Noi (avrei preferenza di no)

Sto aspettando la mail dal Liceo che confermi, o meno, l’avvenuta iscrizione di Cri alla classe prima.

Dio.

Guardo il telefono con la regolarità delle contrazioni del parto. Perché ho tolto la suoneria, non ho alcuna notifica, quindi devo guardarlo per sapere se succede qualcosa. L’ho tolta perché, perché è una storia lunga, in sintesi mi mette ansia e allora ho eliminato un fattore di ansia. Sono stata brava.

Poi alla fine mi avevano fatto un cesareo di urgenza, tutte quelle contrazioni per niente.

I termini per la presentazione delle domande sono scaduti il 24, la finestra temporale entro la quale inviare le richieste era dal 4 al 24 gennaio.

Io quando l’ho presentata?

Certo.

Il 4. Mattina.

Adesso voglio la mia risposta, voglio sapere in quale delle due scuole indicate è stata presa.

Il punto, in questa vicenda e in tutte le altre che mi attraversano le pallide giornate come vene troppo in evidenza, è che il condominio che mi abita la testa partecipa rumorosamente. Amminchiata con la storia del Liceo e della mail ci sono io e tutte le altre me e siamo tutte d’accordo sul nome che vorremmo leggere come mittente della mail, che no, non è arrivata nemmeno ora.

È la pubblicità dell’abbonamento musei. Che però sono chiusi.

Poi, in preda alla stizza le cancello queste comunicazioni che mi fanno perdere tempo, nemmeno le apro, via, direttamente nel cestino.

Perché lo vuoi sapere con tutta questa premura, mi chiede la me appena arrivata. Capirai. Cosa ne capisce questa, è qui da poco, non conosce come funziona, vive rilassata e cerca di avere buoni rapporti con tutte, impossibile. Non è premura. I termini sono chiusi adesso devono dirmelo. Perché devo organizzarmi mentalmente: la ragazza vuole prendere i mezzi.

I mezzi?

Tutte in coro, le impiccione.

Si. I mezzi. E statevi zitte tutte. I mezzi. I mezzi.

È giusto, dice quella dell’ultimo piano, l’attico. Ma mica mansardato, mica quelle stronzate di sottotetti riqualificati, l’attico, l’attico vero. Eh, ma quelli dell’attico sono aperti di vedute, spaziano con lo sguardo, non hanno limiti se non l’orizzonte. Stanno in alto e non vedono e non sentono cosa succede giù. È giusto, dice. Io alla sua età li prendevo. E mi toglievo la tazza della colazione. Questo non c’entra, intervengo. Si fa per dire, risponde.

Giusto un cazzo, dice quella del primo piano. La ragazza non distingue la destra e la sinistra, finisce dalla parte opposta di Torino. Uh, Gesù- quella dell’attico- pure mio fratello non distingue la destra e la sinistra e gira il mondo, ha imparato anche a guidare dal lato sbagliato.

E chi te l’ha detto che è sbagliato? Sempre questa piccineria che se una cosa non è come la fai tu è sbagliata.

La me del primo piano e quella dell’attico si odiano. Vecchi rancori, la prima non gliene fa passare una, l’altra si comporta come se questa nemmeno esistesse.

Non è facile stare al primo piano, passano tutti. Se apri le finestre senti tutti i rumori, paghi per la pulizia delle scale che non usi. Se si guasta l’ascensore paghi e non lo usi. Quando montano il ponteggio sei il primo a cui rompono le palle e l’ultimo a esserne liberato.

Sotto l’attico c’è la salutista. Sale e scende rigorosamente a piedi, non fuma perché ha il terrore del cancro  e poi perché tutte le persone che le piacciono non fumano mentre tutte quelle che non le piacciono fumano e non vuole essere una persona che non le piace, non mangia carne perché ha sperimentato sul suo corpo che si sente meglio senza, si allena con un istruttore con regolarità da Paesi del Nord, infatti le altre la prendono per il culo ma lei non se ne cura proprio, scherzate scherzate, dice, voglio sentire il rumore delle vostre ginocchia o delle spalle, sembrate fatte in tempura. La ragazza è sportiva, intelligente, prenda i mezzi e si dia una svegliata che il mondo è fuori dall’abitacolo della macchina fucsia di sua madre, sentenzia.

La signora dei cani sta al secondo piano e a lei non fotte moltissimo della questione perché gli esseri umani, anche se partoriti da lei, non le interessano poi così tanto. Il regolamento prevede massimo due cani, lei cerca il modo di derogare. Non si può. E che vada con i mezzi la ragazza, se proprio devo dire la mia.

Accanto a lei, stesso pianerottolo, c’è l’impiegata, quella che con la scusa della mascherina trucca solo gli occhi e certi giorni nemmeno quelli perché le lacrimano davanti al computer e si sfrega dimentica del mascara e alla fine ha tutto il nero sotto e non si copre con la mascherina quel pezzo di viso. Lei valuta, fa il controllo di gestione, struttura i processi. Se la prendono nel primo Liceo (ti prego ti prego ti prego ti prego) può prendere i mezzi all’uscita. All’andata la lascio all’incrocio, deve attraversare la piazza, nessuno dei compagni la vedrebbe con la madre. Poi proseguo fino alle medie della piccola. Viaggio ottimizzato.

La piazza non è semaforizzata. Ha una rotatoria e quattro strisce pedonali fetenti. I binari del tram. Il tram. Il tram. Te lo ricordi cosa è successo a una ragazzina una volta lì? Proprio lì, non in un’altra piazza in un’altra città in un’altra nazione? Zac. Sotto il tram. Niente più gambe.

Minchia quella del primo.

Infatti non ci si può parlare, dice quella dell’attico. Una disgrazia dietro l’altra e se non accadono le immagina. Non succederà niente alla ragazza. Si può fare così, la lasciamo all’angolo, attraversa, entra, la sua vita di relazione e la reputazione sono salve e siamo tutte tranquille. Al ritorno prenderà i mezzi fino all’ufficio, da lì andremo a casa.

Può anche farsela a piedi fino all’ufficio, interviene la salutista. Possiamo andarle incontro, quella con i cani.

E se la prendono nel secondo Liceo?

Zitta tu, che sei appena arrivata e non hai ancora capito qui come funziona.

Comunque siamo tutte d’accordo con la ragazza che se dovesse arrivare la mail mentre lei è a scuola non la leggiamo. Aspettiamo.

Io e Cri ci siamo immaginate la scena di me che lancio sassi contro la finestra della sua aula in preda alla necessità di aprire la mail e la sua amica le dice qualcosa tipo Cri, c’è tua madre che sta compiendo atti vandalici ai danni della scuola e Cri che le risponde no, no, tranquilla, è solo arrivata la mail del Liceo.

Resistiamo, tutte. Ciascuna di noi ha il suo discreto bagaglio di esperienza in materia.

Vorrà dire che prenderà il controllo della situazione quella del terzo piano, la ragazza della musica che non capisce la musica ma ascolta solo le parole. Accanto a lei c’è la creativa. La peggiore. Quella non è mai da sola, soprattutto di notte. Tira fuori tutti i personaggi- escono dice lei, quelli escono da soli, figuriamoci se li tiro fuori- e partono grandi discussioni, a volte i toni si alzano.  Lei scrive e scrive e scrive. Cosa scriva non si sa. Perché scriva non si sa. Quando finisce non si sa. Non si sa niente, solo che sta lì e scrive e scrive e scrive, anche se non la si vede con la penna in mano si può stare certi che sta scrivendo e da qui le discussioni. Siete solo personaggi, non esistete, urla. Siamo qui quindi esistiamo, io questa cosa non la dico, tu la dici, no, guardami bene, io ho un tono diverso, queste parole in bocca mia non funzionano, non è il mio registro, rileggi e vedi.  Allora lo sguardo le si fa vitreo. Abbassa il mento, ritira le spalle, le clavicole spuntano che ti viene da impugnarle come manubri.

Mai, mai dirle di rileggere. Non lo fa. Perché? Non si sa. La ragazza deve andare con i mezzi perché solo così può osservare le storie che vivono accanto alla sua.

Intensa e sofferta, le dice la psicoterapeuta che ha affittato il piano rialzato. Gli psicologi stanno sempre al piano rialzato, così gli altri condomini non vedono i pazienti e la privacy è tutelata e poi non c’è un continuo su e giù per le scale, che fa incazzare quella delle pulizie che tutti chiamano la stronza che tanto poi pulisce, perché lei il suo nome non l’ha mai detto a nessuno ma se qualcuno le chiede qualsiasi cosa lei così risponde, si, si, tanto c’è la stronza che poi pulisce. Non sei passata bene lì, nell’angolo, le dice quella del primo piano. La guarda con benevolenza quella dell’attico perché la stronza che poi pulisce fa cose strane, recupera, ricicla, improvvisa, evita gli sprechi. La crema solare ricomprata a quattro giorni dalla fine delle vacanze lei mica la butta, no, la usa come crema idratante d’inverno, tanto l’anno dopo non sarebbe più utilizzabile. Con il pane raffermo prepara delle zuppe di verdure, con i biscotti avanzati cucina la base per le torte, le bucce di mandarini le brucia nel camino e con l’acqua dell’asciugatrice lava i pavimenti. La stronza che poi pulisce è una di altri tempi, è contenta della psicoterapeuta perché prima di lei al piano rialzato c’era una ragazza sola e un po’ promiscua e non sono cose che vanno più bene. Comunque si, la ragazza può andare con i mezzi, basta che stia attenta.

A cosa, le chiede la terapeuta. A tutto. Perché c’è qualcosa a cui non dobbiamo stare attenti nella vita?

Ogni sera tutte quante prepariamo la lettera di disdetta. La scriviamo, siamo sicure poi la rileggiamo (non tutte) e la strappiamo e ricominciamo il giorno dopo, chi guarda oltre, chi si barrica dentro per non sentire il rumore, chi ha bisogno dei cani perché deve sentirsi in branco per non far impazzire il lupo che la subaffitta, chi si dedica al corpo perché è la sola casa nella quale stare sempre, chi tanto poi pulisce perché alla fine stronze lo siamo tutte care mie, anche tu che incroci numeri e controlli il recupero crediti e ti defili sempre un po’, ti sentiamo quando pensi: avrei preferenza di no.

È arrivata una mail.

È il parrucchiere che conferma l’appuntamento di domani, per il colore.

Quella dell’attico dice che andare di sabato è da pazze. L’impiegata le risponde che sai com’è in settimana è impossibile stare seduta lì due ore, la salutista dice che stare seduta due ore è impensabile, facciamo il giro del salone con la tinta in testa. La creativa si immagina grigia e basta senza alcuna schiavitù, tra i libri da leggere e quelli da scrivere. La stronza che poi pulisce ricorda di mettere una maglia di cui importa poco perché è un attimo che la rovinano con il colore, la signora dei cani pensa che non può portarlo il piccolino perché litiga con tutti gli altri cani, quella del primo vorrebbe scurirli, staresti male le dice la ragazza della musica, no non è vero, risponde l’ultima arrivata, bisogna sperimentare,  dire che non è vero equivale a dire che sta mentendo, bisognerebbe trovare un altro modo, interviene la psicoterapeuta del piano rialzato.

La ragazza prenderà i mezzi, i capelli non li modifichiamo, nessuna dà alcuna disdetta.

E comunque, vivo in una casa indipendente.  

Confesso

Non sopporti più le canzoni dei Pinguini Tattici Nucleari, basta, era partita come una cosa leggera, una ogni tanto, li ha scoperti la grande, ci ha tappezzato i muri della sua stanza con le facce stampate in bianco e nero e con le frasi ricopiate di fretta e strappate senza cura. E poi ha convinto anche la piccola, anche lei li ascolta, una canzone a testa e ormai solo loro, a te non tocca mai, tu aspetti che loro scendano dall’auto e poi dici a Spotify fai un po’ cosa vuoi, lo dici a tutti ormai, fai cosa vuoi. E non è mica per arrendevolezza, o forse un po’, è per libertà. Questo hai capito un giorno che non sai, che la libertà è la risposta più difficile da dare, che le persone non sanno gestirla, ne hanno paura, le persone preferiscono sentirsi dire cosa fare, entro quanto, come fare, per poterti dare la responsabilità delle loro azioni. E tu invece te ne arrivi con il tuo “fai cosa vuoi”.

Spotify sa cose di te che non ti capaciti.

Per lui dovresti essere una ragazzina. Secondo il suo algoritmo hai meno di sedici anni.

Invece appena restate soli e gli dici fai cosa vuoi lui mette canzoni vecchie, vecchie come te, come è possibile? L’altra sera mentre andavi a prendere la grande ti ha proposto Toto Cutugno, come ti permetti, gli hai detto ma lui si è permesso e tu la conoscevi quella canzone, eri sul bordo del letto dei nonni, l’anta dell’armadio da parte di nonna era aperta, lo specchio ti mostrava a te stessa, tua cugina voleva giocare con i biberon dei bambolotti, quelli con il latte dentro che quando li giravi il latte non si vedeva più. Via di qui, via di qui, andate a giocare di là.

Spotify lo sa.

Hai comprato dei mocassini in stampa cocco, li indossi senza calze, hai deciso che basta calze, anche se è inverno, sotto i pantaloni non le porti più. Non è igienico, ti hanno detto. Si, se con i piedi ti abbraccio o ti imbocco, ma siccome con i piedi ci cammino i miei passi e basta è igienico hai detto, li lavi, sono i tuoi piedi e non vogliono più le calze. Sia la grande che la piccola ti hanno detto che sono scarpe da vecchia. Allora va bene, allora stiamo andando bene, ti sei detta soddisfatta allo specchio in bagno mentre ti lavavi i denti con lo spazzolino elettrico in equilibrio su una gamba per l’arcata superiore e sull’altra per quella inferiore. Allena l’equilibrio e tiene sveglio il metabolismo.

La distanza generazionale è segnata, è importante, ti dici, che non si crei confusione. Tu mamma loro figlie. Tuo ruolo, loro ruolo. Loro canzoni tuo scassamento di coglioni.

Hai comprato i ricambi a righe e quadretti per i quadernoni delle tue figlie e hai fatto il giro più lungo a piedi. Cammini per tenere sveglio il metabolismo, questa è la tua missione, non lo sa nessuno non perché tu non lo dica chiaramente ma perché nessuno te lo chiede. E poi i passi, tutti quei passi ti servono per far scendere i pensieri, se scatta il rosso cambi strada per non fermarti e anche se allunghi non ti importa perché tenere il ritmo è più importante, per te, in questo momento. Più importante del tornare prima in ufficio, del freddo, più importante di tutto quello che è importante.

Lo incontri, capita, avete lo studio a pochi isolati di distanza, prima che mettessero la sosta a pagamento vi incrociavate in auto, sperduti nelle vie a cercare un posto, lui ha la macchina più grande della tua ma tu sei uno schifo a parcheggiare e alla fine il posto che serve a lui è simile a quello di cui hai bisogno tu. Vi vedete e non riesci a dirgli che ti dispiace per sua moglie. Anzi, che ti dispiace per lui e per le bambine. Anzi, che ti dispiace per te, perché pensi che possa capitarti e mentre lo pensi fai le corna nelle tasche del giaccone, come quando la nonna di quel compagno della grande ti chiedeva come stavano le tue figlie, se avevano preso l’influenza o quel virus intestinale che girava nei corridoi dell’asilo e tu dicevi no, no, tutto bene e giù di corna nelle tasche e lo stesso quando quella lontana parente, corvo maledetto, ti diceva che eri fortunata perché le tue avevano una salute forte mentre le sue nipoti erano delicate. Ti dispiace per te, cammini e guardi altrove sperando di non incontrarlo. Lo incontri. E non riesci. La prossima volta, sussurri, ma sai già che no.

Nei piani alti dei palazzi le finestre non hanno quasi mai le tende, c’è meno la possibilità che qualcuno guardi dentro. A te non piacciono le tende, a tuo marito sì. Arredano dice, è vero hai ammesso. È che vuoi vedere fuori e vivi in una situazione per cui non possono vederti dentro. Solo chi è dentro può vederti dentro. Acceleri il passo. C’è ancora un tuo vecchio cliente a quell’angolo, due vetrine fronte strada, annunci immobiliari di zona. Li chiamavi bovini, seguivi tutto il gruppo, decine di affiliati a Torino e provincia, tutti che ti chiedevano cosa dovevano fare con quelle informative che avevi dato. Nessuno che capiva subito. Molti erano tuoi coetanei, si sentivano imprenditori per qualche provvigione incassata in nero, soldi, soldi veri visti subito, con un po’ di parlantina veloce, forti dei loro diplomi di geometra senza la calce sulle mani come i loro padri. Di quella generazione, la tua, i più bravi hanno preso anche la laurea, i primi in famiglia, garantendosi l’adorazione perpetua dei nonni e l’invidia perenne dei cugini scemi. C’è sempre un cugino scemo, ti dici.

Tua madre ti ha sempre detto che non c’erano alternative alla laurea. Tuo padre è laureato, sei mica più scema di tuo padre tu.

Alle tue figlie lo hai sempre detto, dovranno frequentare l’Università, con assoluta libertà di scelta della Facoltà. Così dici, che tu hai la laurea, come una cosa che hai e non una cosa che sei. Sono mica più sceme di te, loro. Senza adorazioni, che non siete gente che adora.

Le targhe di ottone sono aumentate, non te ne ricordi così tante, lo studio legale davanti al tuo ufficio si, è lì da sempre. E anche quello della via dietro la tua, al piano rialzato, certe sere vedi i praticanti seduti vicini, ancora non hanno finito. C’è il nome di una tua compagna di corso, avete dato Procedura Penale insieme e anche Diritto del Lavoro, ha il cognome prima del tuo, veniva interrogata un attimo prima di te e ascoltavi, a volte se quello prima viene promosso pensi che sarai bocciato, come se non ci fosse posto per tutti. E se invece va male pensi che hai una possibilità. Non ti ricordi se è stata bocciata o promossa, ti ricordi di lei, paffuta. Tua nonna avrebbe detto accippata. Non grassa e non magra. Non bella e non brutta, le belle son fatte diversamente, avrebbe detto. Ogni anno dopo la sessione di esami di stato controlli la targa, non è mai cambiata, sempre Dott. prima del suo cognome, mai Avv., ti verrebbe da chiederle perché, perché questa ostinazione, dopo quindici anni. Magari lei ti chiederebbe perché, perché questa non ostinazione?

Perché non ti interessa, le diresti. Perché ci avevi provato solo per tenere attivo il metabolismo, per sentire i pensieri nella testa, prima di imparare a sentirli altrove. Perché vendevano la libreria del corso, quella in legno, con il retro in boiserie e avresti voluto ma non l’hai fatto, perché avevi i tuoi bovini che comunque ti hanno fatta ridere moltissimo con le loro approssimazioni e le scarpe di cuoio con la fibbia dorata. Quel gruppo non esiste più, qualcuno ha chiuso la propria attività fronte strada con due vetrine, altri continuano perché sanno fare solo quello, mica per ostinazione e hanno nomi tremendi in cui mettono sempre la parola casa, tanto per non sbagliare.

Ti ha telefonato l’agente immobiliare da cui hai comprato tu, hai subito pensato a un problema, in meno di un secondo ti sei annotata mentalmente di chiamare il notaio per risolvere.

Voleva proporti una casa. Nella via dove è casa tua.

Incredula le hai detto che avevi comprato.

A lei sei sembrata acida e non incredula.

Ti ha detto, calma, la tolgo dalle nostre ricerche allora.

Ma ho comprato con voi, le hai detto cercando di sembrare ancora più incredula ma si sentiva che eri delusa. Ma come, cretina, perché sei cretina. Sei la cugina scema di qualcuno, vero? Ecco, questo è quello che è risuonato e non hai fatto nulla per mascherarlo. Dall’altra parte hanno chiuso.

L’hai raccontato alla grande e anche alla piccola, ma chi, quella che quando ci ha fatto vedere la casa ci diceva questa cucina è la cucina, questa camera è una camera, questa sala è una sala, questa rampa è una rampa? E giù a ridere, si, lei.

Uno dei bovini aveva una moglie, l’avevi soprannominata Moira. Aveva i capelli e il trucco come la Orfei. Anche le unghie. Lui era uno di quelli con i pantaloni appesi sotto la pancia che spunta, quegli uomini che non riescono a indossare alcun tipo di pantaloni senza sembrare Poldo di Braccio di Ferro. Ma lo chiamavi l’Onanista, comunque con la O maiuscola, come un nome proprio.  Una volta ti aveva detto che lei, la moglie, a un cliente che aveva ritirato la proposta di acquisto aveva detto “ti strappo il cuore e me lo mangio”. Da quel giorno la chiamavi Signora e le davi del lei volutamente, in un mondo dove passano al tu prima che tu scenda dall’auto. E cercavi di farla sentire intelligente. Era tanto che non pensavi a Moira e all’Onanista, chissà che fine hanno fatto, se hanno ancora quel bugigattolo in quel quartiere dove il più bravo ha la rogna. Chissà la madre di lui, speravi fosse morta prima di vedere la nuora.

Tua madre te lo diceva sempre, l’uomo ideale è orfano e figlio unico. Almeno una volta a settimana, per tenerti sveglio il metabolismo. Tu non lo dici alle tue figlie, non ha senso. Dirlo, la frase ne ha, è forse la cosa più sensata che lei ti abbia mai detto, superata solo dal “sarai un’ottima madre”, pronunciato quando la grande aveva dodici giorni, prima di partire per il mare lasciandoti sola con la neonata e il padre della neonata. Non ha senso dirlo, ciascuno ha i suoi ideali, la distanza generazionale è segnata, non ti ascolterebbero, tu hai i mocassini in stampa cocco, cammini veloce per stare dietro ai pensieri, hai fatto l’amore in una 127 tanto tempo fa, lui aveva gli occhi azzurri e una laurea, tu i compiti delle vacanze da finire e l’Università da progettare o sei vecchia o hai iniziato a far l’amore troppo giovane, no, ti dici, nessuna delle due, non te n’è mai fregato niente delle auto, ridi, una ragazza ti guarda, guarda i mocassini, non hai le calze.

Faccio come voglio, le dici. È la libertà.

Dentro o fuori

Sono stanca.

Non so se stanca da venerdì sera o più stanca da ultimi quarant’anni. Però sicuramente sono stanca da venerdì sera.  Sono stanca di sveglie programmate e tacche di serbatoio che scemano, spie che si accendono luminose, sensori che suonano a sfioro. No, non mi riferisco all’auto, non in senso stretto e nemmeno in senso lato.

Vedo quel che vedo da qui, questo è il lato dove mi colloco anche se provo a spostarmi, ogni tanto, ma il risultato è che mi vedo da fuori e non mi piace mai quando sto così, quando sono così, così stanca o così altrove che mi vedo da fuori. Poi, si sa, io sono campionessa del mondo del guardarmi dentro. Non è facile, eh. Ci vogliono anni e anni di prove, allenamento, tecnica, è metodo, è disciplina quella. Ci vuole carattere, insomma. Anche brutto, mica è detto. Quel che si ha. Io ce l’ho e questo è già di per sé disturbante. Bello no, ecco, no, non riuscirei a dire bello nemmeno visto da dentro. Ho il carattere come mio nonno aveva il naso: importante. Non puoi guardarlo di profilo perché può sembrarti orrendo ma se lo prendi frontalmente è meno fastidioso di quel che sembra. Dritto in faccia.

Grazie a questo carattere ho lottato contro il sonno, tra martedì e mercoledì notte, e a me non piace lottare contro il sonno o contro la fame o contro il prurito e resistere a tutti i costi, preferisco cedere. Ma non potevo addormentarmi, dovevo aspettare sveglia che Lui tornasse. Ho finito di leggere un libro, ho mandato Cri a letto quasi di forza, voleva aspettare con me, papà, papà mi chiedeva. Eh. Papà, papà adesso torna. Ho iniziato un altro libro, ho chiuso gli occhi per un secondo, li ho riaperti, controllato il telefono, aspettato, piegato le coperte, sistemato i cuscini, letto ancora, chiuso gli occhi un altro po’. Ho aspettato e alla fine ho vinto io, caro sonno, che se voglio so ancora farmi valere e poco conta se per due giorni mi sono trascinata come una larva, Lui è arrivato e io ho ceduto. Il piumone scricchiolava, la sveglia suonava tre ore dopo.

Sono stanca.

Ho un rimescolamento di parole in testa, come numeri nel sacchetto della tombola, pescatene una e vi dico come la vedo, se da dentro o da fuori, da quale lato.

Lunedi ho fatto una di quelle riunioni che si fanno adesso, dal pc, con Google meet, per parlare di un’idea, per darle forma e struttura e ne è uscita una seduta di analisi o forse una confessione aconfessionale o quasi delle dichiarazioni spontanee rese dall’indagato- io- in assenza del difensore- sempre io.

-Lo rifaresti?       

-No, forse no, ma per come sono io, eh. Per il mio istinto o il mio non istinto. Per tutto questo mio ragionare sempre tutto e poi niente. Succede il cortocircuito.

-Dov’è il cortocircuito?

-No, non dove ma quando.

-Quando?

-Quando ti accorgi che non c’è nessuna gara, non stai partecipando a nessuna gara e tu invece stai gareggiando. Da sola. Come un coglione, ma un coglione solo. Il mio cane, il piccolo, sai? Lui ha un testicolo solo.

-Come?

-Così. Ha un testicolo solo. Ho vietato battute a riguardo, sai. Lui aveva iniziato a chiamarlo monopalla, guai gli ho detto, non ti permettere. Ogni volta che ci penso io mi sento, così, come il coglione solo ma non quello sceso, no, io mi sento come quello ritenuto nell’inguine.

Sono stanca. A Torino ieri faceva caldo, c’era il vento, quello caldo. Oggi è freddo. Pizzica come aria di neve mi ha detto un papà fuori da scuola. Si, pare, gli ho risposto, perché io la certezza non te la do mai, mi dispiace. I papà fuori da scuola fano tenerezza. Sembrano spaesati, messi lì per caso, come se passassero accidentalmente. A volte pensi che possano prenderne uno a caso, anche un figlio non loro. Una volta è successo, al laboratorio di creatività, il papà di Greta prima si è perso nei corridoi poi grazie a una bidella ha trovato l’aula e ha aspettato il suo turno dietro di me e dietro la nonna di Margherita detta Marghe. Tutti hanno aspettato il loro turno dietro la nonna di Margherita detta Marghe almeno una volta nel corso degli anni delle elementari e quando finalmente toccava a lui ha guardato tutti i bambini presenti nell’aula, come se li scegliesse, e poi ha chiesto di Alessia. E lo abbiamo guardato tutti perché lui è il papà di Greta e Greta è figlia unica. Allora Greta gli ha detto io papà, devi prendere me.

Si è scusato. Era confuso, non so con chi si scusasse ma lo faceva, tre, quattro forse cinque volte, scusate, scusate.

-Perché hai fatto frequentare il laboratorio di creatività?

-Perché a fine giornata è un’attività distensiva. Perché io con le mani so fare niente. Me le guardo, sai, le mani. Nelle mani c’è tutto, c’è chi sei, cosa fai e cosa sai fare e io so farci niente. Volevo che loro sapessero vederci qualcosa, nelle loro mani. E poi recuperavo un’ora di lavoro. Si, anche questo, loro stavano lì al laboratorio e io avevo un’ora in più senza chiedere alla tata o ai nonni, ai cristi, ai santi tutti. Volevo smettere di chiedere.

Allora, quest’aria che pizzica, in montagna con quest’aria qui sicuramente nevica.

Eh, si, forse, non lo so.

Tanto non si può andare, hai sentito che forse fino al 15 febbraio tengono chiusi gli impianti?

No, non ho sentito.

Al telegiornale.

Eh, non ho sentito.

Si, pizzica proprio.

È gennaio.

Già.

Già.

E siamo di nuovo a venerdì, veloce eh?

Veloce, si.

Escono tardi oggi, come mai?

Mancano un paio di minuti.

Allora il mio orologio va avanti. Poi escono tutti insieme e con le mascherine è un casino, sembrano tutti uguali vero?

(no, il tuo trascina i piedi, come te, verso l’interno, è colpa delle ginocchia, dovreste farlo vedere, prende le schifezze di nascosto alle macchinette, barrette o patatine, magari portalo da un endocrinologo. Lo riconosci il tuo, esce sempre con l’altro, quello detto il Pirla, cioè io lo chiamo così, perché è davvero un pirla, era pirla già all’asilo. E con loro c’è anche l’Odioso, quello che è una perfetta crasi tra sua madre e suo padre, impiccione come lei e saccente come lui, sono sempre in tre, ma il tuo è buono, come sei buono tu, che ti imbarazzi a parlarmi e non sai perché. Le mie invece le riconosco anche se chiudo gli occhi da come spostano l’aria quando camminano. Dal balsamo per capelli. Dalla risata con la quale salutano l’amica che cammina accanto, le riconosco dal primo pianto al nido del Sant’Anna, avevano poche ore e sapevo che erano loro, dallo spessore della pelle sotto i piedi, sul calcagno, Pepe ha una cicatrice in testa sotto tutti i capelli che sono tanti e non puoi contarli a meno che tu non abbia a disposizione l’eternità e io e lei ce l’abbiamo, Cri ha un neo sul seno e si sveglia nella stessa posizione da quando è nata).

Più o meno. Eccoli, prendo le mie, come al ritiro bagagli in aeroporto.

Ride.

(che ti ridi)

Ciao.

Ciao, buona domenica.

Mamma che ti dicevi con il papà di Matteo?

Niente, che forse nevica.

E’ gennaio, capirai.

Si, infatti.

Sei stanca?

Si, un po’.

Da venerdì?

Da venerdì.

Ultime cose

Ho urtato qualcosa, forse il muro, entrando in garage. Sbam. No, niente botta, mi sono solo appoggiata, è come se avessi strisciato un po’. C’è stato un momento di silenzio, le ragazze, loro sono state zitte all’improvviso, si sono guardate e hanno aspettato la mia reazione. Anch’io avrei aspettato in silenzio la mia reazione. Mi sono stupita, ho spento la musica, rimesso la macchina dritta e sono entrata correttamente, ho detto solo due volte porcaputtana e poi ho chiesto a Cri di scendere e vedere il danno.

Quasi niente, mamma.

Insomma.

La striscia si vede. Non ho la più pallida idea di cosa ho toccato, compio quella manovra almeno due volte al giorno, entro in retromarcia non sempre senza imprecazioni però insomma mi stavo difendendo bene da quando ci siamo trasferiti. Fino a ieri, ieri ho urtato qualcosa che non so e potevo reagire molto peggio invece no, ho mandato un messaggio a Lui e gli ho scritto cosa avevo fatto.

Vabbuò. Mi ha risposto così.

A me delle auto importa poco, marca o modello, non ne ho cura, non la lavo mai. Ogni tanto prendo un sacchetto e butto tutto quel che trovo ma devo essere al culmine dello schifo di me stessa, altrimenti no. Però ho la copertina per il cane, così lui sta al caldo e non lascia peli sul sedile, dovesse mai salire qualcuno davanti. Se capita tolgo la copertina agitandola nell’abitacolo e tutti i peli volano ovunque. In genere ricascano sul mio cappotto. O sulla sciarpa se ne indosso una.

Però danneggiarla mi dispiace e infatti ero molto dispiaciuta, le ragazze hanno capito e mi hanno lasciato un po’ tranquilla e quando ho portato Cri a Karate ho controllato di nuovo se il danno fosse ancora lì, non so perché ma ho immaginato che potesse guarire da sola, un’ora in garage e della strisciata nemmeno più il segno.

Andando ad allenamento io e Cristina abbiamo chiacchierato del Liceo. Si, l’ho iscritta al Liceo. Cioè, ho mandato la richiesta tramite il sito del Ministero, ho compilato la domanda e indicato la composizione del nucleo famigliare specificando i gradi di parentela con suo padre- genitore- e con Benedetta- sorella- e ho indicato un istituto primario e uno secondario e se non dovesse venir accettata la domanda nel primo il secondario potrebbe metterla in coda, mi sono immaginata la seconda scuola un po’ stizzita che dice questa la mettiamo in fondo a tutti, se proprio avanza un posto glielo diamo, tanto siamo la seconda scelta. Io farei così.

“Gentile Utente la domanda di iscrizione al primo anno della Scuola secondaria di II grado è stata inoltrata”. Sbam. Si, è stata una botta. Da qualche parte nei cassetti c’è un certificato non ancora ingiallito che recita più o meno così: in data 14/07/2007 alle ore 16.12 la Signora Sonia Maria Laezza di anni 28 ha dato alla luce un neonato di sesso femminile…

Sbam.

Mentre tornavo dopo averla lasciata in palestra mi sono spostata nella corsia centrale, in tangenziale, per togliermi i camion. La corsia del sorpasso non la uso, mi va benissimo quella centrale. Ho preso la patente subito, ho compiuto 18 anni a settembre e a gennaio guidavo. La sera dell’esame di pratica con la mia patente cartacea appena rilasciata mi sono fatta prestare la macchina dai miei genitori e sono andata a prendere Sara, nella via dietro casa mia di allora. Io e lei siamo cresciute insieme, abbiamo un anno di differenza ovviamente a mio discapito, le nostre madri erano amiche prima di noi, i suoi genitori sono i miei zii preferiti. Solo anni dopo quella sera nella quale volevo portarla a fare un giro ho saputo che suo padre ci spiava dalla finestra del salotto con la tenda appena scostata e diceva alla moglie “tutto bene, non sono ancora partite” e così per dieci minuti almeno dopo averci salutato sulla porta, felici e sorridenti. Hanno riso di ogni mio tentativo di mettere in moto ma sono stati bravissimi. Mio padre sarebbe uscito a farla partire al posto mio poi l’avrebbe lasciata in folle dicendomi dai, vediamo un po’.

Guido, sarebbe impensabile non farlo. Ma non mi piace. Non mi rilassa, non mi diverte, non mi interessa. Ero una di quelle ragazze che faceva guidare lui, chiunque fosse, poi è anche capitato di andare a prendere degli uomini, di portarli a cena, una volta anche di pagare. Un’altra volta ho capito che avrei dovuto provarci io alla fine della serata e quello no, non ce l’ho fatta, l’ho riaccompagnato e sono andata via, promettendo che ci saremmo sentiti presto e poi ho salvato il nome come MauroNonRispondereMai.  Ero una di quelle ragazze che però non si faceva venire a prendere a casa, raggiungevo io da qualche parte, poi andava bene che guidasse il lui della situazione.

Non ci trovo niente di strano. Nemmeno nelle donne che fanno il contrario o in quelle che non guidano. Penso che ognuno possa fare anche un po’ come cazzo gli pare. Ecco, a me ormai sfinisce l’accanimento di chi fa come vuole ma vorrebbe che anche tu facessi come vuole. Non sopporto più l’atteggiamento di chi pensa di aver capito il modo migliore di essere o vivere e ne diventa fanatico. E le femministe che tutto è no e tutto è discriminazione e tutto è divario- anzi gap- e le mamme pancine che tutto è sacrificio per il bene più grande la salute dei figli e va bene anche un lavoro di merda tanto la ricompensa più grande sarà poi, nel regno dei cieli della mammitudine beata, e le stronze con il cimurro pronte a portarti via clienti a suon di preventivi al ribasso e le succubi che tanto decide lui.

La prima sera che sono uscita con Lui gli ho chiesto se preferisse andare con la mia auto, una Panda 1000 rosso fuoco con l’autoradio che faceva interferenza con il cellulare. Non mi ha nemmeno risposto, mi ha solo guardata e ha aperto la portiera, la sua. Poi mi ha detto che l’antenna era congelata, non ho mai capito perché la cosa avrebbe dovuto interessarmi.

Ci penso ogni tanto. Ieri sera mentre tornavo a casa ci pensavo. Ero triste per il danno e quando sono triste mi parte così, che la tristezza si allarga a macchia d’olio e allora ricordo episodi che non vorrei e per tirarmene fuori richiamo alla mente ricordi belli. A volte Lui è il protagonista di entrambi. E poi mi concentro sulla respirazione, sento l’aria, la visualizzo nell’addome prima di sentire la pancia che si sgonfia. Anche ieri sera, nonostante la cintura e il giaccone. Bei ricordi e respirazione. Contro la tristezza che mi coglie dopo avermi coltivata, contro quei pensieri che si affacciano come sul cratere di un vulcano per vedere se c’è attività, contro la paura che il camion davanti freni all’improvviso o quello dietro non rispetti la distanza di sicurezza da me, da me devi stare lontano.

Ho visto le auto davanti a me agitarsi. E delle piume, quelle dei cuscini, svolazzare in tangenziale e un attimo dopo qualcosa venirmi contro e infilarsi risucchiato sotto la mia auto, ho sentito il rumore di un corpo colpito, ho guardato nello specchietto retrovisore, le auto dietro di me si agitavano.

Forse era un pollo. O un tacchino. Era bianco e con le piume ma aveva qualcosa di glabro, non so cosa. Mi è arrivato addosso, si è infilato sotto, non ho potuto evitarlo e non ho capito cosa fosse, però c’erano le piume. Sbam. E mi tremavano le gambe, volevo fermarmi ma non potevo e allora ho fatto quello che faccio ogni volta che voglio fermarmi e non posso. Sono andata avanti. Per un attimo ho pensato sicuro hai preso sotto il tuo Angelo custode. Perché sicuro il tuo Angelo custode ha le sembianze di un pollo. Ho riso. Poi ho pianto. Stanchezza e spavento, binomio che mi frega sempre, nonostante l’esperienza. Potevi morire? Non lo so. Forse. Non credo. Che morte stupida per un pollo in tangenziale. Non è detto che fosse un pollo. Sembrava un pollo. Piangevo perché l’ultima cosa che Cri mi ha detto è stato Ciao Mami. Ciao amore mio, divertiti, le ho detto io. E mi sembrava una cosa così poco definitiva da dire come ultima cosa e poi a ripensarci invece no. E a Pepe, a Pepe prima di uscire da casa avevo detto di spegnere le candele e fare attenzione. Ci si può tirare fuori un insegnamento definitivo per la vita da una cosa così? A mio padre ho parlato del muratore e del cartongesso. 42 anni insieme su questo pianeta e l’ultima parola che gli rivolgo è cartongesso. A mia nipote l’ultima cosa che ho detto è che il prosciutto lo fanno con il culo del maiale, da quel giorno ripete in loop questa cosa. Però forse è abbastanza definitiva come rivelazione. A Sara ho chiesto se era stata bene, perché altro non mi interessa in fondo, solo che stia bene. A Mara ho detto che avevo ragione io, lei non ci ha preso e io si questa volta. Alla commercialista che la scheda di un cliente doveva essere portata a zero nel 2020. A mio fratello che stavo guardando Lady Oscar e lui mi ha detto qualcosa sull’orientamento sessuale di Madamigella Oscar. A mio nipote che zia è una parola facile e lui ha detto un’altra cosa in inglese, forse scarpe. A Lui ho detto molte cose ieri, quali, mi sforzavo di ricordare, quali, qual è l’ultima, gli hai detto plusvalenza, si, quella si, ma non può essere l’ultima cosa che ricorderà di averti sentito dire, gli avrai detto anche solo una parolaccia, cosa gli hai detto, sforzati, l’auto, il danno e lui ti ha detto vabbuò. Un bacio, a dopo. Quello sì, lo dici sempre. Il latte, che lo hai comprato anche tu. La capienza, non era sufficiente per la compensazione e che arrivi dopo in ufficio domani, no, non dopo hai detto tardi. Tu non puoi arrivare tardi e nemmeno presto perché quando arrivi arrivi, nessuno ti aspetta. Però dici così, arrivo tardi. L’ultima cosa che gli hai detto prima di morire per colpa di un pollo in tangenziale. Cos’è? È abbastanza definitiva? Cosa gli hai detto? Quello. Che arrivi tardi. Arrivo tardi in ufficio, domani. Che ci fa Lui con questa frase? Non gli serve a niente.

Ho preso la mia uscita, messo la freccia prima della rotatoria, svoltato al semaforo verde, messo la freccia per entrare nel cancello di casa, tirato su con il naso e aperto il basculante del garage, ho fatto manovra in retromarcia, sono scesa e ho controllato se avevo ancora spazio, si, sono risalita e andata ancora un po’ indietro, abbassato il basculante, guardato l’auto, spento la luce e sono salita.

Pepe aveva spento le candele e apparecchiato senza che glielo dicessi.

Lui scaldava la cena.

Forse mi è venuto addosso un pollo. O forse un tacchino. Non ho capito, ma ho sentito sbam.

È la prima cosa che gli ho detto.

Mano, foto, disegno e mamma di Cristina.

Esortazioni

Per me, per le mie figlie, per le mie amiche, per chi vuole, per chi ai buoni non crede, nemmeno se si tratta di propositi.  

Contare fino a 365. Dura pochissimo. Togliere uno, ripetere ogni giorno. Duriamo pochissimo. Ricordarselo almeno una volta al giorno ogni giorno, meglio al mattino a stomaco vuoto.

Imparare una parola nuova o riscoprire una parola messa da parte al giorno, segnarla possibilmente a mano, ripeterla più volte per impadronirsene, simulare contesti nei quali utilizzarla in modo appropriato. Al termine dell’anno verificare che siano 365, contandole, tanto dura pochissimo. Comincio io, la mia parola di oggi è: irridere. Non è nuova ma ammetto che non la indossavo più, mi sembrava scomoda. Oggi invece la mastico volentieri e mi accorgo che mi fa respirare, per pronunciarla occorre inspirare ed espirare, far battere la lingua e accorgersi se il dente duole (no, non duole), arrotolare la erre sul palato come con l’eucaristia, rendere grazie.

Usare un’agenda cartacea giornaliera, dotarsi di penna che scriva, controllare prima di uscire che scriva, alitare in punta se non scrive, scusarsi con chi ci chiede se abbiamo una penna con la frase “mi dispiace, ho cambiato borsa proprio stamattina” anche se abbiamo la penna e non cambiamo borsa dal 2001.

Cambiare borsa almeno tre volte a settimana.

Per chi è capace, perdonare senza sentirsi superiore. Per gli altri, quelli come me, lasciare nel passato. Ripetere fino a quando la tecnica non si perfeziona, allenarsi la sera, a luci spente, con un orecchio sul cuscino e gli occhi chiusi. Sono discipline diverse, non competono.

Preservare i dialoghi, scegliere con cura l’interlocutore, annuire per dire sì, muovere il capo come in un attacco di labirintite per dire no, non depistare, non accondiscendere controvoglia, non negare per principio. Fare attenzione ai princìpi e anche ai principi, nel caso dubitare della loro esistenza.

Discutere solo di ciò di cui si è davvero competenti. Davvero. Non importa, lo so. Mi rendo conto. Anch’io, vale anche per me, ci penso e mi condanno al silenzio. O a parlare di figlie, le mie e basta perché i figli degli altri sono un mistero, o di me e delle donne che mi abitano dentro, tante e diverse eppure nemmeno una che abbia voglia di vestirsi in modo elegante per festeggiare a casa.

Rifiutare le versioni accettate. Se sapete che si scrive soprattutto non fatevi dire che ormai è accettata l’altra versione, non esiste un’altra versione. È come con i tradimenti, si accettano quando non si ha più la forza di discutere, è come uno studente che non impara, lo mandi avanti per togliertelo dalla classe. Scegliere le proprie ortodossie. Praticare l’eresia dopo averne imparato il significato etimologico.

Appena possibile operare un’inversione dell’onere della prova. Smettere di voler dimostrare i propri meriti e il proprio valore, non mercanteggiare i propri talenti che non sono suscettibili di valutazione economica. Non provare di aver subito un danno, lasciare che sia l’altro a mostrarci che non è un danno, che non l’ha recato, che se l’ha fatto non è stato per dolo ma per colpa. Lasciare che ponga rimedio. Accettare il risarcimento. Donarlo a chi ne ha più bisogno senza farlo sapere.

Leggere una poesia ogni giorno e non pensare mai che sia facile da scrivere e non illudersi mai che sia facile da capire. Leggere una poesia e non pensare, meglio a metà giornata, soprattutto se fuori piove e dentro fa solo freddo ma va bene anche nelle giornate afose se il vento tira solo nella testa, è un ottimo ristoro nei pomeriggi invernali quando si aspetta il disgelo, alcuni la consigliano appena sbocciano i fiori, favorisce l’impollinazione. Non dedicare a nessuno alcuna poesia, sarebbe come perderla ma donarla senza un’occasione.

Al termine dell’anno verificare che siano 365, contandole, tanto dura pochissimo.