La signora ha iniziato la sua giornata come ogni giornata, rigirandosi dall’altra parte e sapendo di non poterlo fare. Poi si è alzata e ha fatto quello che fa ogni altro giorno. È andata in bagno, ha tolto l’antifurto, ha fatto uscire i cani in giardino, ha messo l’acqua nel bollitore per suo marito, tirato fuori dal frigo il latte per la figlia minore, disposto i pacchi di biscotti per la figlia maggiore, riaperto ai cani, preso un biscotto dalla confezione dei biscotti per cani, tagliato in due, un pezzo a uno e un pezzo all’altro- siete chiatti– ha detto, preso lo yogurt greco 0% grassi e una strisciolina di cioccolato fondente, acceso la Nespresso.
Si è seduta.
Ha mangiato.
Si è alzata.
Ha preso il caffè.
E’ andata in camera da letto. Ha aperto l’armadio, solo un’anta perché il cane si sdraia davanti all’altra. Levati, sembri un bisonte.
“Comunque io faccio il test del DNA, perché secondo me tu m’hai fregata con queste due, magari non sono figlie mie e me le hai rifilate.”
Va bene, le ha risposto lui. Se vuoi le porto io a scuola.
No, no, vado io che ho un sacco di roba da fare in ufficio.
La signora si veste in bagno, per non disturbare il marito. Prende al buio, apre, si arrangia un po’. Ha svuotato l’asciugatrice e messo tutto in una bacinella grande e adesso cerca un posto dove nasconderla alla vista della signora delle pulizie, altrimenti quella stira la qualunque e perde tempo con le magliette che lei indossa sotto i pigiami, come quella del Liceo, dell’anno della maturità.
Ci parli della figura dell’inetto a vivere di Svevo.
Crema idratante dal centro del viso verso l’esterno, nessun effetto tensore, sono i rimasugli di flaconi mischiati tra loro, quella che residua sulle mani la stende fino al gomito o sul collo.
Sveglia la figlia piccola. La grande oggi salta scuola. Non va bene, no. Ma ieri sera è arrivata tardi dall’allenamento e l’osteopata l’ha scrocchiata come un bastoncino per accendere il fuoco in campeggio. Resta a casa e recupera le forze, domani andrà, motivi di famiglia scriverà nella giustificazione, ma penserà “cazzi nostri”.
Torna in camera da letto. Il cane piccolo è sulla coperta sopra il piumone, messa lì proprio per lui. Gli allaccia la pettorina, gli mette il maglioncino a collo alto con la scritta i love my boss, “la odia quella roba” dice suo marito dal fondo del letto e di chissà quale dormiveglia. Lo so, ma fa ancora freddo. Lo prendono per il culo anche i gatti. Ma smettila che non lo vede nessuno e poi è proprio bello, vero che sei bello? Si che sei bello, il più bello.
“A che ora torni?”
Ogni giorno la signora dice al marito a che ora tornerà perché lui non lo ricorda, se glielo dice la sera prima poi lui lo dimentica, lei potrebbe anche dirgli cose diverse ma non lo fa perché non le viene di dire cose diverse da quello che fa. Non a lui.
La figlia piccola è quasi pronta, oggi c’è musica, porta la pianolina sulla quale si è esercitata ieri, dopo l’osteopata e prima delle espressioni con le potenze. Che noia musica, pensa la signora seduta sul letto con il cane piccolo in braccio mentre osserva la bambina sul muro.
Se n’è venuto lui, un giorno, con un gran sorriso. Guarda tuo padre cosa mi ha dato? La possiamo appendere in camera.
Non voglio foto appese in camera.
Ma è bella, hai sempre la stessa faccia.
Non voglio foto appese in camera.
Hai visto cosa c’è scritto dietro?
Non ho bisogno di vederlo. Ci sarà la data e la dedica. Tutte quelle foto sono così, mio nonno me le faceva solo per questo, solo per potermele dedicare.
Marzo 1981.
Due anni e mezzo.
alla fine l’aveva incorniciata e appesa. Testardo lui.
Qui? Più a destra, più a sinistra?
Non voglio foto appese in camera.
Allora qui?
Si.
La signora guarda la bambina ogni sera e ogni mattina. La cuffietta a spicchi, il cappotto rosso come cappuccetto rosso ma senza nonna, solo con il lupo. Gliel’avresti fatta mangiare, eh? Non l’avresti difesa più di tanto. E non ci saresti cascata, non avresti mai scambiato il lupo per tua nonna. Lei aveva gli occhi rotondi, più da capra che da lupo. E profumava di borotalco, mica di bosco. Non te la raccontava questa storia, vero? Ogni tanto, ma preferiva altro, roba più cupa ancora, la tua preferita era quella della vecchiarella senza soldi e senza nessuno che però dei soldi si preoccupava poco, era più questo fatto di essere sola che la angosciava e allora un giorno trovò una moneta in terra e cosa fece? Si comprò un rossetto rosso e se lo passò così, di sopra e di sotto, tutta la bocca pure che era una bocca vecchia e con le grinze, tutta la bocca rossa. E con il muso rosso e un poco sporgente prese una sedia e aspettò qualcuno che la notasse. Ma tutti passavano e non si accorgevano di lei e della bocca rossa sporgente, nessuno la guardava o peggio, la guardavano e ridevano, perché era una vecchia con il muso tutto dipinto di rosso. Poi passò un topolino. Il topolino la notò. Lei lo raccolse. Andava bene pure il topolino innamorato. La vecchiarella e il suricillo.
Si, è vero, le dice la signora. Non era la tua preferita, era la sua preferita da raccontare. Ma meglio di quando ti raccontava la storia della bambina affacciata alla finestra chiamata dal diavolo che era, casualmente, in cortile.
Non ti ricordi di me, eh? Non mi hai mai vista, vero? Nemmeno in un sogno? Nemmeno quando chiudevi gli occhi per soffiare sulle candeline? No, lo so. Io mi ricordo di te. Quello sguardo, di chi non sta fingendo che gli altri non ci siano ma sta immaginando di non esserci. Non lo sai chi sono io?
Sono la somma di tutti i non riesco che hai detto e pensato.
Le settimane enigmistiche sul davanzale del bagno, tutti i puntini che hai unito, tuo fratello che ti chiede se hai finito, il quaderno aperto sulla scrivania, il cancellino per la stilografica, gli album di figurine mai completati, le doppie mai scambiate, le frasi non pronunciate per paura di non dirle intere, le scuse mai ricevute e quelle mai dichiarate. Sono il Corriere dei Piccoli, Ventimila Leghe sotto i mari, Il Piccolo Lord, le tute della Campagnolo, la canottiera con lana fuori e cotone sulla pelle, il suono di papà al citofono.
Sono le case che non abiti più, i nonni quando c’erano tutti e quando non ci sono più, che ne sai tu.
I cuori con il bianchetto sulla Smemoranda, il telefono che non suona e il pedalò solo per andare a fare i tuffi.
Sono i tuffi che, però, tu non hai mai fatto.
Sono i fratelli e le sorelle che no, non avevi mai chiesto. Si, volevi un cane, è vero.
Sono il cucciolo recuperato sul ciglio di una strada.
Teniamolo teniamolo teniamolo.
Le calze nere che non puoi indossare perché sono volgari.
Gli anfibi che ti rovinano i piedi.
Le all star che ti faranno marcire i piedi.
Il trucco che non ti serve a niente.
Tutte le convinzioni di tua madre catalogate per argomento.
Sono l’assenza di ogni convinzione, per convinzione.
Sono i peccati inventati per la confessione con il vicepreside alle medie, Don Mario. Il no crocettato all’insegnamento della religione cattolica in quarta ginnasio.
Sono che di Achille e Patroclo da ora che avevo capito.
Sono la fidanzata che fa la sorpresa a cui però apre la porta l’altra.
Sono l’altra che si sfila un attimo prima che la porta suoni.
Sono il rumore dell’ascensore quando si chiude.
Sono un taxi fino al Duomo e poi da lì non so ma a casa no.
Le statue dei Re in Piazza del Plebiscito e la sfogliatella riccia.
Sono lo stomaco che si chiude per amore e per rabbia.
Le bacche di mirto.
La disciplina della vendita ex art.1470 C.C.
I capitoli da portare a ricevimento.
Sono le strette di mano, il diamoci il tu, sono i caffè da ogni cliente, sono la pipì su un test e poi un altro e ancora uno per essere sicura. Sono un monitor nero e un cuore che non batte. Sono ventidue chili in più e i piedi rovinati, questo mamma non me lo aveva detto, ma il cuore batte.
Sono la mamma di due femmine, nessun maschio che volevi chiamare Fabio, come la segretaria di tuo nonno, la Silvana, aveva chiamato suo figlio.
Sono i jeans di prima che si chiudono di nuovo.
Sì. Il mio latte, che fortuna.
Sono una che passava di qui per caso, come il diavolo nel cortile.
Sono l’ingrediente che manca per completare la ricetta.
Sono il mascara sul cuscino.
Sono tutto quello che non so fare: sciare, cucire, dimenticare, ballare, perdonare, curare le piante, riparare gli oggetti. Sono le promesse che hai fatto di notte in cambio di chissà cosa, sono una borsa di tela di una libreria con la scritta Leggo per legittima difesa dentro la quale infilo ogni mattina quaderni e appunti che sono personaggi con i quali gioco come facevi con i puffi, lo so che li tiravi tutti fuori e li mettevi vicini e inventavi storie e al posto della voce uso le penne, sempre le stesse penne, quelle con la punta sottile, sono gialle e nere, non ricordo mai il nome, in cartoleria le indico sempre, sono una che si perde in cartoleria in mezzo a tutte quelle cose, anche a te piaceva, lo so, avevi sempre il materiale perfetto ma essenziale, le gomme a forma di gomma e i temperini di metallo, i quaderni senza fronzoli. Sono la figlia della maestra. Non voglio altre penne e non voglio foto appese alle pareti, foto di te, bambina con la cuffietta a spicchi, perché lo so che tu mi guardi e io non so se riesco a starti seduta davanti senza sentirmi su un’altalena ferma. Hanno il tratto sottile, e così anche la mia scrittura, brutta, sembra più bella, le parole si legano su un filo, come i panni in estate, all’aperto. Come le foto nella camera oscura, prima che diventino immagine.
Sono te prima di diventare me.
Sono io e spero di piacerti, metto il rossetto rosso e no, non sono sola, ma vorrei piacerti lo stesso e poi vorrei toglierti quella cuffia orrenda, posso?
Sono una storia che fa ridere.
Sono un amore che non finisce. Anche per te se vuoi.
Sono la Cara Sonia, scritto con una penna dal tratto sottile, in un giorno di marzo che ancora era freddo, dietro una foto da qualcuno che ti amava moltissimo anche se non lo guardavi, perché sei così.
Non sai chi sono, no?
Sono tutte le volte che ci sei riuscita, bambina sul muro.

Dallo sguardo si capisce che quella bambina sapeva già tutto. Ma non te lo avrebbe detto manco morta.
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Mai.
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La voglio anche io una borsa con la scritta leggo per legittima difesa! Comunque, alla fin fine, quando guardi quella foto, ti riconosci? ma soprattutto, quella della foto, potesse guardarti ora, ti riconoscerebbe? Questa è la domanda che mi faccio io di fronte a foto del genere
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Penso di si. Più di chiunque altro.
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E allora va bene amica mia!
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