No, no, non prendetemi sul serio.
Io inizio le frasi con le negazioni e allo stesso modo, tante volte, le termino. Io inizio le frasi con le invocazioni a un dio che non so e allo stesso modo, tante volte, le termino. Io inizio le frasi e tante volte non le termino, poi. Le lascio svolazzanti stracci appesi ad asciugare.
No, no, non prendetemi sul serio, no. Io sono una specie di pagliaccio, con annosa malinconia nello sguardo, con la voglia di fare dispetti prima di tutti a me stessa e solo dopo a voi, a tutti. Io sono una pasticciona travestita da mammamoglielavoratricefigliasorellaamica, ad ogni strato l’attitudine che più si addice. No, non prendetemi sul serio, io vengo male in foto e incolpo la macchina fotografica. Sono sempre in anticipo e aspetto, io mi annoio, io non mi basto in alcuni momenti e in altri io, io sono troppo. Mia madre, tempo fa, mi ha detto “ però, con te, è impossibile, sei diventata troppo…” non ha terminato la frase, non ricordo per cosa stessimo discutendo, ma lei non ha terminato, l’ho fatto io dicendo si, si, sono troppo.
Non prendetemi sul serio. Sono troppo. Pignola, rigida, polemica, distaccata. Sono troppo, prima di tutto per me stessa.
No, davvero, non prendetemi sul serio. Io non lo faccio mai, da un pezzo oramai. Ho smesso in un’altra epoca, le lire avevano corso legale, l’art.117 della Costituzione non era stato modificato, c’era un Papa sciatore, il futuro era lontano, io mettevo su i miei strati con l’applicatore del fard, aprivo frasi, invocavo, negavo ma soprattutto affermavo e facevo dispetti. A me stessa, prima di tutti.
A prendermi sul serio si corrono troppi rischi, niente di grave ma di fastidioso si, assicuro io che ne so qualcosa di me. A prendermi sul serio finisce che ci si offende, ci si resta male perché, pare, che io sia ruvida o affilata o tagliente o caustica o amara o indigesta o tragica o melodrammatica o priva di diplomazia o antipatica o poco empatica o stronza o cinica. Non ha senso prendermi sul serio, se pensate che parli di voi andate oltre, non è vero. Parlo di me, io parlo solo e sempre di me. Non siate così sensibili.
Allora no, è meglio non prendermi sul serio. Non ne vale la pena, garantisco. Io sono una che si fissa piantata come un chiodo e che poi, in un certo momento, viene giù e nessuno se lo aspettava, come quella storia dei quadri, quella di Baricco, che i quadri fanno fran e nessuno pensa possa accadere eppure questo è: un quadro resta lì per anni poi a un certo punto, in un momento che sembra un momento qualunque, cade. Fran. Viene giù, perché il chiodo non è più fissato. Mi fisso sulle parole, odio come vengono adoperate, amo il suono di alcune, e mi fisso, mi fisso e allora detesto l’uso che si fa della parola “sensibile”, inadeguata semplificazione riferita a certe persone invece dell’espressione “viziata egocentrica con smania di ragione e supremazia che se non le dai ragione sbatte le porte e allora via per non romperci tutti quanti le palle facciamo finta di non sentirla e facciamo si si con la testa”. Mi fisso. E amo come viene usato il condizionale, con quale grazia, da alcune persone che ci mascherano un comando, un ordine. Non si può prendere sul serio una che si fissa su queste cose.
Non prendete sul serio una specie di pagliaccio multistrato che non finisce le frasi e che fa fran. Io faccio fran. Roba da uscire pazzi o restarci secchi.
No, non prendetemi sul serio, ancora canticchio la filastrocca porta fortuna che mi ha insegnato mio padre, quando avevo sette anni, ogni volta che cerco parcheggio, ogni volta che aspetto qualcuno che non arriva e mi importa che arrivi. È una canzoncina che gli aveva insegnato sua nonna, tradizioni di famiglia, adesso la canticchiano anche le mie ragazze. Ero seduta in auto, sedile posteriore, senza cintura né seggiolino, tutto in regola comunque, lui guidava in direzione scuola di mamma, borgata Lesna, noi abitavamo in Santa Rita, era sempre sera ed era sempre inverno ma forse no, sarà pur capitato di andare a prenderla in primavera ma non me lo ricordo , per me era sempre inverno. Nessuno conosce le scuole quando sono chiuse, i cortili delle scuole quando i cancelli sono chiusi e si deve citofonare per farsi aprire. Rimane una sola bidella, con il camice azzurrino, fa l’uncinetto in genere e sbuffa un po’ ”non hanno finito”, dice. Nessuno sa come è fatta una classe, mettiamo una seconda elementare, quando non c’è nemmeno uno dei venti, venticinque, bambini che siedono lì ogni mattina. Sembra che dorma, come il castello della principessa Aurora dopo che si è punta il dito con il fuso dell’arcolaio. Non lo sa nessuno, tranne le maestre quando hanno collegio docenti e i figli delle maestre quando le loro madri hanno collegio docenti. Non prendetemi sul serio, davvero, io restavo in una classe che non era la mia quando la scuola era chiusa senza toccare niente, guai lasciare il segno del proprio passaggio, e aspettavo canticchiando “e che mamma venga venga e nessuno la trattenga se qualcuno la trattiene un mal di pancia ora gli viene”. Mal di pancia. Proprio così. Va ripetuta per tre volte di seguito, funziona, sul serio. Sostituendo la parola mamma si può fare con tutto, dal parcheggio al ragazzo che piace alla fermata del pullman per fare un pezzo di strada insieme. Non prendete sul serio una a cui hanno insegnato una filastrocca che augura il mal di pancia. E che a sua volta l’ha insegnata alle sue figlie al posto delle preghiere.
Vedete , sono tanti i motivi per i quali no, non vado presa sul serio. Io rido in modo dissacrante, non mi importa di scherzare su tutto, su tutti, su me stessa prima di tutti. Rido a colori, rido alle lacrime, rido delle storture e delle linearità. Rido il futuro vicino. Rido per dare fastidio. Rido troppo. Io divento di ghiaccio, fredda, irremovibile, inaccessibile, indifferente. Fran. Io piango, piango in bianco e nero, piango che non si veda, per non dare fastidio,che non resti il segno del passaggio e allora piango quando sembra che stia dormendo, piango quando la scuola è chiusa, piango e nessuno lo vede, piango il sentire, quello, che mi hanno messo in mano tutto come una tradizione di famiglia e poi richiesto indietro, piango il passato lontano. Piango tutto quel che ho trattenuto e il mal di pancia che ne è conseguito. Piango troppo. Inizio a piangere e non smetto, a volte con uno straccio svolazzante asciugo quel che riesco. Ed allora termino. Fran.