Dedicato (attenzione contiene tracce di polemica)

 

Alle cameriere dei bar di paese, con un tatuaggio sulla caviglia o sul polpaccio, con la riga nera dell’eyeliner Kiko, sempre quella sempre uguale dagli anni novanta, come Kelly di Beverly Hills, ore di esercizio in bagno invece di studiare, da ragazzine, tecnica perfetta, sempre quella, sempre uguale. Alle cameriere dei bar di paese che quando smontano dal turno c’è sempre un Loris o un Denis o un Chris con l’acca e con un’alfa rossa, o nera, fresca di autolavaggio a gettoni, ad aspettarle ma mai, mai, a prenderle. Mica come Kelly di Beverly Hills. Alle cameriere dei bar di paese che sanno tutto di quel che succede nel bar del paese. E basta.

Alle madri dei maschi, quelle che trattano i propri figli come se avessero disturbi dell’apprendimento. Quelle madri che vestono ragazzini di dieci anni e gli asciugano i capelli dopo la doccia-fatti la doccia, vuoi una mano?-e gli tagliano la pizza. Alle madri dei maschi che  chiedono aiuto alle proprie madri per crescere un maschio.  Alle madri dei maschi che non hanno mai capito come funzionano, i maschi.

A me che per fortuna degli uomini e delle prossime generazioni di donne  non ho figli maschi.

A mio nipote, maschio, che nascerà a breve. Mi scopro ad aspettarlo, chissà come funziona.

A mia nipote, femmina che allarga le braccia più che può quando le chiedo “quanto bene a zia?”, strana che è, chissà come funziona.

Alle madri dei maschi, quelle che ci provano. Io vi ammiro, siete le mie preferite. Io non sarei capace, per carità.

Alle nonne, quelle che parlano male delle madri dei loro  nipoti nei cortili delle scuole insieme alle altre nonne. Vi sento, vi vedo. Voi che avete cresciuto i vostri figli trattandoli come se avessero disturbi dell’apprendimento e ve ne andate in giro tronfie. Non avete fatto un capolavoro, sappiatelo.  Qualcuno deve pur dirvelo. Tendenzialmente quell’ingrata di cui sparlate si è fatta un mazzo così per rimediare a tutte le idiozie che avete inculcato nelle teste dei vostri figli, dopo averle asciugate dopo la doccia prima di sminuzzargli il cibo. Una gamma di sciocchezze che vanno dal “se mangio un biscotto poi per tre ore non posso fare il bagno” al “la mollica del pane lievita nella pancia e uccide” passando per la frutta a cui “togliere la pelle”invece di sbucciarla. Altro che alla frutta. A voi toglierei la pelle.  Vi sento e vi vedo. Ve lo meritavate tutto quello che le vostre suocere dicevano di voi. Ecco.

A quelli che ce l’hanno fatta. Beati. Come si sta? Bene? Com’è poi avercela fatta? Spero sia stupendo visto quanta fatica è costato. Insomma, ci vanno garretti d’acciaio per arrivare dove siete arrivati, no? Considerando da dove siete partiti, poi. Dal mangiarvi le unghie dei piedi sul divano guardando Supercar, diciamo che per salire bastava poco, però bravi, complimenti. Avete le scarpe che volevate, quelle inglesi, il paltò comprato in centro, avete poi preso anche degli aerei, bene, viaggiate. Sembrate quasi  uguali a quelli che non hanno i vostri polpacci grossi perché non hanno dovuto faticare per nulla. Perché ci sono nati che avevano già vinto nella vita. Quasi uguali, però. Attenti, non abbassate la guardia, basta un attimo di distrazione e si vede, si nota la differenza, la sbavatura, attenti. Si vede che nella vostra storia in realtà era scritto di aspettarla quando smontava il turno al bar, ammazzando una zanzara senza sporcare il cruscotto.

Alle donne che in palestra non si fanno la doccia dopo l’allenamento. Si tamponano con un asciugamano, si spruzzano del deodorante, passano la chioma sotto il phon e vanno via. Come cazzo fate?!

A quelli che hanno votato per quello, il coatto bulletto da scuola media che fa l’assaggiatore nelle sagre. Esistete davvero?

Alle rappresentanti di classe. Perché lo fate?

Alle mie amiche salvavita, che sono solo due. Alle loro ferite, alle loro storie, alla nostra storia, al tempo che ci sgualcisce eppure siamo sempre più belle, alle botte, ai lividi che ci sono fioriti addosso e che esibiamo come ornamento, alla resistenza che vuoi mettere con la moda della resilienza? A noi che di questa storia siamo le partigiane.

A mia figlia Pepe che si trova bellissima. A mia figlia Pepe che ieri mi ha raccontato di questa ragazzina che piace a tutti precisando che non è vero perché a lei non piace, quindi già non si può dire che piace a tutti.  “perché non ti piace ? è carina”-“ha la faccia schiacciata, sembra un plum-cake e poi ha vestiti di marche che nessuno conosce ” (Armani & co). A mia figlia, alle sue gonne di tulle di Zara, a chi ti dice “se a me non piace, allora non è vero che piace a tutti”. A mia figlia Pepe, che è bellissima.

A mia figlia Cristina che assomiglia a suo padre ma, sorpresa: quanto di me nei suoi  sguardi. A mia figlia Cristina che non sopporta quelli del “siamo tutti uguali”-“facciamo uguale per tutti” perché non è giusto. Perché i propugnatori  del siamo tutti uguali hanno creato la diffidenza per chi è diverso. A mia figlia Cristina che sa che siamo tutti diversi, evviva, a mia figlia Cristina che è uguale a suo padre e diversa da suo padre, a mia figlia che sa che se siamo tutti diversi allora, davvero, possiamo pensarci uguali.

A quelli a cui scrivi una mail e non rispondono. Ma poi la fanno leggere a tutti, anzi a molti, perché a me non l’hanno fatta leggere. A quelli che non rispondono ma non cancellano. Eppure c’è il cestino, anche nella casella di posta elettronica. Ma sono abituati a tener da parte, hanno imparato a suon di scorrettezze mentre scalavano  per arrivare in alto e farcela.

Alle famiglie tradizionali, quelle giuste, che bellezza, che ordine. Il primo posto dove ci si sente amati e protetti. E giudicati. E inadeguati. Alle famiglie arcobaleno, che arrivano sempre dopo i temporali e magari ci trovi anche il pentolone d’oro. Alle famiglie monogenitoriali dove ci si arrangia un po’ di più forse. Arrangiarsi è la mia declinazione preferita dell’amore.  Perché arrangiarsi è come aggiustarsi reciprocamente. Perché a volte quel che commuove non è il testo, ma l’arrangiamento. Alle famiglie allargate, se davvero riescono. Alle famiglie estese che non riescono mai. Sappiatelo.

A quelli che vanno via. Che lasciano. Che smettono di amare. A quelli che iniziano ad amare e poi smettono di amare, come si fa con una disciplina sportiva. A quelli che non lo sanno quando hanno smesso, non sanno dirtelo. E non sanno dirti altro, devono chiedere, non sanno, non sanno più niente all’improvviso, prima sapevano tutto e non mancavano mai di sottolineare evidenziare far risaltare questa loro onniscienza e poi così,di colpo, slatentizzano il loro disturbo dell’apprendimento infantile.  Non sanno più nemmeno perché ti hanno amata. A quelli che non è mai colpa loro. A quelli che, secondo me, pure due schiaffoni però, con le mani aperte e  le braccia larghe. Quanto bene?!

A quelli che fanno come gli pare ma tu no. A quelli che dicono cosa vogliono ma tu no. A quelli che non devono darti spiegazioni ma tu si. A quelli che tu sei una schifosa ma loro no. A quelli che buttano i pacchetti di sigarette vuoti per terra. Eppure c’è il cestino. A quelli che invece di “vedere” “visionano” (giuro che è reale, anzi “veritiero”, giuro è vita vissuta potrei andare avanti all’infinito).  A quelli che il titolo di studio non serve e sono sempre quelli che non ce l’hanno, però. Perché gli altri lo sanno che non serve, non hanno bisogno di dirlo. A quelli che è sempre un “ti spiego” per mettere una patetica pezza sull’ennesima cazzata. No. Non spiegarmi.  Non ne saresti capace. Usa la pezza per coprirti il faccione cadente e sparisci.

A quelli che non si sono riconosciuti, per evidenti disturbi dell’apprendimento.

A quelli che si sono riconosciuti e non possono farci nulla.  Quanto bene?

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Una di quelle

 

Una di quelle, ecco, sono una di quelle che vede il lampo e aspetta il tuono. Non conto i secondi che passano tra i due, non chiudo le finestre ma mi giro verso di lui e gli dico “non è che mi lasci? “ e conto i secondi che impiega a rispondere “no, figurati” . Sono una di quelle che è stata lasciata durante un temporale, da lui, quello che adesso mi dice, sempre, no figurati. L’unica volta che mi ha lasciata mi ha lasciata così. Era un giorno che era notte e non mi aveva detto che mi stava lasciando, io l’ho capito che era andato via e allora sono salita in macchina e ho guidato sotto il temporale fino a un posto in cui non avrei dovuto trovarlo e invece era lì. L’avevo trovato dove lo stavo perdendo. Da quel giorno che era notte ogni volta che c’è il temporale io vedo il lampo e aspetto il tuono, non conto i secondi e non chiudo le finestre ma mi giro verso di lui che un giorno che era notte si è preso il mio amore per i temporali e me lo restituisce un po’ alla volta con quel “ no, figurati”.

Sono una di quelle che il mattino no, grazie, no. Non devo vedere, sentire, parlare, pensare. Si, sono una di quelle che il mattino odia tutto e tutti e i suoi genitori per averla messa al mondo costringendola a vivere in un sistema che prevede l’obbligo scolastico e l’ingresso alle 8  e le sue figlie per essere nate in un sistema che prevede l’obbligo scolastico e l’ingresso alle 8. Odio lui che si alza, sempre, sorridendo al mondo, alla vita, a me, persino a me. Allora mi alzo un’ora prima di tutti. È la mia strategia: odio aprire gli occhi su un nuovo giorno e allora lo faccio un’ora prima di quando potrei. Perché in quell’ora sono libera di odiare, imprecare, rimuginare, mugugnare, borbottare, sbuffare. Nessuno mi sente, nessuno lo sa. Dopo sono pronta. Per svegliare le mie ragazze canticchiando stonata parole inventate, rime orrende e prive di metrica, ballando con passetti ridicoli in corridoio, perché il loro risveglio sia lieve e buffo, perché possano sorridere al mondo, alla vita, a me. Persino a me.

Una di quelle che niente è stato facile. Il liceo una pesantezza, l’Università una lotta, ogni esame ansia paura disfatta dolore. Per ventisei volte più le bocciature. Sempre certa che non sarebbe andata bene, sempre incredula quando, poi, andava bene. Una di quelle che studia la propria tesi di laurea dopo averla scritta e la sottolinea e si fa venire i dubbi di non saperne abbastanza.  Il  lavoro una ricerca di me stessa continua, una fatica capire che non era l’ambito nel quale io avrei mai potuto trovarmi. E allora ricominciare la fatica di cercarmi ancora, da un’altra parte, ogni volta.

Una di quelle che le gravidanze per carità, per carità, signora mia. La prima è stata un avvertimento della salita che mi aspettava, con un aborto ritenuto. Finita così, senza una goccia di sangue a indicare che avevo perso. Solo un cuore che non batte più in una pancia già evidente, di quelle che ti viene voglia di guardare. Avere Cristina è stato come scommettere, aveva il 50% di possibilità di nascere e il 50% di possibilità di morire, dunque. Ho puntato tutto quello che avevo restando immobile nel letto sperando che tutto quel sangue smettesse di scendere, a indicare che avevo vinto. Aspettare Pepe è stato un impegno infilato tra mille altri impegni, Cristina di sedici mesi, una nuova attività lavorativa, lui che si era dimenticato che io ero io, ero una di quelle che niente è stato facile, nemmeno stare con lui, nemmeno lasciarlo andare via, nemmeno vederlo tornare. Vomitavo, vomitavo come se dovessi morirne.  Pensavo di non potercela fare, ce la facevo, vomitavo, pensavo che me lo meritavo di stare così male, io che in fondo i figli non ero così sicura di volerli, io che sono una di quelle che non si spiega, ancora, come sia possibile che queste due creature siano capaci di amare così tanto. Persino me.

Sono una di quelle che ha un cognome difficile da pronunciare perché c’è uno iato, due vocali che incasinano parecchio, una di quelle che ha passato anni a provare imbarazzo ogni volta che veniva sbagliato come se fosse colpa mia, scusate, scusate tutti se ho uno iato, colpa mia, di mio padre, di mio nonno, di tutta la sfaccimma di famiglia mia, scusate, non so come rimediare, provo a usare il cognome da sposata ma è come indossare un abito preso a prestito, come guidare un’auto che non è la mia. Sono una di quelle, adesso, che come ti permetti di sbagliare il mio cognome, scusa, fai più attenzione, se non sai leggere correttamente una “a” a cui segue una “e” sei ben un cretino, ti faccio lo spelling ma talmente rapido che ti faccio vedere io, perché in fondo, scusa, sei solo uno che non sa leggere.  Cretino, tu e tutta la sfaccimma di famiglia tua.

Una di quelle, poi, che ha problemi con i sensi, ne ho alcuni più sviluppati di altri. La vista è debole, vero, ma l’olfatto è quasi ferino. Il tatto mi tradisce, manco di delicatezza, ho le mani ruvide, non sentono moltissimo, sono attraversate da righe e taglietti, non ci leggi il futuro. Nelle mie mani ci trovi il passato: il calletto di chi ha usato la penna come se fosse un fucile, i solchi di quanto ho tenuto stretto , i segni di quello che mi è sfuggito. Il senso dell’udito e quello del gusto li uso a mio piacimento,ormai. Sento se mi va, assaggio se mi va. Sono una di quelle a cui hanno dato in sorte anche il senso del dovere, comunque. E il senso di colpa. Mischiati con gli altri sensi, così che non si vedesse che io ne avevo di più degli altri. Sono una di quelle che se c’è da fare una cosa si fa, si fa bene, si fa tutta. Altrimenti, scusate, è colpa mia. Sono una di quelle, però, che mica può essere sempre così. Non è giusto, insomma, che sia sempre colpa mia. Ah, ho anche un profondo e feritissimo senso di giustizia.

Una di quelle che trova tutte le risposte in doccia. Anche a domande che ancora non mi sono posta. E trovo le parole giuste, gli incipit e le chiuse migliori. Il significato della vita, del tempo che passa.  Trovo il bandolo della matassa, l’ago nel pagliaio, pagliuzze  e travi nei vari sguardi. Chiudo discorsi in sospeso senza l’altro interlocutore, faccio le prove, patteggio il rimorso, alimento il rancore.  La ricetta della torta per le ragazze, l’idea per le bomboniere, il titolo del libro da consigliare a Betta, quella cosa, quella cosa lì da raccontare a Mara.  Quando esco punto il phon sullo specchio appannato, tutto si dissolve, conto i secondi che passano e alla fine, di tutto questo, resto solo io.

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Seriamente

 

No, no, non prendetemi sul serio.

Io inizio le frasi con le negazioni e allo stesso modo, tante  volte, le termino. Io inizio le frasi con le invocazioni  a un dio che non so e allo stesso modo, tante volte, le termino. Io inizio le frasi  e tante volte non le termino, poi. Le lascio svolazzanti stracci appesi ad asciugare.

No, no, non prendetemi sul serio, no. Io sono una specie di pagliaccio, con annosa malinconia nello sguardo, con la voglia di fare dispetti prima di tutti a me stessa e solo dopo a voi, a tutti. Io sono una pasticciona travestita da mammamoglielavoratricefigliasorellaamica, ad ogni strato l’attitudine che più si addice. No, non  prendetemi sul serio, io vengo male in foto e incolpo la macchina fotografica. Sono sempre in anticipo e aspetto, io mi annoio, io non mi basto in alcuni momenti e in altri io, io sono troppo. Mia madre, tempo fa, mi ha detto “ però, con te, è impossibile, sei diventata troppo…” non ha terminato la frase, non ricordo per cosa stessimo discutendo, ma lei non ha terminato, l’ho fatto io dicendo si, si, sono troppo.

Non prendetemi sul serio. Sono troppo.  Pignola, rigida, polemica, distaccata. Sono troppo, prima di tutto per me stessa.

No, davvero, non prendetemi sul serio. Io non lo faccio mai, da un pezzo oramai. Ho smesso in un’altra epoca, le lire avevano corso legale, l’art.117 della Costituzione non era stato modificato, c’era un Papa sciatore, il futuro era lontano, io mettevo su i miei strati con l’applicatore del fard, aprivo frasi, invocavo, negavo ma soprattutto affermavo e facevo dispetti. A me stessa, prima di tutti.

A prendermi sul serio si corrono troppi rischi, niente di grave ma di fastidioso si, assicuro io che ne so qualcosa di me. A prendermi sul serio finisce che ci si offende, ci si resta male perché, pare, che io sia ruvida o affilata o tagliente o caustica o amara o indigesta o tragica o melodrammatica  o priva di diplomazia o antipatica o poco empatica o stronza o cinica. Non ha senso prendermi sul serio, se pensate che parli di voi andate oltre, non è vero. Parlo di me, io parlo solo e sempre di me. Non siate così sensibili.

Allora no, è meglio non prendermi sul serio.  Non ne vale la pena, garantisco. Io sono una che si fissa piantata come un chiodo e che poi, in un certo momento, viene giù e nessuno se lo aspettava, come quella storia dei quadri, quella di Baricco, che i quadri fanno fran e nessuno pensa possa accadere  eppure questo è: un quadro resta lì per anni poi a un certo punto, in un momento che sembra un momento qualunque, cade. Fran. Viene giù, perché il chiodo non è più fissato. Mi fisso sulle parole, odio come vengono adoperate, amo il suono di alcune, e mi fisso, mi fisso e allora detesto l’uso che si fa della parola “sensibile”, inadeguata semplificazione riferita a certe persone invece dell’espressione “viziata egocentrica con smania di ragione e supremazia che se non le dai ragione sbatte le porte e allora via per non romperci tutti quanti le palle facciamo finta di non sentirla e facciamo si si con la testa”. Mi fisso. E amo come viene usato il condizionale, con quale grazia, da alcune persone che ci mascherano un comando, un ordine. Non si può prendere sul serio una che si fissa su queste cose.

Non prendete sul serio una specie di pagliaccio multistrato che non finisce le frasi e che fa fran. Io faccio fran. Roba da uscire pazzi o restarci secchi.

No, non prendetemi sul serio, ancora canticchio la filastrocca porta fortuna che mi ha insegnato mio padre, quando avevo sette anni, ogni volta che cerco parcheggio, ogni volta che aspetto qualcuno che non arriva e mi importa che arrivi. È una canzoncina che gli aveva insegnato sua nonna, tradizioni di famiglia, adesso la canticchiano anche le mie ragazze.  Ero seduta in auto, sedile posteriore, senza cintura né seggiolino, tutto in regola comunque, lui guidava in direzione scuola di mamma, borgata Lesna, noi abitavamo in Santa Rita, era sempre sera ed era sempre inverno ma forse no, sarà pur capitato di andare a prenderla in primavera ma non me lo ricordo , per me era sempre inverno. Nessuno conosce le scuole quando sono chiuse, i cortili delle scuole quando i cancelli sono chiusi e si deve citofonare per farsi aprire. Rimane una sola bidella, con il camice azzurrino, fa l’uncinetto in genere e sbuffa un po’ ”non hanno finito”, dice. Nessuno sa come è fatta una classe, mettiamo una seconda elementare, quando non c’è nemmeno uno dei venti, venticinque, bambini che siedono lì ogni mattina. Sembra che dorma, come il castello della principessa Aurora dopo che si è punta il dito con il fuso dell’arcolaio. Non lo sa nessuno, tranne le maestre quando hanno collegio docenti e i figli delle maestre quando le loro madri hanno collegio docenti. Non prendetemi sul serio, davvero, io restavo in una classe che non era la mia quando la scuola era chiusa senza toccare niente, guai lasciare il segno del proprio passaggio, e aspettavo canticchiando “e che mamma venga venga e nessuno la trattenga se qualcuno la trattiene un mal di pancia ora gli viene”.  Mal di pancia. Proprio così. Va ripetuta per tre volte di seguito, funziona, sul serio. Sostituendo la parola mamma si può fare con tutto, dal parcheggio al ragazzo che piace alla fermata del pullman per fare un pezzo di strada insieme. Non prendete sul serio una a cui hanno insegnato una filastrocca che augura il mal di pancia. E che a sua volta l’ha insegnata alle sue figlie al posto delle preghiere.

Vedete , sono tanti i motivi per i quali no, non vado presa sul serio. Io rido in modo dissacrante, non mi importa di scherzare su tutto, su tutti, su me stessa prima di tutti. Rido a colori, rido alle lacrime, rido delle storture e delle linearità. Rido il futuro vicino. Rido per dare fastidio. Rido troppo. Io divento di ghiaccio, fredda, irremovibile, inaccessibile, indifferente. Fran.  Io piango, piango in bianco e nero, piango che non si veda, per non dare fastidio,che non resti il segno del passaggio e allora piango quando sembra che stia dormendo, piango quando la scuola è chiusa, piango e nessuno lo vede, piango il sentire, quello, che mi hanno messo in mano tutto come una tradizione di famiglia  e poi richiesto indietro, piango il passato lontano. Piango tutto quel che ho trattenuto  e il mal di pancia che ne è conseguito. Piango troppo. Inizio a piangere e non smetto, a volte con uno straccio svolazzante asciugo quel che riesco. Ed allora termino. Fran.

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Guarda dove ti arrivo

 

Deve essere stato di notte, mentre dormiamo, la lavastoviglie in funzione e il cane che si mordicchia le unghie, sdraiato dietro la porta della camera da letto. Si, deve essere successo durante la notte, le notti, nel silenzio imperfetto della nostra casa, le ciabatte lasciate sotto il divano, le tazze della tisana vicino ai telecomandi, fogli libri e pennarelli, tutto fermo a raccontare di noi, del nostro disordine e di quanto è stata lunga la giornata prima di finire.

Forse è successo mentre tu eri a scuola e io a lavoro. In uno di quei giorni, tutti i giorni, in cui guardavo l’ora dicendo si, faccio ancora questo. In uno di quei giorni, tutti i giorni, in cui restavi seduta al banco e dicevi dai, quando finisce. In uno di quei giorni, tutti i giorni, in cui io non sapevo di te, delle tue espressioni durante l’ora di matematica, del tempo dei tuoi intervalli, delle tue scaramanzie mentre viene scelto sul registro il nome da interrogare. E in cui tu non sapevi di me, dei miei caffè nei bicchierini di plastica, dello sguardo che si solleva dal computer e si fissa sul nulla e resta lì, per un po’, e anche così sto lavorando. Delle telefonate con il tono gentile e le smorfie sul viso, delle mail spedite aggiungendo “e vaffanculo” a voce durante l’invio.

Oppure è accaduto ieri, solo ieri, tutto ieri. Tutto d’un fiato, un colpo solo. Per quello non ce ne siamo accorte, no? È stato repentino, è stato imprevedibile, è stato un lampo, il tempo di un amen. Allora così tutto si spiegherebbe. È accaduto ieri, solo ieri. Tutto ieri.

Invece no, invece penso sia successo prima di ieri. Deve essere stato mentre ti portavo alle lezioni di nuoto, dopo la scuola materna, il giovedì, e aspettavo di vederti andare su e giù per la vasca e di vederti tuffare e di vederti andare sotto con la testa e poi uscire e cercare il tuo accappatoio tra i tanti e, brava, non lo hai confuso mai,  e ti guardavo infilarti i vestiti da sola e le nonne in affanno accanto a noi, “non la veste lei signora che fa prima?”- “no, la lascio fare da sola” –“eh,ma così non si fa prima”- “no, così non si fa prima. Prima di cosa, mi scusi?” …

Si, deve essere stato prima, mentre non cercavamo di fare prima di nessuno ma solo di fare come ci veniva, che già andava bene.

Penso sia stato quando è nata tua sorella e tutti mi dicevano chissà come sei felice ora e io dicevo chissà. Chi lo sa? C’è qualcuno che sa? Perché non sono felice? Perché non c’è questo chissà che sa e che viene a dirmi come essere felice ora? E prendevano te e mi lasciavano tua sorella, per aiutarmi. E mi dicevano vai a lavorare, per aiutarmi. Ma io volevo stare con te e non mi aiutavano, non mi aiutavano per niente con tutto quel blaterare di felicità, tutto quel dire “nessun problema”, continuamente, un cazzo di mantra odioso e mi prendevano te e deve essere stato anche in quel momento, soprattutto in quel momento. Quando mio padre mi ha portata da un signore con la barba e mi sono sdraiata su un lettino per parlare e ho detto chissà. Per aiutarmi. E non ti ho lasciata e ho preso anche tua sorella e siamo diventate, insieme, siamo diventate noi e io sono diventata felice. Senza mantra.

È successo quando volevi solo vestiti da maschio. E te li compravo. Quando volevi solo scarpe da maschio. E te le compravo. È successo quando una commessa mi ha detto “poverina, chissà che cruccio” e le ho detto “guardi che mia figlia è sana, che cazzo me ne frega se vuole le scarpe da maschio”. È successo quando ho detto al tuo maestro, in prima elementare, che quelle quattro smorfiose glitterate che ti eri ritrovata in  classe ti avevano detto che dovevi andare nello spogliatoio dei maschi, visto che ti vestivi così, e tu non avevi capito come si potesse dire una scemenza simile. È stato quando hai scelto un pantalone, sportivo, da femmina. E te l’ho comprato. Quando hai preso un paio di scarpe mie. E te le ho lasciate. Brava, non ti sei confusa mai, sei stata sempre te stessa. È successo quando facevamo come ci veniva, che già andava bene.

Mi sa che è capitato dall’ultima volta che abbiamo fatto il gioco di “mamma guarda dove ti arrivo”. Tu ti metti davanti a me, attaccata a me, appiccicata come due fogli del dizionario e con la mano piatta passi sopra la tua testa e vedi dove mi arrivi.

Mi sei arrivata all’ombelico, si vede. Sembra una serratura forzata, un nodino sciolto, un occhiolino sghembo. Mi sei arrivata al seno, si vede. Ti ci aggrappavi con le mani mentre mangiavi, vorace, svuotandolo soddisfatta. Mi sei arrivata alle spalle, le hai trovate larghe e forti da non crederci, capaci di farti da scudo ogni volta che la cattiveria e la stupidità e qualche inutile mantra ti ha sfiorata. Mi sei arrivata alla bocca e hai sentito sempre sincerità, che conta di più della verità. Mi sei arrivata agli occhi e lì hai visto, sollevando appena il capo, che sei in ogni mio sguardo.

Ed ecco, è successo.

La mano piatta sopra la tua testa ha superato la mia testa.

Adesso tocca a me, il gioco diventa “Cri guarda dove ti arrivo”.

E allora ti arrivo all’ombelico, che ti ho medicato e pulito e che racconta di noi per come ci siamo conosciute. E ti arrivo al seno che spunta e subito lì dietro, lì dentro, nel tuo cuore e lì sto e lì resto e lì mi troverai in ogni battito anche quando non mi cercherai.  E ti arrivo alle spalle, per coprirtele ancora e sempre, per scendere con te in battaglia, per essere la tua armatura. E ti arrivo  alla bocca e ti ascolto se vuoi e se non vuoi ci metto l’indice davanti e facciamo silenzio e facciamo come ci viene, che già va bene. Senza confonderci mai. E ti arrivo agli occhi e lì vedo, sollevando appena il capo, che sei in ogni mio sguardo.

 

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