Discuto solo per le cose di scarsa importanza. Per le altre, quelle importanti davvero, non può esserci discussione. Sono io che decido cosa è importante e cosa no, per me. E su questo possiamo discutere, va bene, non temo chicchessia, sono campionessa del Mondo di Disputa e me la cavo bene anche nelle gare di monologhi mascherati da dialoghi. Non mi preoccupa discutere, ho due figlie che cercano di vincermi per sfinimento dal loro primo vagito e io resisto granitica e indecifrabile. La frase base dell’approccio filiale è “mamma ti prego”, la risposta base è “inutile, non sono una divinità” anche nella variante “non sono la Madonna” ma il riferimento pagano mi piace di più. Sono la prima di tre figli, ho condotto vere e proprie trattative sindacali per ottenere venti minuti in più sul coprifuoco, ho espiato le pene più severe, le prime e quindi le meno flessibili e più improvvisate, comminate dai miei inesperti genitori che solo negli anni hanno rivisto il loro impianto sanzionatorio a beneficio dei miei fratelli, rei dopo di me e sempre meno di me. Sono rimasta nel gruppo whatsapp dei Fiordalisi l’anno in cui alla maestra, per Natale, è stato regalato un tapis roulant, scelta che ha generato un numero di messaggi tale che il mio amico Ivocci, fisico matematico e mago, non è ancora stato in grado di misurare.
Non temo le discussioni.

Le cose importanti le distinguo in tipiche e atipiche. La distinzione è intuitiva: è tipicamente importante tutto quanto attiene alla sfera della salute ma solo oltre un certo coefficiente di serietà, quindi un raffreddore non è importante. Però, però una verruca ha un’importanza atipica. Perché rimuoverla richiede un numero di sedute dal dermatologo intervallate da medicazioni casalinghe che rende preferibile il ricovero in lunga degenza. Il mio tempo è tipicamente importante. Su questo non si discute, anche perché la discussione me ne farebbe perdere e io ho paura di perdere tempo. Io so che non ne ho una quantità illimitata. Ovvietà, si può ribattere. E invece no, non è ovvio manco per niente. Io adesso lo so, prima non lo sapevo. Lo so proprio. Io sto ferma davanti allo specchio, mi guardo, e lo so. So che la clessidra è stata girata, che ogni giorno è un giorno in meno per il libro che non ho letto, per quello che non ho scritto, per trasferirmi al mare, per iscrivermi a Filosofia finalmente. Adesso io lo so davvero.
La libertà ha un’importanza tipica. Purtroppo la libertà di essere se stessi atipica, perché prima bisogna sapere quel che si è e questo richiede tempo, poi quando lo capisci ti ritrovi davanti a uno specchio con la clessidra girata e ti viene l’affanno.
L’amore, tipico. La restituzione dei libri prestati, atipica. L’educazione è tipicamente importante, la solitudine atipicamente. Il rispetto tipico. L’ironia, atipica.

Mia figlia Pepe mi ha detto che pensa che i suoi amici “non abbiano l’ironia” perché a volte lei fa delle battute o dice delle cose in quel modo che ha lei che gioca con i silenzi e ti aspetti che se ne esca con una roba gravissima o comunque molto seria e invece no, magari scoppia a ridere e loro non capiscono. In lei le risate sgorgano come il sangue da una ferita. Perché chi ride così da qualche parte si è fatto male. Una volta voleva raccontarmi qualcosa che era successo a scuola ma ha iniziato a ridere mentre la diceva e non riusciva a smettere e rideva in mezzo alla strada e allora ho iniziato a ridere anch’io che ancora non sapevo cosa voleva raccontarmi finché non mi ha fermata, ha preso fiato e mi ha detto “aspetta, aspetta, che metto da parte le risate per dopo”. Ha smesso, ha raccontato e ha ricominciato a ridere ancora più forte. Per lei l’ironia è qualcosa che si ha, non si acquisisce, non si sviluppa, non si prende da qualche parte come la sua dannata verruca plantare. Penso che abbia ragione.

Non dico sempre le cose in faccia. Quelli che ti dicono le cose in faccia, in genere, la sola cosa che ti dicono in faccia è che loro dicono le cose in faccia. Io non ho voglia di dire le cose in faccia a tutti e sempre. Mi ci sono arrovellata con il pensiero, in questi giorni, attorcigliando i capelli tra l’indice e il medio dietro l’orecchio sinistro. Ne sento tanti vantarsi, rifilano la predica a chiunque, che loro sono diretti, schietti, ecco, schietti e sinceri, dicono. Viene quasi voglia di crederci. A me no, però, non viene. E nemmeno la voglia di dire sempre le cose in faccia. Questa cosa della voglia sta diventando una componente sempre più rilevante della mia condotta. Ci misuro il tempo. Niente orologi o battiti di ciglia, niente sobbalzi del cuore o fogli di calendario. L’unità di misura del mio tempo è la voglia che ho dietro le palpebre: chiudo gli occhi e inspiro, apro gli occhi e se ho voglia faccio, dico, scrivo, penso, mangio, impreco. Quando dico che non ho tempo, in realtà, non ho voglia. Quando dico che non ho voglia è perché so che non ho tempo, non ne ho davvero, perché adesso lo so. Dico le cose in faccia a seconda della faccia, se è importante si, altrimenti no. Ma si può leggere come la penso sulla mia faccia. Oppure qui.

Ho dovuto descrivere un cuore di gomma chiuso in una gabbietta per uccelli. Era un esercizio, mi hanno fatta sedere lontana e da quel punto di vista ho dovuto scrivere. Avevo venti minuti di tempo. Come non averne, in pratica. Non ero nemmeno certa che fosse un cuore di gomma, sembrava anche un cervello, avevo il dubbio. Io ho sempre il dubbio, tanto. Tra cuore e cervello soprattutto, ma il tempo era poco e ho scelto il cuore, che poi è esattamente come vivo. Ho scritto un monologo che sembrava un dialogo su questo cuore portato via, lontano, sulla vita vissuta senza cuore chiedendomi come fosse possibile, in realtà, vivere con un cuore che sente tutto. Per farlo, per scrivere, ho rigirato le dita tra i miei capelli e sono andata lontano nel tempo, a quando ne avevo ancora tanto o per lo meno non sapevo, ancora non sapevo, di non averne abbastanza. Sono tornata alla prima volta che il mio cuore è andato via da me, ho pensato a un nome che mi piaceva pronunciare e che non chiamo più, a tutto quello che gli ho detto dritto in faccia come se fosse importante, alle risate che abbiamo mischiato come vino con acqua, come sangue in un patto scellerato. Al mio cuore che poi sembrava un cervello quando sono andata a riprenderlo e funzionava come funzionava un cervello e non un cuore e così è stato per tanto tempo o forse solo finchè ne ho avuto voglia.

Ho letto a voce alta questa storia del cuore lontano, mi sono imbarazzata, ho balbettato in due momenti, come da piccola, ho preso fiato, ho finito di leggere e mi veniva da ridere ma era per il nervoso, era la tensione, era il sollievo, era qualcosa di importante che non avevo mai più detto. Adesso io lo so davvero.

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7 pensieri su “Detto tra noi

  1. Mirabile.
    Ma non riesco a staccare il pensiero da quel cuore di gomma. Ma è di gomma piena? O è vuota? E se è vuota, con cosa si gonfia? Con l’aria? Con l’azoto? Con l’elio?
    E se invece fosse pieno? È gomma per cancellare? È una guarnizione per non far gocciolare la.disperazione?
    Quando entro qui e ti leggo me ne vado sempre con un mucchio di domande senza risposta.

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  2. Quando mi iscrissi a filosofia mio padre disse che stavo buttando tempo, ma si sa che i padri (io per primo) spesso non capiscono un cazzo. Sul tempo perso e la percezione che ne abbiamo ora rispetto a qualche tempo fa, mi viene sempre in mente il coniglio di Alice e comunque spesso penso che sia esagerato persino il tempo che ci vuole ad aspettare che la chiavetta USB sia pronta per essere tolta dal dispositivo!

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