Cose stupide

Oggi ho fatto una cosa stupida che ha coinvolto mia figlia. Odio fare le cose stupide perché non sono stupida e quindi ho tutte le abilità per prevenire la commissione di gesti stupidi. Quando faccio cose stupide poi non dormo, non mi addormento proprio, quando le cose stupide le fanno gli altri magari mi sveglio nel mezzo della notte ma non ho difficoltà ad addormentarmi.  Quando faccio cose stupide queste mi rimbombano in testa per lunghi periodi, si appiccicano alle pareti della mia mente e fanno da sfondo a tutti gli altri pensieri perché non so perdonarmi e c’è una parte di me che mi rinfaccia di continuo di aver fatto qualcosa di stupido.

Non ha senso entrare nel dettaglio, oggi.

L’altro giorno ho fatturato per due volte la stessa prestazione a un cliente solo perché non avevo tolto il suo contratto dalla scrivania e non mi sono accorta di aver appena cliccato quel nome, proprio due fatture consecutive, bisognava essere molto distratti per non accorgersi che era lo stesso cliente. Ero molto distratta. La mia testa era altrove, lo è, inutile dire di no o cercare altre scuse. Ho la testa altrove e non posso farci nulla.

Non ha senso dire dove, oggi.

Nel 2014 a maggio della prima elementare mia figlia ha saltato una gara di nuoto perché io ho fatto una cosa stupida. La mamma di un suo compagno mi ha telefonato, dalla tribuna. Mi ha chiesto se davvero la bambina non avesse con sé il costume, l’accappatoio, la cuffia, le ciabatte. Perché, le ho chiesto. Perché, oggi non è giorno di nuoto. No, non lo è ma oggi è il giorno della gara di fine anno, la fanno tutti e lei è a bordo vasca, vestita, seduta sulla panchetta con il maestro che, per inciso, ha le ascelle pezzate. Siamo tutti qui, tu dove sei?

Ero al Viridea. Ha senso dirlo, ormai. Era un mattino lavorativo e io non ero a lavoro. Era un giorno scolastico con una gara di nuoto calendarizzata aperta a tutti i genitori e mia figlia era senza costume, accappatoio, cuffia,ciabatte e senza genitori. Perché io avevo la testa altrove, perché io stavo male, malissimo, ero arrabbiata, inferocita proprio, pronta a scappare e contemporaneamente zavorrata, impossibilitata a muovermi e smaniosa di non farmi trovare.

Arrivo, Monica, arrivo subito. Le ho detto. E piangendo ho fatto una corsa fuori, passando da una cassa qualsiasi perché non c’è l’uscita senza acquisti e io no, non volevo comprare alcuna pianta, io ero lì perché speravo che le piante appassissero tutte solo al mio passaggio, speravo di ucciderle con la mia sola presenza, meglio loro che altri mi dicevo, meglio loro che io, pensavo. E di corsa sono arrivata a scuola. Il maestro di mia figlia ha fatto la faccia desolata, insomma, più che mettere l’avviso, mandare la circolare, confidare nelle comunicazioni tra genitori, alla fine se uno è stupido c’è poco da fare.

No, guardi, ho fatto una cosa stupida ma non sono stupida.

Mia figlia era stretta nelle sue spalle, come se avessimo tolto malamente la gruccia dalla maglia, erano i vestiti a tenerla su e non il contrario. Non piangeva, non sorrideva, non faceva niente, niente in quel suo viso imperscrutabile, niente nel suo sguardo liquido, verdognolo come certe pozzanghere nei boschi. Adesso piange, mi dicevo. Adesso si arrabbia con me, pensavo. Adesso appassisce perché io sono qui, temevo.

Le ho chiesto scusa, scusa, scusa scusa amore mio. Scusa, scusa, scusa amore mio, che tu sei l’amore mio. E piangevo. Piangevo per quella volta che lei appena nata non smetteva di urlare e io ero sola a casa e allora l’ho guardata, sdraiata nel lettone che si dimenava come uno scarafaggio rivoltato e le ho detto, brusca, ma cosa vuoi, ma cosa vuoi tu da me, ma cosa cazzo vuoi e devo aver urlato perché lei è stata zitta e io allora io volevo soffocare, volevo riprendere in bocca tutta l’aria che avevo sputato fuori, volevo rimangiarmi tutte le lettere sillabate e volevo che mi uccidessero, che mi soffocassero, che mi rimanessero incastrate in gola e ho iniziato a chiederle scusa, scusa, scusa scusa amore mio, che tu sei l’amore mio. Piangevo per tutta la rabbia che covavo come una malattia verso suo padre in quei giorni di incomprensioni, di faide lavorative e vendette di famiglia, per il posto dove ero costretta a stare, a lavorare, per le persone che lo occupavano, per me che non sapevo tirarmi fuori da quella situazione in un modo diverso che non fosse scappare al Viridea, a guardare le piante perché morissero tutte al posto mio, in una mattina di maggio.

Oggi sono andata prenderla, mi hanno chiamata a causa della cosa stupida che ho fatto, nessuna amica, nessun tono cordiale, nessuno sguardo di desolazione o di biasimo camuffato da parte di nessuno solo una comunicazione data per quel che è, lei era accovacciata sul marciapiede, lo sguardo al cellulare, non mi ha vista entrare nella rotatoria e accostare appena possibile, mettere le quattro frecce. Io l’ho vista. L’ho chiamata al telefono, ho pensato al taglio dei suoi occhi quando compare il mio nome sullo schermo del telefono, non so nemmeno come mi ha salvata, penso Sonia Mamma, una volta me l’ha detto perché una sua amica l’aveva guardata in modo strano, ma come, tua madre la salvi prima con il nome? Il suo numero è un numero del padre dismesso e poi rimesso in funzione quindi il mio nome c’era già in memoria, lei ha solo aggiunto Mamma e così mi ha salvata. Non ha senso dire in che senso. Ho pensato al suono della sua voce, che non tradisce mai nulla. Ho pensato alle sue spalle, che non le piacciono perché sono troppo larghe e che a me piacciono perché sono belle larghe. Ho pensato che per colpa mia era accovacciata sul marciapiede di un quartiere di merda e che se fosse stato un altro quartiere forse sarebbe stato diverso vederla così.

Quando è entrata in macchina volevo piangere e lei invece anche secondo me ma non ha pianto e io ho imprecato non contro di lei ma contro il cielo che non tuonava, basta con questo caldo, io adesso voglio l’autunno perché non so più come vestirmi e contro il luogo dove pratica sport e forse anche contro il colore della divisa della società sportiva. E le ho detto che non ci sto tanto con la testa, che le zanzare non le sopporto più, che ho bisogno che lei e sua sorella mi stiano lontane un po’ perché non meritano questa mia energia che cerca di sterminare le piante e immagina di schiacciare quel cagacazzo con il monopattino. Questa che mi fa dire cose tremende perché le penso e mi fa fare cose stupide anche se no, non sono stupida, non sono stupida nemmeno un po’, questa che mi chiede di esplodere, mi implora di esplodere e cambiare tutto, che mi fa pensare cose tremende e me le fa dire con la disinvoltura dei matti o degli ubriachi. Statemi lontane un po’, quando sono così, quando mi sentite così, statemi lontane perché non c’entra niente con voi, è tutta roba mia che non vi deve sfiorare, non vi deve riguardare, è solo roba mia questa testa che va altrove, questa incapacità di chiedermi scusa. E mentre le dicevo che era colpa mia, che avevo fatto io la cosa stupida per la quale era stata accovacciata sul marciapiede ad aspettarmi senza vedermi, per la quale avevo odiato quel quartiere di vite senza possibilità, immaginavo che si sarebbe chiusa in camera sua, con i suoi libri o con i manga e che non mi avrebbe mai più parlato di quanto accaduto oggi ma ci avrebbe pensato sempre in futuro: quella volta che per colpa di mia madre è andata così. Quella volta che per colpa di mia madre non ho potuto fare la gara di nuoto davanti a tutti i genitori. Quella volta che per colpa di mia madre le piante sono morte tutte. Quella volta che per colpa di mia madre ho passato il pomeriggio a progettare di andare via, di starle lontana, di non vedere la sua testa che va altrove senza poter far nulla per trattenerla. Quella volta che per colpa di mia madre ho smesso di urlare il mio adattamento al mondo nel mezzo di un letto enorme. Al semaforo l’ho fissata, per la prima volta eravamo senza musica in auto, e le ho chiesto scusa. Scusa, scusa, scusa scusa amore mio, che tu sei l’amore mio.

Udite Udite (ho passato)

Cristina ha iniziato il Liceo, Pepe la seconda media e io ho iniziato a svegliarmi di nuovo prima che suoni la sveglia per non farmi trovare impreparata mannaggia a me. Occhi sbarrati al soffitto e imprecazioni come screen saver del cervello, con effetto rotante e luminoso che fa molto anni ‘90, quando andavo io al Liceo. Pepe si è messa d’accordo con la sua amica per i banchi da riservare, la prima che è arrivata li ha tenuti per l’altra. Cri invece ha avuto un incontro in aula magna e poi è stata smistata nella sua classe, un po’ come con il Cappello Parlante. C’è questa cosa per cui i genitori non potevano entrare il primo giorno, è giusto le ho detto, ti pare andare al Liceo con la mamma? Però, ho aggiunto, però, io con la mascherina e gli occhi un po’ truccati e lo zaino buttato su una spalla sola sembro una ragazza del quinto anno? Secondo me si. Hai voglia mi ha rassicurata lei. Poi adesso pare che si trucchino le occhiaie. Pazzesco. Ragazzine con la pelle naturalmente liscia che si disegnano occhiaie bluastre e grinzose per avere l’aspetto sbattuto. Allora posso sembrare anche una del quarto anno. Invece niente, non sono entrata, che poi io al Liceo non tornerei nemmeno se mi pregassero o se mi pagassero o se mi offrissero tutto quello che voglio. Per niente al mondo. Quelli sono stati tra gli anni più infelici della mia vita, durante i quali ogni innesco di gioia o soddisfazione è stato spento a titolo precauzionale prima che riuscisse solo a scaldarmi, non dico a bruciarmi. Da Cri sarei entrata solo per assicurarmi che stesse bene, tanto lo so già che la merenda non la mangia e che se non le rivolgono la  parola lei non lo fa per prima, mica come Pepe che parla anche con i muri ed è in grado di farsi rispondere. Io ero come Cri. Per questo volevo solo dare un’occhiata, poi sarei uscita anzi scappata e avrei assaporato la libertà di essere adulta, adulta vera, quella libertà per cui si, è vero, c’è tanta gente che ti rompe i coglioni ma tu puoi tappare le orecchie e fare gnègnè e ti puoi permettere di non sentirli. Da ragazzo no. Mi sono attenuta alle indicazioni e ho aspettato entrambe in ufficio, la grande con il passo sicuro di chi sta facendo qualcosa per la prima volta e la piccola che per la prima volta a scuola non è più la sorella minore di qualcuno ma è solo lei. Ho passato le prime mattine ad aspettarle, lavorando per distrarmi lo confesso, riversando sul cagnetto attenzioni in eccesso costringendolo a rintanarsi dietro una tenda pur di sparire al mio sguardo pietoso. Dopo qualche giorno è tutto più disinvolto, non siamo ancora al livello della consuetudine ma puntiamo dritte in quella direzione e anche il cagnetto lo vedo più sereno.

Quest’anno vinciamo il primo premio per l’organizzazione. Abbiamo i libri foderati, ne mancano ancora tre o quattro per Cri e uno solo per Pepe, abbiamo fatto scorta di ricambi a righe e quadretti, evidenziatori, gomme e matite. Abbiamo jeans nuovi a vita alta perché a vita bassa sono da sfigate. Abbiamo scarpe per educazione fisica da tenere pulite. Abbiamo ritirato il libretto delle giustificazioni e comprato il diario, Pepe ha voluto la Smemoranda rosa fluo per poco non me la ricompravo, mi son dovuta trattenere razionalizzando l’evidenza di non averne bisogno, ma tornata a casa ho recuperato le mie, dal fondo del mio Invicta ginnasiale. Ho trovato una fotografia di me e Mara in gita a Parigi,  siamo vicinissime sotto un ombrellino con le punte piegate dalla forza dell’acqua, opponiamo una debole resistenza agli eventi atmosferici e ridiamo. Le ho mandato la foto della foto, le ho detto ti pare che mia figlia inizia il Liceo quando noi dobbiamo ancora finirlo? Infatti, non le pare, nemmeno a lei. Non può essere. Eppure è. Questo è.

Ho scoperto che detesta il suo nome. Mia figlia, l’ha scritto nel gruppo WhatsApp della classe nuova, si è presentata e ha chiesto di essere chiamata Cri perché detesta il suo nome per lungo. Ma sei scema, le ho chiesto? Ma sai quanto tempo ci ho girato intorno? Ma sai la fatica di trovarlo e pronunciarlo tante volte per sentirlo, per sentire come sarebbe stato chiamarti nella mia vita, parlarti, come sarebbe stato rivolgermi a te mentre ti immaginavo e non ti sapevo, non ti potevo sapere? Niente, mi ha detto che scritto va bene, ma pronunciato per lungo non le piace. Allora, l’ ho rassicurata, ti scriverò un biglietto per mandarti a cagare.  Anche un’altra sua compagna ha chiesto di essere chiamata con il diminutivo perché detesta il suo nome, ma lei ha ragione  perché ha un nome orrendo. Ma Cristina. Cristina. Dai, su, è un nome che va bene con qualunque titolo accademico a precederlo, va bene dall’asilo nido al pensionato per anziani non autosufficienti, va bene se diventi zia o nonna, va bene sempre. Va bene con il cognome. Non le piace nemmeno quello, mi ha detto. Perché è corto e secco, tempo di dirlo è già finito. Allora ti faccio fare un giro con il mio, le ho suggerito. Ho passato gran parte della vita a scusarmi e a fare lo spelling prima di imparare che non mi devo scusare proprio di niente, se lo capisci bene altrimenti gnègnè.

Io ti piaccio, le ho chiesto. Per sicurezza, per rassicurazione. Si, a volte, molte volte, il più delle volte, dipende. Dice che se dovesse riassumere il nostro rapporto sarebbe così: madre che si agita perché non trova qualcosa, generalmente in borsa, e spazientita dice Criiii, strascicando la iiii, bella lunga a buttare fuori l’aria dopo l’apnea bene da coinvolgere il diaframma. Figlia che non si scompone per niente, come suo padre, e dice alla madre che ciò che sta cercando è sicuramente lì dove lo sta cercando solo che non lo sta vedendo. Mi ha fatto ridere moltissimo, perché è vero e a me la verità fa sempre questo effetto qui, mi fa ridere. Le bugie mi fanno incazzare. È così: Cristina mi rassicura, dovrebbe essere compito mio, anzi è compito mio e io lo eseguo, io ci sono, sempre, spesso, ogni volta che serve e anche quando non serve perché lei sia al sicuro, e non dovrei dirlo ma ci sono di più che con Pepe o forse solo diversamente perché lei ne ha avuto più bisogno, perché lei è stata usata per colpire me e suo padre, ecco perché continuo a stare di guardia. Però, questo faccio io, la tengo al sicuro mentre lei mi rassicura. Da sempre. Dal battito intercettato in una placenta lacerata, ravanato tra il sangue quando tutto sembrava perduto. Il tutto era lei. Ho passato settimane a pregarla di restare con me, piccola divinità contenuta nel mio utero e lei ad ogni visita mi rassicurava, piccolo extraterrestre dalla testa allungata e le dita ossute, telefono casa. La casa ero io.

Domani è il mio compleanno. 43. Iniziano a suonare stranamente, come se ormai il decennio fosse avviato non più come qualcuno che si affaccia a guardare, non posso più dire che do solo un’occhiata insomma, ci sono dentro. Ma va bene. Va bene per davvero, forse è il momento di vita nel quale sono più felice ma tengo stretto il forse perché io ho sempre avuto paura dell’invidia degli dèi più che dell’invidia degli uomini. Mi è spuntato un gran brufolo nel centro della fronte, anche quando è nata Cri ne avevo uno uguale, uscito fuori con me dalla sala operatoria. L’ho guardato e ci ho messo su il ciuffo per coprirlo. Ho passato anni a camuffarli, avendone pochissimi non tolleravo nemmeno quei pochi giorni di passaggio sulla mia pelle e giù di spremitura e correttore e fondotinta e intrugli di varia natura. Ho mal di testa a fine giornata, gli occhiali mi sembrano un balsamo. Ho passato anni a nasconderli in fondo alle borse sperando di non romperli perché avrei dovuto spiegare ai miei genitori come mai gli occhiali non si trovavano sul mio naso. Ho capito di essere diventata adulta, adulta vera, quando mi sono potuta permettere da sola due paia di occhiali, uno da tenere sempre in ufficio. Mi sono comprata un completo color malva che mi sta benissimo. Ho passato la vita a vestirmi di nero pensando che bastasse a rendermi invisibile. Cri ha un bellissimo pullover celeste, lo abbiamo comprato insieme qualche giorno fa, se non lo metti tu lo metto io ci siamo dette reciprocamente. Lo tormentava con la mano destra prima, mentre mi raccontava della professoressa che ha conosciuto oggi, vorrebbe diventare come lei che ha detto ai ragazzi che il suo compito è quello di trovare il loro demone e tirarlo fuori perché possano scoprirlo. Ho invidiato la possibilità di questa donna di stare così dentro mia figlia nei prossimi cinque  anni, di potersi avvicinare così tanto al suo talento da vederne l’innesco. Ho passato gran parte della vita a ridurre in silenzio il mio perché così avevo capito che bisognava fare con i demoni, anche se sono buoni, anche se siamo noi. Per fortuna non si può fare per sempre. Ho passato alle mie ragazze vestiti e scarpe e libri e gioielli e tutta me stessa, tutti i pezzi che volevano, perché non sperassero mai di essere invisibili. E ho passato sul viso di un uomo le mie mani ragazze e le mie mani adulte, adulte vere, che lasciano i segni mentre guariscono, Lui pensa siano segni del tempo e invece sono io incastonata nel suo sguardo. Ho passato notti terribili e giorni stentati, ho passato esami e semafori con il giallo. Ho passato molto tempo arrabbiata e ho passato molto tempo ridendo. Ho passato qualche battaglia, ancora nessuna guerra, ho passato compleanni fissando un telefono muto, ho passato giorni interminabili e anni velocissimi. Ho sciolto nodi, ho afferrato le corde, le ho tenute strette come faccio solo con le mie ragazze e con i miei forse. Mi ci sono aggrappata come faccio solo con le mie ragazze e con i miei forse. Le ho passate intorno a un ramo e mi sono dondolata, che questo ho imparato da adulta, adulta vera, a dondolare da sola. Ho riso, perché sono vera.

Quei giorni (conversazione con il Lupo)

Oggi non mi alzerò. Nemmeno domani, penso. E non so perché mi sono alzata ieri, l’ho fatto ma ho sbagliato. Non so quando mi alzerò di nuovo, penso mai più.  Non posso, peso troppo, almeno cento chili, forse centocinquanta o duecento. Le mani. Le mani. Pesano, ogni dito peserà almeno dieci chili e anche le dita dei piedi. Si fa in fretta il calcolo. E poi mi fanno male i pensieri, sarà che sono schiacciati dal peso e quando le mani toccano la testa qualche danno lo fanno. Mi fanno male tutti i pensieri, sono ammaccati, contusi più che confusi, doloranti più che dolorosi, come se avessero sbattuto o come se gli fosse venuto addosso qualcosa. E ho male a ogni ricordo, dal più vecchio al più recente, mi fanno male al punto che mi viene da piangere. E i sogni, quelli si sono tutti intorpiditi, come se ci avessi dormito sopra, appoggiata tutta lì, con tutto il peso, questo peso, questo che si fa in fretta il calcolo e come si fa a muoversi con questo peso? Mi formicolano tutti, i sogni. Tutti. Due o tre, mica ne son rimasti tanti altri, provo a sbatacchiarli ma non si riattiva la circolazione. Oggi non mi alzerò e lo dirai tu in giro, andrai lì fuori e dirai che questo è, a nessuno verrebbe in mente di contraddire un lupo, specialmente se parla. Dillo come sai tu, non dire che resterò a letto sine die, che poi capiscono che sono parole mie, dillo come sei tu, dillo selvatico e famelico, dillo che faccia paura a tutti. E non ci provare, non insistere, non convincermi. Non mi alzerò. Non affronterò la luce, il rumore, le voci, il traffico, la rampa del garage, la macchina del caffè, non sorriderò per sembrare conciliante e rassicurante e disponibile al confronto sempre e comunque, purché sia costruttivo. Non assottiglierò i miei occhi, non alzerò le guance nel tentativo di sembrare qualcuno che accoglie con il sorriso. Non accoglierò e non sorriderò. Manco per niente.

Perché ho male a me, tutta, tutta quella che sono rimasta. E non sono sorridente e nemmeno conciliante e men che meno rassicurante e il confronto mi ha stancata. Sì, sono stanca, quindi resterò a letto e non affronterò la vita, la mia o quella di nessun altro, lascerò che scorra senza occuparmene e vedrai che funzionerà lo stesso, tu guarderai fuori e vedrai che tutto andrà avanti. Guarda come sai tu, non fare smorfie di arricciamento del naso, che poi capiscono che usi il mio sguardo, guarda come sei tu, guarda solitario e mistificato, guarda che tutti stiano lontani. Non mi alzerò, no. E vedrai che comunque arriveranno le mail illeggibili, con la x al posto del per, vedrai il camion si metterà in divieto di sosta dietro la mia auto anche se ce ne sono altre dieci, vedrai che i libri del liceo non saranno arrivati tutti, che mio padre anche quest’anno  avrà quella faccia mentre apre il regalo di compleanno e avrà vissuto tutta una vita senza mai pensare che dietro quel pacchetto che soppesa annoiato c’è il tempo che qualcuno ha speso e non tornerà più. E non si può cambiare se non piace. Il tempo non lo puoi cambiare. Non mi alzerò. No. Inutile che me la racconti. Non affronterò nessuna questione, non sarò all’altezza di nessuna aspettativa, non raccoglierò le provocazioni e nemmeno la cacca del cane in giardino. Seccherà. Lascio che tutto si secchi, come la mia pelle che l’hai visto anche tu quanta crema ho messo, sempre, eppure  dopo quattro giorni inizia la desquamazione, lo spellamento. Nonostante l’impegno profuso, nonostante la disciplina, la condotta esemplare, nonostante la costanza impiegata. Aggiungi che mi fa male la pelle, tutta. Tutta quella che mi è rimasta addosso e anche questa che cade passandoci su il palmo, si sfarina e si volatilizza. Beata lei.

Non mi alzerò, né oggi né mai. Mai più. La donna che rimase a letto, una specie di Barone Rampante ma più comoda.  Non mi alzerò mai più, questo è il piano. Non tingerò più i capelli, non abbinerò la borsa alle scarpe, non indosserò collane, non sarò la versione migliore di me stessa perché io con le versioni già al liceo faticavo, non è che mi venissero così, a volte le imbroccavo altre volte no e non ho più voglia di faticare. Non mi alzerò e non ci saranno più salite, parcheggi rincorsi, carrelli con la ruota sbilenca e buste della spesa con i manici rotti, non ci sarà più la patina di inadeguatezza da rimuovere con un panno in microfibra che non graffi la superficie. Non affronterò la crescita delle mie figlie perché non sono in grado di farlo, sulla carta forse, in teoria magari, ma nella pratica no. Non andrò a prendere nessuna parte recondita della mia esistenza per sviscerarla al fine di acquisire consapevolezza ed essere finalmente una madre pacificata ed equilibrata. Io con l’equilibrio faccio casino. Barcollo. Fisso un punto, certo, ma resto fissa sul punto fisso: io quando sono in equilibrio non riesco a fare altro che restare in equilibrio. Non ascolterò comprensiva, non gestirò il senso di colpa ma lascerò che prenda il sopravvento, che prenda tutto, è il senso più acuito che ho, dillo pure, vai fuori e dì pure che è tutta colpa mia, a nessuno verrebbe in mente di contraddire un lupo, specialmente se parla. Dillo come sai tu,  senza sorrisetti sarcastici, che poi capiscono che son parole mie, dillo come sei tu, dillo fiero e mal raccontato, dillo che tutti mi pensino colpevole. È colpa mia. Non sono loro, sono io, sono io che non posso alzarmi perché mi fa male la crescita, ho come un osso inaspettato che continua a crescere, ho come un dente che continua a bucare la gengiva, un dolore continuo e incessante, un dolore per la vita che cresce, per il tempo che c’è dietro la crescita e tutti si concentrano sul tempo che c’è dopo, tutti che guardano avanti e nessuno che si ferma a guardare il tempo che c’è dietro a una persona che cresce, il tempo dondolato che serve per cullare, il tempo piegato che insegna a camminare, il tempo lallato che insegna a parlare, il tempo scandito che insegna ad aspettare, il tempo speso dando fondo a ogni risparmio, il tempo che non puoi cambiare se non va bene o se non piace.  Come posso alzarmi con questo male addosso, ti rendi conto? Ho male al mio tempo infilato nella vita degli altri, a volte anche a forza, sedendomi sopra pur di chiudere la valigia, ho male alla donna che non riesco a d essere, alla madre che non riesco ad essere, ho male alle mie figlie che mi sembrano immense in un mondo di confini e limiti. Non mi alzerò, vai fuori e dillo tu, poi però torna qui che io ho male alla vita che passa, tutta, tutta quella che resta.