A Torino sta piovendo come se non ci fosse un domani. A me piace, una volta non lo dicevo perché era abbastanza impopolare, adesso lo dico perché è sufficientemente impopolare. Quando dico che a me questo tempo fa stare bene mi guardano come se mi mancasse qualcosa e invece no, ho tutto, pure troppo. Semplicemente mi piace il rumore della pioggia, sembrano mille mille mille, millanta diceva mia figlia da piccola, tasti battuti contemporaneamente, come se fosse una gara di scrittura. Mi piace e adesso lo dico chiaramente, come se questo riguardasse solo me, come se non stessi dicendo che tutti dovrebbero amare la pioggia.
Pioveva anche una sera, otto mesi fa circa, come se servisse un altro personaggio alla scena, quando ho visto andare via una persona da qui, di spalle, come se scappasse. Gli ho detto che gli avevo voluto bene come se fosse stato mio fratello. Quella sera, così gli ho detto, lui mi ha risposto che si era sentito amato proprio così, come se fosse stato mio fratello.
Pioveva come se non ci spettasse un domani, quella sera. E invece il domani lo abbiamo avuto.
Gli ho voluto bene come se fosse stato mio fratello. Ma non era mio fratello. Lui lo avrei rincorso.
Lunedì c’è stata la riunione della squadra agonistica di Cri, perché un tecnico è andato via, improvvisamente pare, e bisognava capire il destino di questo gruppo. Un gruppo bello, fantastico, coeso, come se fosse una famiglia ha detto qualcuno a un certo punto, non ricordo chi. Io avevo la consegna del silenzio, sono andata in qualità di genitore, ovvio, sono un genitore, ma mio marito mi ha chiesto di non parlare, di non intervenire, per non sembrare troppo ruvida o diretta o cinica o qualcos’altro di impopolare che pare io possa risultare. E allora sono stata zitta, come se non avessi niente da dire, ma ne avevo, oh se ne avevo. Anche solo che grazie, no, a me di famiglia fa già venire l’eczema la mia figuriamoci se finanzio l’attività agonistica di mia figlia per sentirmi incastrata in un’altra famiglia. Chi la vuole una grande famiglia pure lì. Mi basta una squadra. Oppure che ormai d’improvviso non c’è più nemmeno il meteo, che le previsioni ormai ti dicono anche a che ora inizia a piovere, così ti puoi regolare con la roba stesa. Ecco, volevo dire cose così, ma ho rispettato la consegna del silenzio, come se mi stessi solo facendo un’idea. Ma ce l’avevo già, la mia idea. Comunque alla fine il destino del gruppo non si è capito, esattamente come nelle grandi famiglie, tutti parlano e non si arriva al punto.
Oggi mi hanno mandato un meme che dice “mi sento stanca come se la stanchezza l’avessi inventata io”, è carino. In effetti mi sento così, eppure dormo, rispetto a una volta quando alle tre del mattino giravo per casa cercando soluzioni. Eppure va meglio, in generale, ritmi collaudati, casa, scuola, ufficio, palestra, scuola, sport delle ragazze, casa, un corso il martedì sera per quel mio bisogno patologico di sentire che mi aggiorno e mi formo con costanza e che il mio cervello è in grado di lavorare ancora e di ricordare sempre. Ma questo senso di stanchezza non molla, è un sottofondo, come se volesse dirmi qualcosa e ci girasse intorno per non sembrare impopolare. È una stanchezza solo in parte fisica, è una stanchezza profonda, come se fosse un insieme accumulato di delusioni, aspettative, inadempienze, situazioni che dovevano essere e invece non sono state e adesso sono accatastate senza ordine una sull’altra e io mi sento scoraggiata come se dovessi rimettere tutto a posto da sola. E questa faccia, questa faccia che la racconta tutta la storia della stanchezza profonda anche se la racconta da rughe senza importanza come se ancora il tempo non avesse deciso cosa fare sul mio viso e facesse le prove e questo corpo, questo corpo che alleno perché non caschi giù mentre lo uso, come se fosse solo appoggiato in bilico, questo corpo che studio come se fosse nuovo, come se non lo conoscessi e lo giudico, lo boccio, non lo perdono mai. Stamattina ho detto a Stefano, il trainer che mi segue per la rieducazione della diastasi addominale e al quale ho dato l’incarico di non dimenticarsi di allenare anche i miei glutei, le gambe e le alette da Batman nelle braccia che al sorriso di Joker ci pensavo da sola, che mi sento come se fossi una tovaglia da diciotto, per quelle tavolate di Natale, da grande famiglia. Aggiusti da una parte, si stropiccia dall’altra. Fa grinze e ha qualche macchia che non viene più via. Ci si mette sopra il bicchiere o il piatto in modo tattico, che non si veda.
Stasera ripensavo a tutto questo mentre pulivo la cucina dopo il primo turno di cena, io e Pepe. Cri e suo padre usciranno dall’allenamento di Karate alle 21 passate, dall’altra parte della città che attraverseranno come se non stesse piovendo, con quella guida rilassata che ha lui, mai uno scatto o una frenata brusca. Io freno sempre e metto avanti la mano destra a parare il passeggero, come se ci fosse sempre qualcuno accanto anche quando non c’è. Quindi il loro turno sarà dopo, la tavola è apparecchiata per metà. Mi è venuto in mente, mentre lavavo la tazza della colazione lasciata nel lavello stamattina, che in latino “come se “dovrebbe dirsi quasi. Mi sono asciugata le mani con lo strofinaccio giallo, prima ho fatto quella cosa di schizzare il cane, Kimb, lo faccio sempre, gli piace. Sono andata in sala e ho preso dallo scaffale il Castiglioni Mariotti, il mio dizionario di latino del liceo, proprio lui, e l’ho maneggiato come se non fossero passati ventidue anni dall’ultima versione, come se le scritte “io cuore leo” le avessi fatte questa mattina. Pepe mi ha chiesto:
“cosa fai mamma?”
“controllo una cosa”
“perchè?”
“curiosità”
“che bello”
“cosa?”
“che sei ancora curiosa”.
Confermo. Quasi: come se. Ho sorriso, perché martedì sono uscita da un appuntamento alle 11.30 e già da almeno dieci minuti ero in panico perché mi sforzavo di ricordare dove avevo parcheggiato e non lo ricordavo, ho salutato velocemente, come se avessi fretta di andare avanti con il mio lavoro e invece ero quasi disperata perché non ricordavo. Come se non lo sapessi. Ho sorriso perché il latino, quello, me lo ricordo. Quasi tutto.
Quasi. Ho controllato il significato italiano : poco meno. Non è come se, è poco meno di.
Un’altra cosa, un altro senso a tutto.
A Torino piove ed è quasi domani. Dico a tutti quelli che si lamentano del tempo che amo la pioggia ma prima aggiungo “io sono impopolare, lo so”, quasi per giustificarmi. Quel che manca alla giustificazione vera è che quel che mi piace riguarda solo me.
Ogni tanto ripenso a quel quasi fratello andato via velocemente, voltato di spalle. Quel che gli mancava per essere mio fratello era la mia mano in caso di frenata.
A Torino piove, io sono stanca ma anche curiosa, ricordo e dimentico. E non mi manca niente.
La giornata è, comunque, quasi finita. Quel che manca è la cena di Cri e suo padre, la tovaglia è pronta, con le sue macchie e sistemata alla meglio, manca solo il piatto in tavola e il racconto dell’allenamento, con le previsioni e le speranze per la gara di sabato e a vederci da fuori sembriamo quasi una famiglia come un’altra. Quel che ci manca è l’eczema.
Cosa mai ti avrà indotta a toglierti gli occhiali da sole? La pioggia?
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alle cinque del mattino diventa difficile sostenere di non poterne fare a meno (foto di repertorio)
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Anche a me piace la pioggia, anche io ho due figlie femmine di cui una chiamo Pepe…rovo tante similitudini, compreso il gruppo dei genitori che si sente una famiglia e che io evitavo proprio perché satura du famiglia…solo che ho dieci anni in più di vita vissuta e non posso dirti che dopo andrà meglio, ma solo che ci si abitua ad aspettare che, prima o poi, la stanchezza svanisca
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un’altra Pepe, che meraviglia!!
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Buongiorno io sono di Torino e mia figlia fa judo😁👋
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Ahhhh, si picchiano di più che nel Karate!!!
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Vado in spam
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