So di te

 

So di te quel che tutti sanno. Che ti chiami come tuo nonno e ti sta bene così, quanti anni hai, il tuo segno zodiacale, il solo che attraggo da sempre chissà perché, il lavoro che fai, lo sport che non pratichi più e che ti è rimasto cucito addosso sul palmo della mano con cui impugnavi la racchetta. Che detesti l’aceto e tutti pensano sia colpa delle suore, all’asilo, invece no. E’ un’altra storia, una storia di mancanze e di mancamenti  lontani.

So di te quando non c’ero. Un gatto bianco sotto il collo, una torta di compleanno, la foto con i padrini. La moto, le uscite laterali, la tua capacità di scivolare su una discussione o su una tavola da snowboard come se fosse la stessa cosa, bastava andare via senza dar nell’occhio. Le vacanze  in Spagna quando lei ti ha lasciato, il treno per Napoli in divisa, i tornei di tennis e quel verso dietro le orecchie, la disapprovazione, un rimprovero che sa di aceto. Il tuo egoismo per non lasciarla, che non si facesse male per colpa tua, per carità.

So di te quel che nessuno sa. Che mi guardi la schiena e dove da sola non mi vedo e non ti fa paura mai. So  come ti chiama tua figlia, che poi è anche la mia, Pappo e come ti chiama mia figlia che poi è anche la tua, Papi . Come ti chiamo io, no, non lo dico.  Che ami guidare nella nebbia, guardare “Una poltrona per due” la vigilia di Natale, la chiesa di Santa Rita se sei di passaggio, la montagna quando arrivi in vetta e respiri rumorosamente come per ripulirti il naso che fa anche un po’ schifo e togli i guanti e metti le mani sui fianchi sorridendo che più su non potevi andare.

So di te che quando hai paura le mani ti diventano fredde e gli occhi ti si rimpiccioliscono e lo sguardo casca verso il basso anche se non abbassi il volto. So di te quando hai paura. E riguarda quasi sempre noi, me o loro e poi anche te, quando stai male e non sai cos’hai e non sai di te ma sai di me che banalizzo sempre, che poi è un esorcismo e niente più. So di te lo spazio che occupi nel letto, il passo lieve di notte quando ti alzi per pensieri pesanti che proprio non puoi fare diversamente, il piumone appena sollevato quando torni  dopo un po’, la domanda con cui inizi ogni mia giornata “hai dormito?” perché tu sai di me che a volte di notte vado molto lontano o che mi sveglio  e resto così, a raccontarmi parole fino al suono della sveglia e sono le ore in cui prende forma quel che scrivo o anche solo quel che sento ammesso che ci sia differenza. So di te cosa mangi a colazione e che il caffè lo prendi dopo, in ufficio. L’ultima cosa che indossi è l’orologio e a volte dimentichi il telefono.

So di te quando sono arrivata che non ci credevi a due occhi scuri così,  eri certo che fosse per un momento e basta e mica potevi cambiare i piani, deludere le aspettative per due occhi scuri così, impensabile, nessuno lo avrebbe fatto, per carità.  So di te che guardavi la mia bocca, sempre, ed eri certo che non fosse per un momento e basta una bocca che dice le cose come le diceva la mia, come se niente prima fosse stato importante, soprattutto i piani o le aspettative.

So di te le cose che non dici. Non quello che non dici ma che ci sono cose che non dici e te la lascio lì, come la biancheria pulita sul comò, finché non ti va di mettere a posto.  So di te le cose quando stai per dirle, l’espressione del tuo sguardo, dove lo appoggi, sulla mia bocca, niente di importante. Le mani, il pollice di lato, l’unghia da torturare. So di te le cose che dici. Le parole che ti appartengono, quelle che hai abbandonato, i periodi in cui hai una parola ricorrente. Quando sono arrivata dicevi “”oriundo”, mi faceva sorridere la tua capacità di infilarla in contesti impensabili. Poi c’è stato il momento del “confutare”. Adesso “il concetto”.  So di te le cose che hai detto. Non tutte, alcune sono sul comò. Quando vorrai.

So di te cosa ti ho preso, sai di me che è tutto al sicuro.

So di te che leggi più libri contemporaneamente e non so come fai. Due o tre libri sul comodino, un po’ uno un po’ l’altro, a sere alterne, la stessa sera a volte.  So di te che quando mi leggi lo fai tra le righe perché tu sai che è lì, lo specchio, la quota di verità che restituisco, il panno steso ad asciugare, il demone che vuole mangiare, l’esorcismo.

So di te quando non ci sarò. Avrai le mani fredde e ti spariranno gli occhi dal viso, ma solo per un momento, perché tu sai di me.

Sai di me. Hai il mio sapore, so di te che sai di me dalla prima volta della mia bocca sulla tua. Ecco perché niente è stato importante, prima.

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Un minuto e mezzo (a cosa penso mentre mia figlia combatte)

 

Sapete quanto dura un incontro di Kumite? Sapete cos’è il kumite? Word, per esempio, non lo sa e segna la parola come un errore. È il combattimento nel Karate. Ci si scontra su un tatami rosso e blu, si indossano le cinture anche quelle rosse o blu su un karategi, che poi è il kimono, bianco come il lenzuolo di un ospedale. Ci si mette uno di fronte all’altro, ci si inchina, ci si saluta, si salutano i giudici che sono quattro seduti agli angoli del tappeto che serve da ring, si saluta il pubblico, il quinto giudice resta in piedi tra i due avversari e dà inizio alla sfida.

Un incontro di kumite dura un minuto e mezzo. Novanta secondi. Con le pause si arriva a due minuti, due e mezzo. Le pause ci sono quando uno dei due si fa male, allora il quinto giudice interrompe il combattimento e verifica. Se è il caso chiama il medico. C’è sempre una barella del 118 sullo sfondo durante gli incontri. Alla fine vince solo uno come è normale che sia. Ci si saluta, si salutano i giudici, ci si rivolge al pubblico, si abbraccia il coach che ha passato il tempo a dare le indicazioni a bordo tatami. Il combattimento consiste in calci e pugni, ogni tecnica ha il suo nome giapponese e quelli no, non li so, non li ho imparati . Cristina lei sa tutto, invece. Perché lei fa kumite. Almeno tre allenamenti alla settimana e una gara quasi ogni sabato o domenica.

Io l’accompagno sempre. La sera prima della gara verifico che abbia il karategi pulito, le dico cento volte almeno di preparare già tutto, i guanti, i paratibie, il paradenti. Le due cinture, quella rossa e quella blu. Il giorno della gara ci presentiamo in tempo utile per la registrazione della presenza e la verifica del peso, perché ovviamente si combatte per categorie e per fasce di peso. Lei è un’esordiente -47 kg. Poi mi siedo sugli spalti, scambio due battute con il suo allenatore, controllo di averle dato l’acqua e il miele. Perché le si chiude lo stomaco quando deve combattere e allora abbiamo trovato questa soluzione, si porta dietro un flacone di miele e lo ciuccia come faceva quando ho smesso di allattarla e si teneva da sola il biberon, lo tiene ancora nello stesso modo e va indietro con la testa con lo stesso movimento di allora, la vedo dalla mia posizione, ogni tanto si avvicina al borsone e si attacca al miele.

E poi io aspetto.

Che la chiamino, che inizi, che finisca.

Mentre aspetto seduta dondolo il busto avanti e indietro, è lo stesso movimento che facevo quando la tenevo in braccio  e poi ero talmente abituata che mi capitava di dondolare mentre lavoravo, durante qualche sopralluogo dai clienti. Una volta una mia potenziale cliente, ero lì per fare il preventivo, mi chiese “Dottoressa, ma lei ha un bambino piccolo?”. Perché anche lei ne aveva uno e aveva riconosciuto quel barcollare ritmico. Poi accettò il mio preventivo.

Aspetto e dondolo. Sorrido agli altri genitori della nostra squadra, parlo un po’, ma solo un po’. E accarezzo i grani del mio bracciale tibetano mentre aspetto, dondolo, penso.

Aspetto, dondolo e penso.

Che dura novanta secondi, un minuto e mezzo. Se vince poi deve fare almeno un altro incontro e ne può venir fuori una giornatona. Se perde la giornata si trasforma in giornataccia. Un minuto e mezzo era la pausa da una contrazione all’altra durante il travaglio. Cristina non voleva nascere, il termine era passato da nove giorni e ormai non ci credevo più. Pensavo di essermela immaginata. Lei che stava scivolando via quando non era ora all’inizio della gravidanza  si era poi messa comoda e non si schiodava. Quando ho avuto il distacco di placenta sono rimasta immobile a letto, ho implorato il cielo, ho pianto tanto. Ho guardato robaccia in televisione, mangiato toast nel letto, visto piovere dalla finestra della mia stanza, aspettato dal mattino quando lui andava al lavoro fino a sera quando tornava, ascoltato mio padre che cercava parole di consolazione senza trovarle, visto mia madre accompagnarmi con delicatezza in bagno e controllare se il sangue era ancora rosso vivo, perché io avevo paura. E mi diceva che le sembrava più scuro anche se non era vero e poi mi riaccompagnava a letto, apriva le finestre e sentivo il profumo del giardino bagnato dalla pioggia di novembre e di dicembre, mentre aspettavo che quella ferita cicatrizzasse e che il mio bambino non scivolasse via. A questo penso mentre la vedo sul tatami durante quei novanta secondi.

Le contrazioni erano arrivate di notte, avevo letto che i mammiferi tendono a partorire con il buio, mentre i predatori dormono, per dare al cucciolo più possibilità di sopravvivenza. In ospedale non c’era un letto disponibile, mi avevano sistemata su una barella in sala visite, poi l’ostetrica che mi ha seguita nei mesi finali della gravidanza ne ha fatto spuntare uno. Così avevo un letto con le lenzuola bianche e avevo le contrazioni che mi davano tregua per un minuto, un minuto e mezzo, era ormai l’alba e i predatori non si erano ancora visti. In sala parto qualcosa si è complicato, dopo quattordici ore uno scambio di sguardi tra l’ostetrica e il medico chiamato a verificare. Cristina è nata con un cesareo d’urgenza, l’hanno tirata fuori in un minuto, un minuto e mezzo da quando hanno tagliato il mio addome,  alle 16.12 di un sabato. Una giornatona. Quando sono tornata in stanza con le flebo attaccate al braccio, coperta fino al mento dal lenzuolo,ero sola. Erano tutti al nido, a vedere lei. Ero sola per la prima volta dopo mesi.

Aspetto, dondolo, penso e sono sola.

Come quel giorno, lei fuori da me, nel mondo senza di me. La osservo combattere per restare dentro il tatami, per non prendere colpi mentre cerca di darne, girarsi appena ad ascoltare il coach che le urla qualcosa di incomprensibile, vorrei cercare con lo sguardo i genitori dell’altra ragazzina ma non riesco, penso solo alla mia, lì da sola penso solo a lei che sta combattendo da sola. Siamo sole entrambe. E mi viene da sussurrare appena “tenete, tenete, tenete tutto…” e forse lo faccio, lo sussurro, schiudo appena le labbra e forse sembro mezza scema in quel minuto, minuto e mezzo, ma va bene mi dico mentre la osservo e penso tenete, tenete tutto il resto, non ho altro, non ho niente che non sia questo.

Aspetto, dondolo, penso, sono sola e non voglio altro, tenete il resto, tenete il catetere che brucia, la morfina quando finisce, le infermiere che ti lavano a letto e mettono una cerata sopra il lenzuolo bianco e infilano i guanti blu, sono in due e si occupano di farti il bidet mentre parlano dei fatti loro, tenete il controllo della ferita, che non faccia infezione, tenete i punti da togliere e il rumore di metallo quando cadono nella vaschetta tenuta su da uno specializzando che osserva attento. Tenete il dolore, le lacrime, la paura, tenete le carezze sulla testa lanuginosa, il gioco delle somiglianze vinto in partenza da suo padre e la certezza che così smettere di amarlo sarebbe stato penoso semmai fosse successo. Tenete il vaccino quando hanno sbagliato qualcosa e le si è bloccata la gamba, la sua prima influenza intestinale era gennaio e avevo smesso di allattarla, tenete il verso che faceva che sembrava giapponese –okooo– e che forse era già una delle tecniche di combattimento, tenete le mani paffute, la frangia lunga, le mollette per capelli sperse dietro i cuscini del divano, tenete la sigla dei Barbapapà e il pupazzo di Barbazoo, tenete la masanetta di spugna per fare il bagno e se non sapete cos’è fate attenzione che vi può pizzicare con le sue chele.

Tenete. Tenete il resto, non mi serve più. Tenete tutto, lasciatemi lei, su quel tatami, per quel minuto e mezzo. Tenete anche il rancore e le frasi sbagliate e quelle cattive. Quell’incipit mostruoso “affidate a te diventeranno…”. Come se le mie figlie fossero di altri e io le avessi prese in prestito, in affido o peggio sottratte, rubate. Tenete, tenete tutto, lasciatemi la cicatrice che attraversa il mio addome e che prude e tira quando penso a quella frase come quando cambia il tempo e infatti il tempo è cambiato ed è diventato tempesta così i predatori restano rintanati. Tenete, tenete tutto, tenete il resto e lasciatemi lei che quando finisce si volta sempre a cercarmi.

Io aspetto.

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Lascio, sempre

 

Le mie figlie entrano a scuola da sole, parcheggio davanti al mio ufficio che è nella stessa via dell’istituto che frequentano, una al primo piano, elementari, l’altra al secondo piano, medie, e loro vanno. Cristina non mi saluta nemmeno, scappa veloce che nessuno veda che ha ancora una famiglia, Pepe mi dà la mano come consolazione fino al cancello e poi va, un ultimo bacio, la frase con la quale ci salutiamo è sempre la stessa “ci vediamo alle quattro”la sua battuta, “ci sarò” la mia battuta. Alle quattro io ci sono sempre.

Lascio loro così, frugo in borsa per trovare le chiavi, inutilmente, perché le metto nella bustina interna di ogni borsa eppure le cerco sempre, le tiro fuori, apro, interruttore sulla sinistra, cinque gradini e sempre sulla sinistra la porta della stanza dove lavoro io, fino alle quattro, poi lascio tutto com’è. Questo ufficio l’ho affittato tre anni fa, è stata una necessità e una gran botta di culo allo stesso tempo, fenomeno rarissimo nella mia vita (non lo stato di necessità ma la botta di culo). Dovevo andare via da dove lavoravo prima, nel senso fisico del termine, ero troppo vicina a persone che era meglio che non mi vedessero più. E così mi sono messa in cerca di qualcosa che fosse vicino alla scuola delle ragazze, per ottimizzare gli spostamenti. Ho trovato questo posto, piccolo e vivibile, i gradini all’ingresso mi sono piaciuti subito, ci ho messo delle piante finte prese all’Ikea, e ho lasciato qualcuno affacciato alla finestra ad aspettare invano di vedermi passare. Io ottimizzo sempre.

Lascio l’auto e mi muovo a piedi, da qui. Arrivo in centro, se voglio. Vado in palestra, meno di un chilometro, cammino e intanto penso,non è poco. Attraverso la stessa piazza che attraversavo da ragazzina per andare al liceo, è la stessa strada solo all’incontrario. La cosa che è rimasta uguale da allora è il bar tabacchi all’angolo, il resto è tutto diverso. Forse la farmacia, ma non sono sicura. E c’erano i semafori, prima, adesso c’è una rotatoria e le strisce per i pedoni e un pezzo di pista ciclabile. Non c’è più la cabina telefonica dalla quale chiamavo il mio ragazzo quando scendevo dal pullman, prima di prenderne un altro, alla fine della mattinata a scuola. Lui studiava all’Isef, io ero in seconda classico. Si diceva così, prima, seconda e terza classico. Terzo, quarto e quinto anno. Lui aveva altri orari, magari dormiva fino alle dieci, io lo chiamavo a casa, viveva già da solo a Milano, ricordo ancora il numero, gli dicevo non so più cosa, forse che mi avevano interrogata o come era andata la versione, che mi mancava forse, ma non sono sicura. Una volta lui mi aveva raccontato di un suo esame, ricordo, ero appoggiata con lo zaino alla porta basculante della cabina, aveva dovuto fare il quadro svedese, io avevo riso, mi sembrava assurdo che quella fosse un’università, lui si era offeso e mi aveva detto che quel mio atteggiamento così sicuro era fastidioso, forse aveva detto qualcosa che c’entrava con il fatto di sparare sentenze. Il casino era fare pace entro il credito della tessera telefonica. Non sono sicura di esserci riuscita quella volta. Vorrei dirglielo che no,  io non sono sicura sempre.

Lascio Cri da una compagna, più tardi. Devono fare una ricerca di musica, su un’opera lirica, non ho capito quale, il professore di musica dice che visto che i ragazzi, oggi, ascoltano musica di merda grazie a quel che passano i mass media allora lui dà questi compiti, così capiscono che c’è anche altro. Mi sembra giusto. A parte che ha detto “mass midia”, durante la riunione, e io ho visto la professoressa di lettere fare la bocca del disgusto e volevo abbracciarla o anche solo dirle che sembrava che sparasse sentenze ma che la capivo. A parte che la musica di merda la ascoltavo anch’io secondo il mio professore di musica e ancora l’ascolto secondo le mie figlie, quindi sono almeno trent’anni che per qualcuno io ascolto robaccia. Io, a volte, lascio la playlist delle ragazze in macchina, anche quando sono sola, perché è come la mano di Pepe sino al cancello, un po’ mi consola. Sono felice che Cri si organizzi con le amiche, che vada a casa di qualcuno, che voglia invitare altre ragazzine da noi, anche se questo mi genera un po’ di ansia, non so perché, forse perché poi pensa che le altre mamme siano meglio, che a casa degli altri ci sia più felicità o più libertà o più serietà perché io lo so che a volte non le sembro seria, a volte io non sono seria e che magari questo non le piace e allora magari invita poche persone per colpa mia, perché la imbarazzo ma poi penso porca puttana se la imbarazzo io allora non c’è davvero speranza per nessuno e però così mi pare che sono lì a sparare sentenze ma non vorrei mai colpire lei e niente alla fine lascio perdere che faccia come vuole, che vada dove vuole, che inviti chi vuole, che mi lasci stare che io ho l’ansia. Sempre.

Io andavo dalla mia amica Laura che aveva una casa bellissima, con il salone e la sala da pranzo, la taverna e la mansarda, i suoi genitori avevano il bagno in camera, era la prima volta che ne vedevo uno, che mi dicevano che si poteva avere il bagno privato, padronale, ecco. Lei aveva la nonna che viveva con loro e la tata tutto il pomeriggio. Mangiava partendo dal secondo perché per la pasta i tempi di cottura erano più lunghi rispetto alla carne allora la mangiava dopo. A me sembrava stranissimo. Anche mangiare primo e secondo nello stesso pasto, io a casa mia mangiavo la pasta a pranzo e la carne a cena. E poi aveva il telefono in camera, alle due del pomeriggio sua madre la chiamava dall’ufficio e le chiedeva della giornata a scuola. La mamma di Laura era una donna molto curata, fumava le sigarette sottili e lunghe, aveva lo smalto rosso e le calze velate, indossava decolté con il tacco a spillo e pellicce argentate. La mia amica Vale invece aveva due sorelline piccole e sua madre cucinava le polpette friggendole nel burro o nella margarina. A casa mia il burro non lo avevamo. Mia madre non lo usava, da noi solo olio, il burro era roba da piemontesi diceva e noi non siamo piemontesi, sottolineava.  Però anche da Vale c’era disordine come da noi ma sua madre era più allegra della mia, faceva battute divertenti, voleva che le dessi il tu e sembrava felice di avermi lì. Una volta si è arrabbiata con la figlia, io ero da loro e ho assistito, è stato imbarazzante. Ma era arrivata anche la nonna in visita, forse a riportare una delle sorelline e aveva difeso la nipote, a voce alta, quasi rimproverando lei la figlia. Le aveva detto “non ha chiesto lei di nascere, l’hai voluta, ricordatelo sempre”. Io a questa frase ci penso, ogni tanto. Quando mi arrabbio con le mie figlie o con mia madre o con me stessa. Ma con me stessa io mi arrabbio sempre.

Lascio da parte sempre qualcosa, non finisco del tutto. Lascio due pratiche per lunedì, potrei farle ma non le faccio. Perché così so già cosa devo fare, da dove partire, come devo iniziare.  Devo trovare un modo anche per finire, per sapere come finire. Pare che la fine sia più importante dell’inizio, in tutto. Che devi avere un’idea certa della fine per partire bene dal’inizio, in tutto. Per esempio, una storia, se sai già come finisce allora è più facile raccontarla dall’inizio perché la ricostruisci all’indietro, come il pranzo a casa di Laura insomma. Io ho problemi con la fine, con il finale, mi viene l’ansia e allora non finisco. Oppure finisco in modo brusco, tronco, lascio alla finestra ad aspettare di vedermi passare e non passo più, faccio il dito medio da qui, non dedico nemmeno un finale,  lascio tutte le ragioni che nemmeno saprei dove mettermele anche a volermele tenere. Lascio appunti sparsi, uso fogli di recupero in ufficio, un quaderno verde sempre in borsa, l’applicazione notes del telefono, i post it nel primo cassetto della scrivania. Li lascio scritti a mano, con la mia grafia illeggibile, se possibile peggiora di anno in anno, ormai faccio fatica a rileggermi da sola. Lascio idee come lascio capelli nel lavandino in questo periodo. Lascio ricordi e poi qualcuno mi chiede perché e io non so rispondere, non del tutto. E vorrei dire che così lascio me ma temo che non capirebbe cosa significa volersi lasciare e non poterlo fare, non saper scrivere il finale e allora lascio perdere, lascio correre, lascio stare.  Alla fine io mi lascerei sempre.

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Detto tra noi

 

Discuto solo per le cose di scarsa importanza. Per le altre, quelle importanti davvero, non può esserci discussione. Sono io che decido cosa è importante e cosa no, per me. E su questo possiamo discutere, va bene, non temo chicchessia, sono campionessa del Mondo di Disputa e me la cavo bene anche nelle gare di monologhi mascherati da dialoghi. Non mi preoccupa discutere, ho due figlie che cercano di vincermi per sfinimento dal loro primo vagito e io resisto granitica e indecifrabile. La frase base dell’approccio filiale è “mamma ti prego”, la risposta base è “inutile, non sono una divinità” anche nella variante “non sono la Madonna” ma il riferimento pagano mi piace di più. Sono la prima di tre figli, ho condotto vere e proprie trattative sindacali per ottenere venti minuti in più sul coprifuoco, ho espiato le pene più severe, le prime e quindi le meno flessibili e più improvvisate, comminate dai miei inesperti genitori che solo negli anni hanno rivisto il loro impianto sanzionatorio a beneficio dei miei fratelli, rei dopo di me e sempre meno di me. Sono rimasta nel gruppo whatsapp dei Fiordalisi l’anno in cui alla maestra, per Natale, è stato regalato un tapis roulant, scelta che ha generato un numero di messaggi tale che il mio amico Ivocci, fisico matematico e mago, non è ancora stato in grado di misurare.
Non temo le discussioni.

Le cose importanti le distinguo in tipiche e atipiche. La distinzione è intuitiva: è tipicamente importante tutto quanto attiene alla sfera della salute ma solo oltre un certo coefficiente di serietà, quindi un raffreddore non è importante. Però, però una verruca ha un’importanza atipica. Perché rimuoverla richiede un numero di sedute dal dermatologo intervallate da medicazioni casalinghe che rende preferibile il ricovero in lunga degenza. Il mio tempo è tipicamente importante. Su questo non si discute, anche perché la discussione me ne farebbe perdere e io ho paura di perdere tempo. Io so che non ne ho una quantità illimitata. Ovvietà, si può ribattere. E invece no, non è ovvio manco per niente. Io adesso lo so, prima non lo sapevo. Lo so proprio. Io sto ferma davanti allo specchio, mi guardo, e lo so. So che la clessidra è stata girata, che ogni giorno è un giorno in meno per il libro che non ho letto, per quello che non ho scritto, per trasferirmi al mare, per iscrivermi a Filosofia finalmente. Adesso io lo so davvero.
La libertà ha un’importanza tipica. Purtroppo la libertà di essere se stessi atipica, perché prima bisogna sapere quel che si è e questo richiede tempo, poi quando lo capisci ti ritrovi davanti a uno specchio con la clessidra girata e ti viene l’affanno.
L’amore, tipico. La restituzione dei libri prestati, atipica. L’educazione è tipicamente importante, la solitudine atipicamente. Il rispetto tipico. L’ironia, atipica.

Mia figlia Pepe mi ha detto che pensa che i suoi amici “non abbiano l’ironia” perché a volte lei fa delle battute o dice delle cose in quel modo che ha lei che gioca con i silenzi e ti aspetti che se ne esca con una roba gravissima o comunque molto seria e invece no, magari scoppia a ridere e loro non capiscono. In lei le risate sgorgano come il sangue da una ferita. Perché chi ride così da qualche parte si è fatto male. Una volta voleva raccontarmi qualcosa che era successo a scuola ma ha iniziato a ridere mentre la diceva e non riusciva a smettere e rideva in mezzo alla strada e allora ho iniziato a ridere anch’io che ancora non sapevo cosa voleva raccontarmi finché non mi ha fermata, ha preso fiato e mi ha detto “aspetta, aspetta, che metto da parte le risate per dopo”. Ha smesso, ha raccontato e ha ricominciato a ridere ancora più forte. Per lei l’ironia è qualcosa che si ha, non si acquisisce, non si sviluppa, non si prende da qualche parte come la sua dannata verruca plantare. Penso che abbia ragione.

Non dico sempre le cose in faccia. Quelli che ti dicono le cose in faccia, in genere, la sola cosa che ti dicono in faccia è che loro dicono le cose in faccia. Io non ho voglia di dire le cose in faccia a tutti e sempre. Mi ci sono arrovellata con il pensiero, in questi giorni, attorcigliando i capelli tra l’indice e il medio dietro l’orecchio sinistro. Ne sento tanti vantarsi, rifilano la predica a chiunque, che loro sono diretti, schietti, ecco, schietti e sinceri, dicono. Viene quasi voglia di crederci. A me no, però, non viene. E nemmeno la voglia di dire sempre le cose in faccia. Questa cosa della voglia sta diventando una componente sempre più rilevante della mia condotta. Ci misuro il tempo. Niente orologi o battiti di ciglia, niente sobbalzi del cuore o fogli di calendario. L’unità di misura del mio tempo è la voglia che ho dietro le palpebre: chiudo gli occhi e inspiro, apro gli occhi e se ho voglia faccio, dico, scrivo, penso, mangio, impreco. Quando dico che non ho tempo, in realtà, non ho voglia. Quando dico che non ho voglia è perché so che non ho tempo, non ne ho davvero, perché adesso lo so. Dico le cose in faccia a seconda della faccia, se è importante si, altrimenti no. Ma si può leggere come la penso sulla mia faccia. Oppure qui.

Ho dovuto descrivere un cuore di gomma chiuso in una gabbietta per uccelli. Era un esercizio, mi hanno fatta sedere lontana e da quel punto di vista ho dovuto scrivere. Avevo venti minuti di tempo. Come non averne, in pratica. Non ero nemmeno certa che fosse un cuore di gomma, sembrava anche un cervello, avevo il dubbio. Io ho sempre il dubbio, tanto. Tra cuore e cervello soprattutto, ma il tempo era poco e ho scelto il cuore, che poi è esattamente come vivo. Ho scritto un monologo che sembrava un dialogo su questo cuore portato via, lontano, sulla vita vissuta senza cuore chiedendomi come fosse possibile, in realtà, vivere con un cuore che sente tutto. Per farlo, per scrivere, ho rigirato le dita tra i miei capelli e sono andata lontano nel tempo, a quando ne avevo ancora tanto o per lo meno non sapevo, ancora non sapevo, di non averne abbastanza. Sono tornata alla prima volta che il mio cuore è andato via da me, ho pensato a un nome che mi piaceva pronunciare e che non chiamo più, a tutto quello che gli ho detto dritto in faccia come se fosse importante, alle risate che abbiamo mischiato come vino con acqua, come sangue in un patto scellerato. Al mio cuore che poi sembrava un cervello quando sono andata a riprenderlo e funzionava come funzionava un cervello e non un cuore e così è stato per tanto tempo o forse solo finchè ne ho avuto voglia.

Ho letto a voce alta questa storia del cuore lontano, mi sono imbarazzata, ho balbettato in due momenti, come da piccola, ho preso fiato, ho finito di leggere e mi veniva da ridere ma era per il nervoso, era la tensione, era il sollievo, era qualcosa di importante che non avevo mai più detto. Adesso io lo so davvero.

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La prima volta

 

La prima volta che ho visto un morto avevo sette anni ed era una morta. La nonna di mia madre, la madre di mia nonna. Era sdraiata nella bara al centro della sua camera da letto, attorno a lei le sedie su cui si alternavano mia nonna, sua sorella e la signora che se n’era occupata negli ultimi anni, Francesca,una donna che a me sembrava vecchissima anche lei e con un nome molto strano per una donna anziana perché, secondo me, ci sono nomi che non si adattano alla vecchiaia. La singora Francesca portava sempre un foulard colorato in testa, credo non avesse i capelli, e puzzava. Ogni volta che andavamo a trovare la “nonna Vecchia” dovevo baciare anche lei e lo facevo in apnea. Arrivavano i parenti, entravano commossi, io giravo per il corridoio, proprio nel senso che roteavo, piroettavo,giocavo, la casa era piccolissima, un bilocale con una cucina corta e stretta dove gli adulti fumavano, non c’era spazio per tutte quelle persone. C’era uno specchio, uno specchio mobile, a figura intera. La sorella di mia nonna era sarta, riceveva le clienti alle quali confezionava gli abiti su misura, in quel periodo, poi, lei e mia nonna avevano ancora  un negozio di abbigliamento in quella stessa via, di fronte a casa che all’occorrenza quindi serviva anche da magazzino e da atelier. Le clienti si svestivano veloci, provavano l’abito e mia zia, abilissima, prendeva le misure, infilava spilli che teneva in bocca senza paura, il metro giallo e morbido come una collana intorno al collo mentre berciava “ma quando mai questa lunghezza, non usa più, si vede in tutte le riviste, fai come dico io”. Lo specchio era ovale, marrone, forse nero, e mobile. Doveva essere d’ingombro nella camera da letto trasformata in camera ardente e allora era stato spostato in corridoio.  Girato verso la camera, però.

La prima volta che ho visto un morto era una morta e l’ho vista riflessa nello specchio mentre giocavo a fare la stilista, era agosto e avevo i sandalini, un pantaloncino corto e le gambe magre. Mia madre aveva i jeans azzurri e una maglietta bianca, i capelli rossi naturali, mogano diceva lei , ricci naturali anche quelli, non era ancora stata male di quel male che l’avrebbe resa sempre triste durante gli inverni successivi, era magra, dispiaciuta e fumava. Naturale.

Non ho avuto paura, a quel punto ho detto a mio padre che l’avevo vista e lui mi ha presa per mano e mi ha portata davanti alla bara aperta.

“E’ morta. Di vecchiaia”

Non era “andata in cielo”, non era successo nulla che non potessi capire. La nonna Vecchia era vecchia e quindi era morta di vecchiaia. L’abbiamo sempre chiamata così, c’era amore nel chiamarla così, c’era  rispetto. Adesso sento gente che si offende per l’uso della parola “vecchia” ma secondo me è il modo in cui viene detto. Il mio compagno di banco non aveva più il papà perché era morto investito mentre attraversava sulle strisce pedonali. Ho pensato che quello era peggio. Morire di vecchiaia andava bene. Se sei vecchio nessuno deve più portarti il regalo per la festa del papà, lui lo preparava comunque e lo lasciava davanti alla foto in salotto,aveva raccontato in classe. Se sei vecchio nessuno ti chiede di fare il bagno insieme in mare quando ci sono i cavalloni, lui doveva arrangiarsi e con la bandiera rossa restava fermo a riva. Io no, io il bagno lo facevo lo stesso. Se sei vecchio morire va bene, è giusto. Io attraversavo sulle strisce facendo sempre molta attenzione. Comunque, anche la nonna Vecchia finché è uscita faceva attenzione sulle strisce, attraversava veloce con passetti ravvicinati.

Al funerale non ricordo di essere andata, secondo me non mi ci hanno portata per risparmiarmi le lungaggini in chiesa e poi al cimitero, non per altro. Non c’è mai stato pudore nel raccontare la morte.

“rinascerà,papà?”

“io penso di si”

“anche il papà di Massimo?”

“si, penso”

“ma allora come fa a vederlo lo stesso se è già rinato? lui gli porta i regali perché la maestra dice che chi muore vede tutto dal paradiso, anche Don Sebastiano lo dice a catechismo”

“magari non è ancora rinato, forse aspetta che suo figlio sia grande”

“allora la nonna Vecchia può rinascere anche subito perché non deve più vedere nessuno”

“magari vede ancora te”

“non si ricordava nemmeno il mio nome, papà. Secondo me lei può rinascere subito.”

La prima volta che ho pensato di morire è stata la notte in cui ho compiuto trentatre anni, nel 2011.  Cri e Pepe dormivano nella loro stanza, avevano quattro e due anni appena compiuti. Avevo ultimato da poco un percorso intenso di psicanalisi che sintetizzo sempre nella frase ”per due anni ho spalato merda a mani nude”, perchè secondo me detto così rende l’idea di dove sono stata. Avevo -avuto- la depressione post partum. Esaurimento nervoso su base depressiva, c’era scritto sul foglio della dottoressa, una psichiatra. La morte era stato un tema fondamentale, toccato più volte, il mio approccio con la morte, la mia paura della mia morte, una novità per me. Ma era rimasta sempre una paura narrata, una paura intellettuale. Mettevo in conto per la prima volta di morire e temevo di lasciare le mie bambine orfane, così piccole, costrette a portare dei lavoretti di merda fatti a scuola davanti alla mia foto,io che in foto vengo malissimo, lavoretti di merda davanti a una foto di merda, affidate a persone che le avrebbero cresciute in un modo che non approvavo mentre il padre, disperato, avrebbe continuato a lavorare per mantenerle sentendosi ripetere che non c’era problema, mentre mi cercava anche lui, per fare una battuta che fa ridere ma solo se c’è l’altro, io, che la capisce subito, per guardarsi senza parlare e aver detto tutto che non è una cosa che fai così, con la prima che passa. Ecco, a me quel pensiero lì mi scatenava il terrore di morire. Dicevo allo psicanalista “mi basta arrivare ai loro diciotto anni”. Nel dirlo, con la bocca allappata, immaginavo la loro crescita senza di me e mi commuoveva il mio stesso funerale, sentivo la mia mancanza, piangevo per la mia morte come se mi riguardasse mentre in realtà avrebbe riguardato solo loro.

La notte in cui ho compiuto trentatre anni, invece, io ho pensato che stavo morendo. Il dolore all’addome era lancinante. In piena notte sul divano pensavo che lui doveva assicurarmi che si sarebbero laureate, in quello che volevano, ma che avrebbero finito tutti gli studi. Che le avrebbe cresciute usando la sua testa ma pensando sempre a cosa avrei detto io in ogni situazione. E poi pensavo ai miei genitori, a mio padre, non era giusto morire così, senza essere vecchia, senza che lui fosse abbastanza vecchio da dimenticarsi il mio nome. Il mio nome non è un nome da vecchi, però. Allora sto morendo. Pensavo. A mia madre. Ed ero triste di una tristezza straniante ma naturale.

La prima volta che ho pensato che sarei morta, poi, non sono morta. Mi hanno presa in tempo, un attimo prima che “la bomba nella pancia esplodesse”, hanno portato via quel che non funzionava più, messo due cerotti e mi hanno rassicurata, anche la pancreatite era stata evitata. Il chirurgo, amico di famiglia, nel dimettermi mi ha detto “eccoti come nuova, sei rinata”. Senza madre. Rinascere si fa senza essere partoriti di nuovo, rinascere si fa da soli, rinascere si fa perché sei già morto, da qualche parte, in qualche punto,in un certo momento.

La prima volta che mio padre mi ha restituito le mie vecchie pagelle, un mese fa, l’ho preso in giro:

“hai paura di morire? perchè mi dai questa roba?”

“perché è tua, sto facendo ordine nei cassetti, mica ho paura, morire si deve almeno hai già le tue cose “.

Continuiamo a non aver pudore nel parlare di morte.

La pagella di prima elementare riporta di una bambina disciplinata, logica, attenta, educata. Con una sorprendente proprietà di linguaggio per la sua età. In grado di riferire in modo preciso e puntuale un fatto realmente accaduto. Ero una piccola vergine scassacazzi che raccontava per filo e per segno quel che accadeva intorno a lei senza inventare nulla, mi mancava solo di berciare anch’io “ma quando mai, è andata come dico io, senti qui…”. Come faccio adesso.

Insieme alle pagelle mi ha dato anche il lavoretto per la feste del papà fatto nel 1986. Quell’anno mi era andata bene, niente lavoretti manuali, la maestra aveva optato per un libro fatto da noi venticinque, ciascuno dedicava una poesia o un pensiero al suo papà, tutto raccolto in questo florilegio della II C. Anche Massimo, che non si chiama davvero Massimo ma non mi va di scrivere il suo nome che comunque è un nome che secondo me da vecchio andrà ancora bene. Io avevo scritto una filastrocca piena di riferimenti alle passioni di mio padre, la pesca e il cibo fondamentalmente. Nemmeno tanto brutta, ho letto cose peggiori scritte dai miei compagni. E poi mi ha restituito anche la mia prima poesia.

La prima volta che ho scritto una poesia l’ho fatto in corsivo e con la replay blu. Era il 25 agosto del 1986, ho venduto l’opera al prezzo stabilito in 1000 lire, indicato sul retro della stessa. L’ha comprata lui, mio padre, si intitola La Brezza e recita così:

“oggi una  dolce brezza

fa oscillare quel piccolo

giglio in riva al lago.

Nell’aria

c’è un

profumo vivo , e io mi sento

rinascere”

La prima volta che io sono rinata l’ho scritto. Naturale.

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