Oggi ho fatto una cosa stupida che ha coinvolto mia figlia. Odio fare le cose stupide perché non sono stupida e quindi ho tutte le abilità per prevenire la commissione di gesti stupidi. Quando faccio cose stupide poi non dormo, non mi addormento proprio, quando le cose stupide le fanno gli altri magari mi sveglio nel mezzo della notte ma non ho difficoltà ad addormentarmi. Quando faccio cose stupide queste mi rimbombano in testa per lunghi periodi, si appiccicano alle pareti della mia mente e fanno da sfondo a tutti gli altri pensieri perché non so perdonarmi e c’è una parte di me che mi rinfaccia di continuo di aver fatto qualcosa di stupido.
Non ha senso entrare nel dettaglio, oggi.
L’altro giorno ho fatturato per due volte la stessa prestazione a un cliente solo perché non avevo tolto il suo contratto dalla scrivania e non mi sono accorta di aver appena cliccato quel nome, proprio due fatture consecutive, bisognava essere molto distratti per non accorgersi che era lo stesso cliente. Ero molto distratta. La mia testa era altrove, lo è, inutile dire di no o cercare altre scuse. Ho la testa altrove e non posso farci nulla.
Non ha senso dire dove, oggi.
Nel 2014 a maggio della prima elementare mia figlia ha saltato una gara di nuoto perché io ho fatto una cosa stupida. La mamma di un suo compagno mi ha telefonato, dalla tribuna. Mi ha chiesto se davvero la bambina non avesse con sé il costume, l’accappatoio, la cuffia, le ciabatte. Perché, le ho chiesto. Perché, oggi non è giorno di nuoto. No, non lo è ma oggi è il giorno della gara di fine anno, la fanno tutti e lei è a bordo vasca, vestita, seduta sulla panchetta con il maestro che, per inciso, ha le ascelle pezzate. Siamo tutti qui, tu dove sei?
Ero al Viridea. Ha senso dirlo, ormai. Era un mattino lavorativo e io non ero a lavoro. Era un giorno scolastico con una gara di nuoto calendarizzata aperta a tutti i genitori e mia figlia era senza costume, accappatoio, cuffia,ciabatte e senza genitori. Perché io avevo la testa altrove, perché io stavo male, malissimo, ero arrabbiata, inferocita proprio, pronta a scappare e contemporaneamente zavorrata, impossibilitata a muovermi e smaniosa di non farmi trovare.
Arrivo, Monica, arrivo subito. Le ho detto. E piangendo ho fatto una corsa fuori, passando da una cassa qualsiasi perché non c’è l’uscita senza acquisti e io no, non volevo comprare alcuna pianta, io ero lì perché speravo che le piante appassissero tutte solo al mio passaggio, speravo di ucciderle con la mia sola presenza, meglio loro che altri mi dicevo, meglio loro che io, pensavo. E di corsa sono arrivata a scuola. Il maestro di mia figlia ha fatto la faccia desolata, insomma, più che mettere l’avviso, mandare la circolare, confidare nelle comunicazioni tra genitori, alla fine se uno è stupido c’è poco da fare.
No, guardi, ho fatto una cosa stupida ma non sono stupida.
Mia figlia era stretta nelle sue spalle, come se avessimo tolto malamente la gruccia dalla maglia, erano i vestiti a tenerla su e non il contrario. Non piangeva, non sorrideva, non faceva niente, niente in quel suo viso imperscrutabile, niente nel suo sguardo liquido, verdognolo come certe pozzanghere nei boschi. Adesso piange, mi dicevo. Adesso si arrabbia con me, pensavo. Adesso appassisce perché io sono qui, temevo.
Le ho chiesto scusa, scusa, scusa scusa amore mio. Scusa, scusa, scusa amore mio, che tu sei l’amore mio. E piangevo. Piangevo per quella volta che lei appena nata non smetteva di urlare e io ero sola a casa e allora l’ho guardata, sdraiata nel lettone che si dimenava come uno scarafaggio rivoltato e le ho detto, brusca, ma cosa vuoi, ma cosa vuoi tu da me, ma cosa cazzo vuoi e devo aver urlato perché lei è stata zitta e io allora io volevo soffocare, volevo riprendere in bocca tutta l’aria che avevo sputato fuori, volevo rimangiarmi tutte le lettere sillabate e volevo che mi uccidessero, che mi soffocassero, che mi rimanessero incastrate in gola e ho iniziato a chiederle scusa, scusa, scusa scusa amore mio, che tu sei l’amore mio. Piangevo per tutta la rabbia che covavo come una malattia verso suo padre in quei giorni di incomprensioni, di faide lavorative e vendette di famiglia, per il posto dove ero costretta a stare, a lavorare, per le persone che lo occupavano, per me che non sapevo tirarmi fuori da quella situazione in un modo diverso che non fosse scappare al Viridea, a guardare le piante perché morissero tutte al posto mio, in una mattina di maggio.
Oggi sono andata prenderla, mi hanno chiamata a causa della cosa stupida che ho fatto, nessuna amica, nessun tono cordiale, nessuno sguardo di desolazione o di biasimo camuffato da parte di nessuno solo una comunicazione data per quel che è, lei era accovacciata sul marciapiede, lo sguardo al cellulare, non mi ha vista entrare nella rotatoria e accostare appena possibile, mettere le quattro frecce. Io l’ho vista. L’ho chiamata al telefono, ho pensato al taglio dei suoi occhi quando compare il mio nome sullo schermo del telefono, non so nemmeno come mi ha salvata, penso Sonia Mamma, una volta me l’ha detto perché una sua amica l’aveva guardata in modo strano, ma come, tua madre la salvi prima con il nome? Il suo numero è un numero del padre dismesso e poi rimesso in funzione quindi il mio nome c’era già in memoria, lei ha solo aggiunto Mamma e così mi ha salvata. Non ha senso dire in che senso. Ho pensato al suono della sua voce, che non tradisce mai nulla. Ho pensato alle sue spalle, che non le piacciono perché sono troppo larghe e che a me piacciono perché sono belle larghe. Ho pensato che per colpa mia era accovacciata sul marciapiede di un quartiere di merda e che se fosse stato un altro quartiere forse sarebbe stato diverso vederla così.
Quando è entrata in macchina volevo piangere e lei invece anche secondo me ma non ha pianto e io ho imprecato non contro di lei ma contro il cielo che non tuonava, basta con questo caldo, io adesso voglio l’autunno perché non so più come vestirmi e contro il luogo dove pratica sport e forse anche contro il colore della divisa della società sportiva. E le ho detto che non ci sto tanto con la testa, che le zanzare non le sopporto più, che ho bisogno che lei e sua sorella mi stiano lontane un po’ perché non meritano questa mia energia che cerca di sterminare le piante e immagina di schiacciare quel cagacazzo con il monopattino. Questa che mi fa dire cose tremende perché le penso e mi fa fare cose stupide anche se no, non sono stupida, non sono stupida nemmeno un po’, questa che mi chiede di esplodere, mi implora di esplodere e cambiare tutto, che mi fa pensare cose tremende e me le fa dire con la disinvoltura dei matti o degli ubriachi. Statemi lontane un po’, quando sono così, quando mi sentite così, statemi lontane perché non c’entra niente con voi, è tutta roba mia che non vi deve sfiorare, non vi deve riguardare, è solo roba mia questa testa che va altrove, questa incapacità di chiedermi scusa. E mentre le dicevo che era colpa mia, che avevo fatto io la cosa stupida per la quale era stata accovacciata sul marciapiede ad aspettarmi senza vedermi, per la quale avevo odiato quel quartiere di vite senza possibilità, immaginavo che si sarebbe chiusa in camera sua, con i suoi libri o con i manga e che non mi avrebbe mai più parlato di quanto accaduto oggi ma ci avrebbe pensato sempre in futuro: quella volta che per colpa di mia madre è andata così. Quella volta che per colpa di mia madre non ho potuto fare la gara di nuoto davanti a tutti i genitori. Quella volta che per colpa di mia madre le piante sono morte tutte. Quella volta che per colpa di mia madre ho passato il pomeriggio a progettare di andare via, di starle lontana, di non vedere la sua testa che va altrove senza poter far nulla per trattenerla. Quella volta che per colpa di mia madre ho smesso di urlare il mio adattamento al mondo nel mezzo di un letto enorme. Al semaforo l’ho fissata, per la prima volta eravamo senza musica in auto, e le ho chiesto scusa. Scusa, scusa, scusa scusa amore mio, che tu sei l’amore mio.