappiate che non dovrete guardarvi dagli sconosciuti, purtroppo. Non sono mai gli sconosciuti. Rifuggite dalle spiegazioni non richieste, dalle premesse, dai preamboli che distraggono dal fatto e da chi ha fatto quel fatto e che si sofferma troppo sull’antefatto.

Tutto ciò premesso, bimbe mie belle, ora mi spiego.

Voi lo sapete, lo so che lo sapete, non c’è mai solo quello che si vede, anzi. Dietro ogni maschera c’è un volto, su ogni volto almeno due facce e tra quelle pieghe trovate impresso il segno di cosa è successo, di cosa ha sconvolto per sempre una faccia su un volto dietro una maschera. Non è detto che riusciate a trovarlo subito, non è detto che si veda da lontano, ma voi cercatelo e abbiate cura, quando entrate nelle vite altrui, di quel segno strano. Abbiate la cura che si ha con un neonato. Abbiate la tenerezza che si ha con un cane abbandonato. E poi cercate ancora. Il posto dove stanno i presagi. Ognuno di noi li mette da qualche parte, cercate quel punto e cullatelo nello sguardo, che sia uno sguardo rispettoso.

Bimbe mie belle, ora mi spiego.

Siamo tutti il prodotto di un diniego. Abbiamo tutti il marchio di un rifiuto, di chi ci ha scartati senza cura, di chi ci ha dimenticati. Siamo tutti feriti, abbiamo tutti una cheloide che indica dove la trama è diventata riassunto, che rivela quanto è durata la suppurazione. Io ce l’ho sullo sterno, dietro lo sterno, dentro lo sterno. È stato un pugno, come una spinta, forte da togliere il fiato e lasciare i sospiri, storie che tolgono il sonno e lasciano i deliri. Ha fatto così male perché avevo la corazza, strano, vero? Eppure è così. Avevo la pelle spessa e ostile e quando sono stata colpita sembrava niente e invece sotto la scorza c’era un dramma, ma non si vedeva. Voi lo sapete, però, non c’è mai solo quello che si vede.

Bimbe mie belle, ora mi spiego.

Il solo modo di non avere un’armatura che amplifica i danni, celandoli, è toccare, toccarsi, farsi toccare. Vi accarezzo e vi stringo e vi coccolo e vi bacio perché siate morbide e lisce e non vi venga la pelle ruvida. E tolgo anch’io ogni giorno un pezzo, lascio andare ogni volta un brandello spesso e mi preparo e la mia mano si fa sempre più tenera sui vostri corpi sempre più alti e sempre meno incerti e siete così vere e così vive che vedrò il vostro segno del diniego quando arriverà e non potrà uccidervi e nemmeno tramortirvi e nemmeno impedirvi di respirare perché vi attraverserà senza trovare impedimenti, vi abiterà come si abita una casa comoda e poi occuperà un posto, piccolo e le vostre cicatrici resteranno chiare e lisce. E non farà male per sempre.

Bimbe mie belle, ora mi spiego.

Io trascorro le notti dondolando parole. Alternandole e ripetendole. E sono parole che quasi mai confrontano ma sempre più spesso confortano. E sono parole che mi servono a mettere in luce quei pensieri che non voglio chiarirmi. Bimbe mie belle, sono i pensieri che nessuno vede. Voi lo sapete, però. Non c’è mai solo quello che si vede. Io trascorro le notti a cercare dei posti dove appoggiare tutto quello che sento. Il dolore dietro lo sterno. Il brusio di sottofondo. Le ferite ricucite. I sogni. Le paure, al plurale come i sogni. E come le ferite.

Bimbe mie belle, ora mi spiego.

Sono tante le cose alle quali non credo. Non mi basta mai solo quello che vedo. Sono infilata in strane emozioni, non nutro grandi speranze mai, in generale, verso nessuno, per niente, mi srotolo tra dispetti e ironie indecifrabili. Osservo. Mi gingillo tra le vite passate e per ciascuna mi trascino dietro una scatolone come da traslochi approssimativi. Ci ritrovo una canzone, più di una, una cartolina, delle fotografie, un brandello di corazza. Non ci ritrovo le carezze, per quelle ho aspettato voi. Non ci ritrovo il modo di stare al mondo di oggi, ma so che devo guardare con più attenzione perché è sicuramente tra quelle pieghe, tra quelle piaghe. Anche se non lo vedo, non significa nulla. Voi lo sapete. Tra una carezza e l’altra voi lo sapete già. Non c’è mai solo quello che si vede.

Bimbe mie, ora mi spiego.

Tra tutto quello che non si vede voi cercate.  Cercate me, anche me. Quando non mi vedete, quando non sapete. Aspettate con gli occhi chiusi, come il mattino quando apro le porte delle vostre stanze. Sapete che ci sono, sapete già anche se non mi vedete. Tra tutto quello che non si vede voi cercate. Un segno, un graffio, un presentimento, lo stupore, il rumore. Il pentimento. Il perdono. Tra tutto quello che non si vede voi cercate. E abbiate cura di essere chi siete. E abbiate cura di dove poggiano le vostre mani. Accarezzate, non aspettate. Non abbiate paura degli sconosciuti, il dolore è sempre ambito di chi ci conosce. E abbiate cura di me, quando mi troverete dentro di voi, senza vedermi, in un punto che saprete. Voi lo saprete. Non c’è mai solo quello che si vede.