Strani pensieri

Iniziava a sceglierli dalle prime ore dal mattino, o le ultime della notte, ancora nel letto, sommersa dal piumone e sul piumone la coperta, quella in più, quella per quando sale il cane. Il cane non dovrebbe salire, diceva Lui, ma senza convinzione, è che in ogni famiglia ci vuole qualcuno che dica qualcosa e questo qualcosa, in quella famiglia, toccava a Lui. Raramente sceglieva gli stessi del giorno prima, quelli che aveva lasciato sulla poltrona in camera da letto o in bagno, sopra l’accappatoio. Non perché fossero sporchi, ma perché erano spiegazzati, da rivedere, stanchi. Il più delle volte li prendeva direttamente dal filo sul quale li aveva stesi con estrema cura, quasi maniacale, anche se erano ancora umidi, non importa-pensava-mi si asciugheranno addosso. Capitava, dipendeva dalle lacrime, i pensieri stesi con tanta attenzione appena dietro gli occhi, sul robusto filo che univa le due tempie, erano quelli più esposti. Non importa. Di tanto in tanto, invece, prendeva dall’armadio, disordinato ma tutto lì dentro era sicuramente pulito e profumato.

La Signora con gli strani pensieri, in ogni caso, non indossava mai gli stessi. Li cambiava ogni giorno, anche se non doveva farsi vedere da qualcuno, anzi, era molto probabile che nessuno la vedesse per la maggior parte della giornata, eppure lei i suoi strani pensieri li cambiava ogni giorno, sopra ci buttava un cappotto o una pelliccia, ecologica si intende, ai quali abbinava la borsa, poi guinzaglio al cane e via, verso la giornata da svolgere tutta intera, come un compito, come un impegno, come un progetto. Si inizia e si finisce e quel che si infila in mezzo a volte importa, a volte no. Alla Signora dai pensieri strani il più delle volte non importava, si faceva quel che c’era da fare.

Viveva di scadenze, non come le persone importanti ma più come gli addetti al banco del fresco del supermercato. Controllava quotidianamente che niente andasse a male, che niente superasse la data indicata per la consumazione, preferibilmente. Spostava in avanti quello che era prossimo a scadere, si scusava con quel che lasciava indietro, ma per quello c’era più tempo. Anche del tempo bisognerà poi occuparsi, pensava. E comunque anche gli addetti al banco del fresco sono persone importanti. Per qualcuno, per qualcuno sicuramente lo sono, pensava.

La Signora con i pensieri strani si concentrava sempre un po’ su uno dei suoi difetti, uno fra i tanti. Non per migliorarlo, men che meno per tentare di eliminarlo. Era un’esegeta dei difetti. Sono i difetti la vera impalcatura dell’essere, non sai chi sei se non sai quali sono i tuoi difetti, non puoi vivere accanto a qualcuno che non scelga di vivere con i tuoi difetti. Questo era il periodo del difetto più invalidante: quello di motivazione. La Signora si trascinava senza scopi, ripetendo la giaculatoria del “non ce la faccio più”: non ce la faccio più, non ce la faccio più che non vibrava come il nam yo ren ge kyo ma, inspiegabilmente, la  connetteva alla parte più intima di sé, quella della sgobbona che deve faticare tutto per riconoscere un minino di valore a qualcosa.

Viveva scorrendo le settimane e i mesi e gli anni dal menu tendina del programma degli incassi bancari. Raramente sbirciava nel futuro, in quale giorno della settimana sarebbe stato Natale tra tre anni o il suo compleanno tra due, non le avrebbe cambiato la giornata, né Natale tra tre anni e nemmeno il compleanno tra due, non le avrebbe cambiato niente sbirciare negli anni davanti. Aprendo il menu tendina le comparivano gli anni indietro, quelli che aveva già visto, sempre affacciata da lì, sempre a presentare incassi, aspettare che venissero digeriti dal programma e infine archiviati. Questo succedeva agli anni trascorsi. Si archiviavano. Anche del passato bisognerà poi occuparsi, pensava. Ed eccoli lì, sotto i suoi occhi. C’era il 2017, l’anno dell’Aggressione a sua figlia. Un po’ come il calendario cinese, pensava, l’anno del bufalo, della tigre, del topo e così via. Qui c’erano l’anno dell’Aggressione, l’anno delle Indagini, l’anno del Processo, l’anno della Sentenza. Chissà che non fosse questo l’anno della Vendetta, pensava. Perché, a differenza del calendario cinese, la Signora non sapeva prima quale anno stesse iniziando, lo sapeva alla fine.

La Signora dagli strani pensieri nutriva adamantine antipatie ma non le nutriva in modo equilibrato, no, lei le mandava all’ingrasso e come la strega cattiva della favola le toccava per saggiarne le dimensioni. Tutte le avversioni avevano lo stesso denominatore: la maleducazione. Da quella base partiva la gerarchia. Al livello più basso la tabagista con i due cani brutti, quella che non chiudeva mai il portone del condominio tranne quando la vedeva arrivare con borse, borsette e borsoni. In cima, sopra a tutti, c’era un’insensata triade verso la quale l’antipatia non era nemmeno più sufficiente. Forse aveva esagerato con la ferocia, nel nutrimento. Va bene un pizzico, come il sale nelle torte, ma in questo caso poteva esserle scappata la mano e anche dell’orripilante terzetto bisognerà poi occuparsi, pensava.  

Aveva il terrore che Lui morisse presto. All’improvviso e presto, senza essere diventato vecchio, vecchissimo, talmente vecchio che va bene morire o anche solo abbastanza vecchio da farselo andare bene. Questo non lo poteva dire a nessuno, non si dice in giro questa cosa, non si racconta questa paura, non è come la paura dei ragni o di guidare con la nebbia, non è come la paura di volare o del buio. È tutte queste paure insieme. Non si può dire a nessuno, pensava. Allora lo diceva a Lui, che poi era il solo, eventualmente, interessato al discorso. E lo diceva a suo modo, chè mica poteva mutuare il modo di un’altra. E lo diceva brusco, coriaceo, fastidioso, suonava come un rimprovero. Se muori mi incazzo. Se muori sei uno stronzo. Capisco, diceva Lui, che sapeva vivere con i difetti della Signora dai pensieri strani e sapeva che quel che l’avrebbe devastata sarebbe stata la sopravvivenza a cui l’avrebbe relegata, condannata, non la solitudine, magari la solitudine. Sapeva che era il pensiero di vivere senza di Lui e di dover crescere le ragazze, che già erano cresciute ma di strada ancora ce n’era da fare e di decisioni da prendere e di dubbi da avere e di divieti e di regole e di permessi e di soddisfazioni e di botte di orgoglio e di notti a parlare di una e dell’altra e di telefonate quando loro non ci sono per valutare insieme cosa dire, che sia la stessa cosa e insomma quelle due erano un progetto  nel quale, sinceramente, lei non si sarebbe mai imbarcata senza di Lui. Lo sapevano entrambi. Se lo dicevano tra loro e basta.

La Signora con gli strani pensieri avvertiva come una perdita, ogni giorno che sfogliava dal menu tendina  perdeva un pezzetto come una molletta quando cade mentre ritiri il bucato, si era messa di impegno per cercare dove fosse la perdita, cosa riguardasse, quale parte, era partita con un’ispezione severa, non aveva tralasciato nulla, sapeva che era legato all’età e allora aveva chiesto a Lui che dalla sua età ci era già passato, voleva sapere se, per caso, si ricordava di aver perso qualcosa in quel tratto di cammino e Lui le aveva detto di no, aveva chiesto alle sue amiche coetanee e le avevano detto di no, anzi, acquistavano consapevolezza, tutte o quasi, maledette, rifiorivano, coltivavano nuovi interessi, progettavano ampliamenti dove lei a mala pena pensava di dare una mano di bianco per uniformare il colore. Sapeva che era legato alla vita, non tanto quella che aveva vissuto quanto quella che aveva dato, sparso in giro, gettata come riso sugli sposi, infilata in bottiglie gettate nel mare, persa come palloncini scappati di mano alla fine di una festa della materna, quando sei felice di essere il genitore di un invitato e non il genitore del festeggiato, quando sai che non tocca a te ripulire, per una volta, e hai visto tuo figlio divertirsi e sudare e mangiare male, sai che salterà la cena e forse ci vorrà del Biochetasi. Sapeva che la perdita era legata a tutto quello che non sarebbe mai successo, mai più, mai, tutte quelle scelte che non avrebbe preso, tutte quelle donne che non sarebbe più diventata, tutte quelle strade che non avrebbe percorso, tutto quel potenziale che mai si sarebbe espresso. Anche del mai bisognerà poi occuparsi, pensava.    

Quella mattina aveva trovato e indossato il pensiero della mezza età. Dopo essersi alzata, mentre si lavava il viso, bene negli angoli degli occhi raschiava la cispa, con il sapone dietro i lobi delle orecchie e poi una passata di tonico su un pezzo di carta igienica sempre lì, dietro gli orecchini e  con la fascia rosa a tenerle indietro i capelli gettava una spruzzata di tonico sulla faccia chiudendo gli occhi. È adesso la mezza età. Porco Giuda, è adesso. Era andata in camera, da Lui. Lo sapevi tu, che è adesso. Lui dormiva, poco ma dormiva, ma a lei non importava perché doveva dirglielo, forse chiederglielo, ma più dirglielo che chiederglielo. Lo sapevi tu. Non è all’età di mia madre, mica campiamo 130 anni. La mezza età è adesso, ora, la mia. Non è che il pensiero le stesse stretto, anzi, era persino largo per lei che indossava i pantaloni smessi dalla figlia, taglia 14 anni. È che le stava male addosso. La mortificava. E non la copriva abbastanza, non dove avrebbe dovuto, la faceva più goffa di quanto non fosse e non la proteggeva da tutto quello che c’è fuori, anzi la rendeva più esposta e lei non voleva essere esposta. Ci avrebbe messo su un antivento, non era molto ma qualcosa faceva e alla fine si fa quel che c’è da fare. Anche della fine bisognerà poi occuparsi, pensava.

Ho fatto tredici

Al tredicesimo giorno di isolamento non distinguo più il positivo dal negativo, come quando devo inserire le pile nel telecomando, mica sostituirle, no, io le tolgo, le rimetto e così funziona di nuovo. Al tredicesimo giorno di isolamento, ammetto, non sono mai stata isolata. Come fa una madre a isolarsi? In lavanderia, è quello il solo spazio, avrei dovuto segnalare che sì, avrei osservato l’isolamento presso il mio domicilio ma nel vano lavanderia, seduta sullo sgabellino sghembo osservando il timer del display della lavatrice, sorprendendomi della lunghezza di cinque minuti quando li osservi da dentro.

Al tredicesimo giorno di isolamento osservo solo da dentro.

Il lupo che mi vive dietro lo sterno è sveglio, attento, scattante direi. Il dolore in qualche regione situata dietro le costole o tra le costole lo ha infastidito da subito e ha smesso di dormire. Risponde alle mie domande, fa da filtro, scarta i pensieri che non devono arrivare, chiude la porta, spegne la luce, controlla le finestre. Armeggia con cuscini e nastro adesivo per gli spifferi, qualcosa passa comunque, ma so che non può fare più di quello che fa per non espormi ad altro.

Quando sto tanto dentro arriva sempre, l’altro.

Al tredicesimo giorno di isolamento mi mancano gli allenamenti ma mi mancano anche il fiato e le forze. Mi mancano la voce di Stefano che conta le ripetizioni, i muscoli affaticati, la sensazione di aver fatto tutto e tutto bene, al massimo, al meglio. Ogni tanto mi manda un messaggio per sapere come sto, io dimentico il cellulare in giro per casa, Lui me lo porta e mi dice che mi ha scritto Stefanino, come lo chiamo io quando parlo di lui, con una tenerezza che riservo a pochi, Lui lo sa per quello mi fa il verso.

Con il lupo abbiamo inventato un gioco che è un lungo elenco e forse anche una poesia, ogni giorno aggiungiamo un pezzo, lo abbiamo chiamato Ringraziare desidero, perché anche i giochi hanno diritto a un nome altrimenti poi non sai di cosa si tratta. Anche le poesie. Gli elenchi non lo so, forse loro no.

Ringraziare desidero per aver sposato Lui, che fra tanti che ne siamo al mondo potevo anche confondermi e  sbagliare, questione di attimi. In isolamento aver sposato il tuo migliore amico fa la differenza. Anche il ragazzo che ti piace da impazzire. Si chiama crush, mi ha detto Pepe. Lui è il mio crush, insomma. Sembra un’onomatopea, ho obiettato, come quando qualcosa si rompe. O anche una di quelle cose da test informatico sui livelli di sicurezza nella protezione da attacchi esterni. No, è solo per dire che hai una cotta, mi ha confermato.

Al tredicesimo giorno di isolamento ho voglia del mio isolamento in ufficio per un numero minimo di ore, circa cinque o sei, nelle quali sono sola, completamente sola, così sola che nessuno apre la porta ogni minuto e mezzo o mi chiede qualcosa dall’altra stanza e io non capisco e allora non è che si alzano e vengono dove sono io per dirmela da vicino, no, urlano e non capisco lo stesso e allora urlano in due, il primo e quello che ha capito e io non sento ancora e allora urlano in tre e se non mi alzo io allora potremo andare all’infinito.

Ringraziare desidero per il modo in cui Lui pronuncia il mio nome quando parla di me al telefono. Mi sembra un nome nuovo, appena imposto, come se mi battezzasse ogni volta, come se capissi di cosa si tratta, quando si parla di me.

Al tredicesimo giorno di isolamento non so se fa freddo o caldo, se pioverà o se la neve si è già sciolta tutta in montagna, se la primavera arriverà e allora l’inverno finirà presto, se i desideri sono quello che chiedi di ottenere o ciò che speri di preservare, se le mie ragazze sono felici di vivere con me, se avranno più ricordi felici o più ricordi tristi, se mi assoceranno a una risata o se faranno smorfie quando parleranno di me, non so se ci sono tanti modi per dire mamma, se uno è meglio di un altro, se c’è un modo che vuol dire mamma come qualcosa di solo bello. Al tredicesimo giorno racconto pezzetti di quando erano piccole, cose piccole di bambine piccole, che a guardarle ora non sembra possibile sia stato tutto così, per davvero, eppure non invento, giuro, dico mentre ridiamo, giuro che è vero, quella volta che Pepe mi ha spiegato la differenza tra il bene e il male all’uscita dall’asilo: arriva un angioletto bravo a suggerirti nell’orecchio cosa fare e allora fai bene. E quando il giorno dopo ha fatto male a sua sorella e l’ho sgridata, Pepe che cazzo, e l’angioletto? Che ti ha detto l’angioletto? Mamma, è arrivato prima quello cattivo. Quella volta che era un venerdì e lei aveva dimenticato nell’armadietto della scuola a copertina dudù, che ancora ci dorme, guai a chi la tocca e ce ne siamo accorte alle 18.30, ad asilo chiuso e abbiamo bruciato semafori mentre chiedevamo la cortesia, al telefono con la portineria della scuola, aspettateci, aspettaci un attimo, prendiamo la copertina rosa e andiamo via, roba di secondi e ci hanno detto che la comunità dei Fratelli si stava ritirando per il Rosario e allora ho assicurato che avrei fatto scendere Cristo dalla croce per aprirmi il portone e ci hanno aspettate e tutto è andato bene.

Ringraziare desidero per il tempo felpato, i sogni all’alba che entrano nella giornata e non restano nella notte, per la tazza termica della tisana, per il terzo libro che sto leggendo, per l’assenza di gravità delle situazioni perché prima la salute e poi il resto, per la me che dimentico in giro e quando la ritrovo è una vecchia amica, per le pagine bianche e i fogli di recupero quando sbagli a stampare, per la stanchezza che adesso si può dire fatigue e cambiando il nome sembra si tratti di altro, per i miei cani che in due si ingegnano su come aprire  le porte per vedere dove sono.

Al tredicesimo giorno di isolamento bevo meno caffè, lavoro quando riesco, patteggio con il senso di colpa e archivio il senso del dovere, non indugio davanti allo specchio, mi vedo chiaramente. Con il lupo contiamo i pezzetti come facevo con le bambine: qui c’è un nasino e lì c’è la boccuccia, due sono le orecchie e questi gli occhietti belli. Gli chiedo di contare per me, come fa Stefano quando mi allena, così posso distrarmi, posso pensare ad altro e lui non vuole, non lo fa, non vuole l’altro, quello che arriva quando sto tanto dentro, così tanto da non dovermi guardare per vedermi, che mi basta aprire il palmo della mano perché ci sia tutto riflesso, il nasone e gli occhi pesti, la bocca screpolata e le orecchie guaste, le righe in su e in giù, i segni del tempo quando non è stato felpato, i segni del tempo quando ho riso, i segni del tempo quando non lo contavamo. Resto con la mano aperta e la poggio sulla sua fronte.

Ringraziare desidero per aver tanto amato, mi sembra di aver ballato a una grande festa, ho volteggiato e non sapevo i passi e non andavo a tempo e non seguivo il ritmo e mi sono lasciata condurre e ho pestato qualche piede e qualcuno mi ha lasciata in mezzo alla pista e qualcuno mi ha invitata e qualcuno mi ha stretta senza chiedere e qualcuno si è stancato e qualcuno è rimasto sullo sfondo con un bicchiere in mano ad aspettarmi per un po’ o per molto ma io ho ballato, sempre, per tutta la festa e ancora ballo, anche con il fiatone, ancora adesso che la festa è la mia e conosco il deejay, è il mio crush.

Al tredicesimo giorno di isolamento mi dispiace per le mie ragazze quando capiscono che  vorrei non ci fossero sempre, in ogni momento, in ogni angolo, in ogni stanza, ad ogni pasto. Sempre e ovunque. Eccola, mi dico, la crepa nella devozione, la smagliatura sulla pelle liscia, ecco il buco nella trama, lo strappo rattoppato, eccola, mi dico, eccoti, eccomi. Al tredicesimo giorno di isolamento mi dispiace per le mie ragazze quando vago per casa elemosinando attenzione, conferme, rassicurazioni, quanto bene a mamma, quanto bene a mamma, tanto?  Sì, preparo quello che mi chiedi ma quanto bene mi vuoi? Tanto? Tantissimo? Eccola, mi dico, la questione irrisolta, il nodo da sciogliere, il riscatto da pagare, eccolo, mi dico il pegno richiesto, la paura più grande, l’incredulità di un’atea quando avviene il miracolo.

Ringraziare desidero per essere tanto amata, per l’ambivalenza dei sentimenti, per la positività che è indicata da una croce, robe da fedeli o analfabeti, per la negatività che è indicata da un trattino, roba da elenchi senza nome, per il lupo che mi protegge dagli attacchi esterni, per tutti i pezzi che nella conta non ho ritrovato, per quelli che ha preso Lui dopo averli rotti, ringraziare desidero perché funziono lo stesso, per i pezzi che non si trovano più e non so dove siano finiti o se qualcuno li ha tenuti, ringraziare desidero perché non mi servono più.

Ringraziare desidero Roby per la foto sul suo futon, dopo un trattamento shiatsu qualche settimana fa.