Le mie figlie entrano a scuola da sole, parcheggio davanti al mio ufficio che è nella stessa via dell’istituto che frequentano, una al primo piano, elementari, l’altra al secondo piano, medie, e loro vanno. Cristina non mi saluta nemmeno, scappa veloce che nessuno veda che ha ancora una famiglia, Pepe mi dà la mano come consolazione fino al cancello e poi va, un ultimo bacio, la frase con la quale ci salutiamo è sempre la stessa “ci vediamo alle quattro”la sua battuta, “ci sarò” la mia battuta. Alle quattro io ci sono sempre.

Lascio loro così, frugo in borsa per trovare le chiavi, inutilmente, perché le metto nella bustina interna di ogni borsa eppure le cerco sempre, le tiro fuori, apro, interruttore sulla sinistra, cinque gradini e sempre sulla sinistra la porta della stanza dove lavoro io, fino alle quattro, poi lascio tutto com’è. Questo ufficio l’ho affittato tre anni fa, è stata una necessità e una gran botta di culo allo stesso tempo, fenomeno rarissimo nella mia vita (non lo stato di necessità ma la botta di culo). Dovevo andare via da dove lavoravo prima, nel senso fisico del termine, ero troppo vicina a persone che era meglio che non mi vedessero più. E così mi sono messa in cerca di qualcosa che fosse vicino alla scuola delle ragazze, per ottimizzare gli spostamenti. Ho trovato questo posto, piccolo e vivibile, i gradini all’ingresso mi sono piaciuti subito, ci ho messo delle piante finte prese all’Ikea, e ho lasciato qualcuno affacciato alla finestra ad aspettare invano di vedermi passare. Io ottimizzo sempre.

Lascio l’auto e mi muovo a piedi, da qui. Arrivo in centro, se voglio. Vado in palestra, meno di un chilometro, cammino e intanto penso,non è poco. Attraverso la stessa piazza che attraversavo da ragazzina per andare al liceo, è la stessa strada solo all’incontrario. La cosa che è rimasta uguale da allora è il bar tabacchi all’angolo, il resto è tutto diverso. Forse la farmacia, ma non sono sicura. E c’erano i semafori, prima, adesso c’è una rotatoria e le strisce per i pedoni e un pezzo di pista ciclabile. Non c’è più la cabina telefonica dalla quale chiamavo il mio ragazzo quando scendevo dal pullman, prima di prenderne un altro, alla fine della mattinata a scuola. Lui studiava all’Isef, io ero in seconda classico. Si diceva così, prima, seconda e terza classico. Terzo, quarto e quinto anno. Lui aveva altri orari, magari dormiva fino alle dieci, io lo chiamavo a casa, viveva già da solo a Milano, ricordo ancora il numero, gli dicevo non so più cosa, forse che mi avevano interrogata o come era andata la versione, che mi mancava forse, ma non sono sicura. Una volta lui mi aveva raccontato di un suo esame, ricordo, ero appoggiata con lo zaino alla porta basculante della cabina, aveva dovuto fare il quadro svedese, io avevo riso, mi sembrava assurdo che quella fosse un’università, lui si era offeso e mi aveva detto che quel mio atteggiamento così sicuro era fastidioso, forse aveva detto qualcosa che c’entrava con il fatto di sparare sentenze. Il casino era fare pace entro il credito della tessera telefonica. Non sono sicura di esserci riuscita quella volta. Vorrei dirglielo che no,  io non sono sicura sempre.

Lascio Cri da una compagna, più tardi. Devono fare una ricerca di musica, su un’opera lirica, non ho capito quale, il professore di musica dice che visto che i ragazzi, oggi, ascoltano musica di merda grazie a quel che passano i mass media allora lui dà questi compiti, così capiscono che c’è anche altro. Mi sembra giusto. A parte che ha detto “mass midia”, durante la riunione, e io ho visto la professoressa di lettere fare la bocca del disgusto e volevo abbracciarla o anche solo dirle che sembrava che sparasse sentenze ma che la capivo. A parte che la musica di merda la ascoltavo anch’io secondo il mio professore di musica e ancora l’ascolto secondo le mie figlie, quindi sono almeno trent’anni che per qualcuno io ascolto robaccia. Io, a volte, lascio la playlist delle ragazze in macchina, anche quando sono sola, perché è come la mano di Pepe sino al cancello, un po’ mi consola. Sono felice che Cri si organizzi con le amiche, che vada a casa di qualcuno, che voglia invitare altre ragazzine da noi, anche se questo mi genera un po’ di ansia, non so perché, forse perché poi pensa che le altre mamme siano meglio, che a casa degli altri ci sia più felicità o più libertà o più serietà perché io lo so che a volte non le sembro seria, a volte io non sono seria e che magari questo non le piace e allora magari invita poche persone per colpa mia, perché la imbarazzo ma poi penso porca puttana se la imbarazzo io allora non c’è davvero speranza per nessuno e però così mi pare che sono lì a sparare sentenze ma non vorrei mai colpire lei e niente alla fine lascio perdere che faccia come vuole, che vada dove vuole, che inviti chi vuole, che mi lasci stare che io ho l’ansia. Sempre.

Io andavo dalla mia amica Laura che aveva una casa bellissima, con il salone e la sala da pranzo, la taverna e la mansarda, i suoi genitori avevano il bagno in camera, era la prima volta che ne vedevo uno, che mi dicevano che si poteva avere il bagno privato, padronale, ecco. Lei aveva la nonna che viveva con loro e la tata tutto il pomeriggio. Mangiava partendo dal secondo perché per la pasta i tempi di cottura erano più lunghi rispetto alla carne allora la mangiava dopo. A me sembrava stranissimo. Anche mangiare primo e secondo nello stesso pasto, io a casa mia mangiavo la pasta a pranzo e la carne a cena. E poi aveva il telefono in camera, alle due del pomeriggio sua madre la chiamava dall’ufficio e le chiedeva della giornata a scuola. La mamma di Laura era una donna molto curata, fumava le sigarette sottili e lunghe, aveva lo smalto rosso e le calze velate, indossava decolté con il tacco a spillo e pellicce argentate. La mia amica Vale invece aveva due sorelline piccole e sua madre cucinava le polpette friggendole nel burro o nella margarina. A casa mia il burro non lo avevamo. Mia madre non lo usava, da noi solo olio, il burro era roba da piemontesi diceva e noi non siamo piemontesi, sottolineava.  Però anche da Vale c’era disordine come da noi ma sua madre era più allegra della mia, faceva battute divertenti, voleva che le dessi il tu e sembrava felice di avermi lì. Una volta si è arrabbiata con la figlia, io ero da loro e ho assistito, è stato imbarazzante. Ma era arrivata anche la nonna in visita, forse a riportare una delle sorelline e aveva difeso la nipote, a voce alta, quasi rimproverando lei la figlia. Le aveva detto “non ha chiesto lei di nascere, l’hai voluta, ricordatelo sempre”. Io a questa frase ci penso, ogni tanto. Quando mi arrabbio con le mie figlie o con mia madre o con me stessa. Ma con me stessa io mi arrabbio sempre.

Lascio da parte sempre qualcosa, non finisco del tutto. Lascio due pratiche per lunedì, potrei farle ma non le faccio. Perché così so già cosa devo fare, da dove partire, come devo iniziare.  Devo trovare un modo anche per finire, per sapere come finire. Pare che la fine sia più importante dell’inizio, in tutto. Che devi avere un’idea certa della fine per partire bene dal’inizio, in tutto. Per esempio, una storia, se sai già come finisce allora è più facile raccontarla dall’inizio perché la ricostruisci all’indietro, come il pranzo a casa di Laura insomma. Io ho problemi con la fine, con il finale, mi viene l’ansia e allora non finisco. Oppure finisco in modo brusco, tronco, lascio alla finestra ad aspettare di vedermi passare e non passo più, faccio il dito medio da qui, non dedico nemmeno un finale,  lascio tutte le ragioni che nemmeno saprei dove mettermele anche a volermele tenere. Lascio appunti sparsi, uso fogli di recupero in ufficio, un quaderno verde sempre in borsa, l’applicazione notes del telefono, i post it nel primo cassetto della scrivania. Li lascio scritti a mano, con la mia grafia illeggibile, se possibile peggiora di anno in anno, ormai faccio fatica a rileggermi da sola. Lascio idee come lascio capelli nel lavandino in questo periodo. Lascio ricordi e poi qualcuno mi chiede perché e io non so rispondere, non del tutto. E vorrei dire che così lascio me ma temo che non capirebbe cosa significa volersi lasciare e non poterlo fare, non saper scrivere il finale e allora lascio perdere, lascio correre, lascio stare.  Alla fine io mi lascerei sempre.

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2 pensieri su “Lascio, sempre

  1. Molto belli i tuoi racconti, il rapporto con le tue figlie, con le tue amiche (quando anche tu eri “solo” figlia).. il finale e’ ancora da scrivere, ma mi sembra un po’ presto, no? La calligrafia illeggibile mi ha colpito: dev’essere l’uso del computer, capita anche a me… bisognerebbe scrivere a mano un po’ di piu’, in bella, scrivere e cancellare, scrivere e sbarrare, e riscrivere…

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