In conclusione

Ho un biglietto chiuso in una busta sul fondo della borsa nera sul ripiano dello scrittoio all’ingresso. È lì da sabato pomeriggio. Lo scrittoio all’ingresso era del padre di Lui, dovrei dire mio suocero ma non avendolo conosciuto non mi riesce, la borsa nera è mia, regalo di Lui, un regalo senza occasione, il biglietto nella busta è indirizzato a me, la grafia sulla busta è di mio padre che, poi, è chi me l’ha dato dicendomi di leggerlo perché si era impegnato per scriverlo. Non l’ho letto. Ancora. Forse perché mi ha chiesto, detto, di farlo, forse perché potrebbe esserci scritto di tutto, da un ti amo a un vaffanculo attraverso tutti i casi in cui si declina il nostro volerci bene, dispettoso, guerrafondaio, ricattatorio,  stupido, onesto. Non l’ho letto. Ancora. Perché è inverno, mi sono detta e mi è sembrato bastevole.

È tornato un sogno che per un periodo è stato ricorrente e rincorrente, mi agguantava nonostante i miei tentativi di scappare, seppur con il fiatone arrivava sempre, circa quattro anni fa, quando la scena della nostra tranquilla esistenza si è riempita di personaggi folli da arginare ed essendo sola, profondamente sola, a farlo mi sono inventata per loro nomi che mi facessero ridere e che mettessero in ridicolo quelle loro caratteristiche orrende. Nel sogno ho un brufolo tra il rossastro e il giallognolo, ma non è sul viso o sulle spalle. È sulle gamba sinistra. Lucido e pieno. Lo schiaccio tra i due pollici ed esce il pus, tanto, in un getto continuo, non uno spruzzo ma una lunga e lenta fuoriuscita di pus e a un certo momento un pelo. Un pelo incarnito che incarnito non è più. Un pelo lunghissimo, come se fosse rimasto a crescere sotto la pelle della gamba dal giorno della mia nascita, un cazzo di pelo carsico, sommerso, folto, robusto, cattivo, resistente, indifferente allo scrub, al peeling, alle cerette, a tutte le follie che ho commesso da ragazzina sulle gambe perché fossero lisce e perfette, un lungo pelo cresciuto nel pus che della mia rincorsa alla perfezione non solo se ne fotte ma la sfotte.

Non ho fiato per salire le scale, non so quanti gradini ci siano, non molti, li conto e poi me ne dimentico. Comunque non ho autonomia per farlo. Ho avuto la febbre, io che non ho mai la febbre, ho avuto le ossa rotte soprattutto di notte, ci ho giocato a puzzle, ci ho provato ma a me i puzzle hanno sempre annoiata. Anche ricomporre le mie ossa mi annoia. Anche io mi annoio a volte. Ho la tosse, secca, corta, fastidiosa. Anche io mi do fastidio, spesso.  Igienizzo le mani di continuo, ho uno spray disinfettante che nebulizzo su maniglie e plaid e divani. Apro e chiudo finestre come apro e chiudo la bocca, mai a sproposito ma a volte per abitudine. Sono abituata a me stessa, per la prima volta da quando mi frequento, osservo ogni sintomo come se fosse mio, con un occhio di riguardo. Per gli altri non ho riguardi. Per gli altri non ho attenzioni. Non mi interessano. Soprattutto i curiosi e i vanesi e quelli che cercano la parola vanesio sul dizionario. Ho mal di testa io che ho spesso mal di testa ma è diverso. È proprio nella testa, dentro, al centro, nel fondo, dove non ci arriveresti con la mano se la testa fosse aperta come un vaso, come una Testa di Moro, dove faresti fatica a scorgere qualsiasi cosa, anche il dolore. È lì che mi fa male, di più non so dire.

Mia nonna paterna interpretava i sogni. Non penso sapesse niente di Freud o di Jung.  Conosceva un po’ di mitologia greca, la rivisitava in chiave dialettale, faceva ridere senza aver in sé nulla di comico e nemmeno di tragico. Avrebbe voluto essere tragica, lei chiedeva i sintomi per sentirseli addosso e dichiararli a sua volta come le generalità, ne conosco tanti così. Le eroine e le dee erano femmine, non le ho mai sentito usare la parola donna. Nel mondo c’erano i maschi e le femmine. E le femmine hanno delle caratteristiche e i maschi no. Ne hanno altre, forse. E le femmine sono brave femmine o male femmine. I maschi non lo so, non lo ricordo com’erano i maschi per lei. Interpretava i sogni a richiesta, di chi sognava ovviamente. Le sue sorelle, loro sognavano e dicevano chiediamo a Maria. Mio padre- anche i maschi sognano-mio padre chiedeva a sua madre, poche cose deve averle chiesto nella vita ma questa sì, poi non so se ci credesse, non penso, forse era un conforto, un desiderio che lei provasse a capirlo, forse era solo un modo per stare insieme, in un inverno senza fine, il loro. Mia nonna interpretava i sogni perché gli altri pensavano che lei fosse capace di farlo. Io non so cosa sono capace di fare. Non penso che le chiederei di spiegarmi il mio sogno del pelo e del pus, non le chiederei niente, forse solo di salutarmi il nonno ma lei si offenderebbe e io rincarerei, per farle dispetto perché le femmine piagnone a me stanno sul culo.

Mia figlia Pepe è dotata di sinestesia gustativa. Che roba mi sono andata a trovare eh?  È così: datele un nome di persona e lei vi dirà quale cibo è e il più delle volte sarà vero, vi verrà di pensare che è proprio così. Da quando è piccola. Adesso le chiedo, ogni volta, anzi no, le chiedo spesso ma non ogni volta, spesso, le chiedo di dirmi che sapore hanno le persone, chiudo gli occhi e aspetto ma lei non ci deve pensare, per lei è immediato davvero. Ci sono cibi che piacciono di più, altri meno, ci sono quelli che ci fanno schifo, lei è fortunata ad avere questa abilità, insomma vedere il sapore delle persone è meglio che saper interpretare i sogni.  Mia figlia Cristina ha elencato le nove forme di intelligenza di cui può essere dotato l’essere umano, femmine e maschi senza distinzioni, perché le sta studiando in pedagogia o psicologia non so, e le ho detto che sono tante quante le vite dei gatti e lei sostiene che le vite dei gatti siano sette e alla fine non importa, ho concluso, gatti non ne abbiamo. A lei piacerebbe avere un gatto ma è impossibile finchè conviviamo perché i gatti li detesto e spesse volte anche gli umani che dai gatti vengono ospitati. Abbiamo fatto il gioco di cercare di capire quante forme di intelligenza abbiamo e lei ha vinto. Nella corsa ad accaparrarsi il meglio di quello che io e suo padre potevamo offrire quella sera di ottobre del 2006 lei ha vinto. Avere tante forme di intelligenza è meglio che saper interpretare i sogni. Ed è come avere più vite.

Al secondo giorno di isolamento, nel penultimo giorno dell’anno, ieri ho capito che rumore fa l’amore. Anzi, ho sentito che rumore fa l’amore. Ma mica l’amore universale, che ne so io di quelle cose. Ho sentito che rumore fa l’amore qui, a casa mia, dove c’è uno scrittoio di qualcuno che non ho mai conosciuto, dove non abbiamo gatti e i nomi propri li teniamo in dispensa o nel frigo, dove i sogni li raccontiamo, dove non interpretiamo nulla, nemmeno dei ruoli, dove i personaggi con nomi ridicoli servono solo a ricordarci che è sacro  ciò che noi rendiamo tale e tutto il resto è suscettibile di privato ludibrio, che anche gli alberi genealogici perdono le foglie e possono, persino, essere potati, che le frasi che iniziano con “devi” le lasciamo aspettare sulla soglia, magari passa il cane e ci piscia sopra. Ho sentito che rumore fa l’amore quello che abita qui e non altrove e mi ha fatto sorridere. Mia nonna materna, splendida Musa di leggerezza, si lamentava con mia madre e mia zia perché non era stata bene e lui, quel rompiballe, passava le giornate a misurarle la pressione, prima lui e poi lei, mattino e sera e annotava su un quadernetto, giorno, data e ora, preciso e metodico con la sua grafia inquinata dal greco antico, scriba in vestaglia, amanuense della minima e della massima. Lei lo imitava, di nascosto in cucina, mentre le avvolgeva la macchinetta intorno al braccio e poi con la pompetta gonfiava e puf, puf, puf, puf. Il loro amore faceva puf. Io infilo il dito in una scatoletta, bene fino in fondo, come il male alla testa, lì giù fino a toccare con la punta dell’unghia qualcosa e la scatoletta inizia a  emettere un trr, trr, trr, trr.  E indica che sono tachicardica, appena un po’, ma che la saturazione è buona. Anche se non ho voglia, anche se mi sembra inutile, anche se possiamo farlo dopo, mi siedo di fronte a Lui che apre il mobile, tira fuori la scatoletta, mi fa infilare il dito e mentre noi restiamo in silenzio sentiamo insieme il trr, trr, trr. Che potremmo ballare stretti, finché è inverno.

Ultime scoperte

Adolescenza significa che non c’è dolo. È un evidente caso di alfa privativa, a-dolescenza: la danza di lacrime e risate su una base di stizza non è intenzionale. Che poi è come vivo io, salvo il discorso del dolo, ovviamente. Vivere con degli adolescenti è istruttivo, personalmente ho trovato più distruttivo vivere con degli infanti. In assoluto, comunque, è meglio vivere con dei cani. A star con gli adolescenti impari che le Regine delle Fate esistono, sono quelle che rispondono danza quando viene chiesto loro che sport praticano. Impari che se li fai incazzare ti metteranno la forchetta rimasta sporca o caduta a terra mentre apparecchiano controvoglia e raccolta senza risciacquarla, senza nemmeno soffiarci sopra entro i dieci secondi, pratica che uccide ogni germe, è risaputo. Tu mangerai con quella posata pestata dai cani dopo essere stati in giardino senza sapere i rischi che corri. A vivere con gli adolescenti ti senti come quando nel tuo quartiere cambia qualcosa, passi per giorni davanti a un cantiere, un negozio annuncia la nuova apertura, tu ci passi mattina e sera, vedi ma non guardi, poi il negozio apre e non hai capito bene di cosa si tratta e nello spazio di qualche settimana non ti ricordi più quale negozio fosse lì prima. Una profumeria? Un calzolaio? Adesso cos’è? Un’agenzia immobiliare. Prima cosa c’era? Boh. Ripensi al quartiere dove vivevi da bambino, ai negozi e quelli te li ricordi tutti. Farmacia-panetteria- latteria-fruttivendolo- edicola-drogheria. Invece qui, adesso, questi non te li ricordi. A vivere con gli adolescenti capita di dover spiegare cos’era una latteria. Il negozio che c’è adesso, forse, non ti serve, non è il tipo di negozio dove entreresti. Ma tanto non è lì per te. Va bene lo stesso, dici, a nessuno, perché nessuno ascolta. Solo il cane.

Vivere con qualcuno, chiunque esso sia, è fondamentale quando si ha la febbre o il sospetto di avere la febbre. Perché il termometro te lo deve dare qualcuno dopo averlo scalato e al termine dei cinque minuti lo devi dare a qualcuno che controlla la temperatura e tu devi capire solo dallo sguardo. L’operazione termometro non può essere svolta in autonomia. Non ho mai visto nessuno farlo. Impossibile. O, almeno, inconcepibile.

Una donna che si chiama Paola mi ha detto che il mio nome, Sonia, è molto diffuso. La riformulo. Sonia è un nome molto diffuso, a detta di una persona che si chiama Paola. Niente, me la rigiro in tutti i modi ma continua a non aver senso nella mia testa. Apro la rubrica del telefono. Ho mille Paola. Poi, non so in giro per l’Italia, ma qui a Torino si fanno chiamare tutte Paoletta. Ora, già Paola significa quel che significa, anche Sonia significa quel che significa, ma insomma a significato direi che non c’è gara, poi se lo usate anche con il diminutivo è veramente riduttivo. Ecco. Mille Paola. Nemmeno una Sonia nella mia rubrica. Ma Sonia è un nome diffuso. Ma soprattutto mi ci sono intestardita, su questa cazzata. Che non so nemmeno io perché, la vado ripetendo un po’ a tutti: ti rendi conto, una che si chiama Paola mi ha detto che Sonia è un nome molto diffuso, cioè, capito? Paola. Scusate, Paole e Paolette della mia rubrica, è che non me ne capacito.

Ho fretta. Sempre. Senza motivo, davvero io non ho motivi di fretta. Posso arrivare in ufficio quando voglio. Posso uscire dall’ufficio quando voglio. Le ragazze frequentano scuole vicine, accompagno entrambe e riprendo entrambe con tempi comodi. Ma io, ultimamente, ho fretta. Mangio in fretta, velocissima, non è mai successo prima. I tempi biblici dei miei pasti da bambina sono uno dei cavalli di battaglia narrativi di mia madre. Pare che ci mettessi quaranta minuti a mangiare un uovo al tegamino o alla coque. Lo dice sempre e cerca lo sguardo di mio padre, ti ricordi, gli chiede. Lui si ricorda. Ora, io pranzi di quaranta minuti a casa dei miei fatico a ricordarli, nel senso che ci si sedeva, si mangiava, ci si alzava. Però. Per carità. Lei ricorda, chiede a lui, lui conferma. Tutto giusto. Io ricordo la mia sedia. Avevo lei a destra e lui a sinistra. Il tavolo era rotondo. Davanti a me c’era il cucinino e poi negli anni mio fratello. I miei genitori fumavano a tavola, una volta finito di mangiare. Quindi, secondo il loro racconto mentre io ancora cercavo di convincermi che dovevo masticare e ingoiare. Dietro di me c’era la radio, sul ripiano angolare. Era spenta, non si mangiava con la radio accesa. Il televisore era in un’altra stanza. Ricordo anche un uovo, nel portauovo, il cucchiaino che stacca il bianco, albume, dal bordo, il rosso, tuorlo, nel qual intingere la mollica. Forse, mamma, non mi piacevano le uova. Adesso, invece, ho fretta. Sempre. Senza motivo se non che mi manca qualcosa, non so cosa, mi manca nel respiro che si fa corto, mi manca nelle ore di sonno risicate e rosicate e rosicchiate. Mi manca negli automatismi. Nell’ordine dettato per fare le cose. Nella programmazione. Ho fretta di andare incontro a un imprevisto per dire che, visto, l’avevo previsto. È tutto sotto controllo. Ho fretta e cammino veloce per andare da nessuna parte. Ho fretta e aumento gli allenamenti. Ho fretta e compro altri libri. Ho fretta e questa è una cosa nuova. Sono una neofita della fretta. Sono un’entusiasta della fretta. Ho fretta, non aspetto più. Mai più.

Siamo diventati importanti consumatori di caco-mela. È iniziato come un tentativo, da parte mia. Il cachi mi ha sempre fatto schifo. Proprio schifo, schifo che non si dice schifo del cibo ma se fa schifo devi dire schifo. Il cachi mi ricorda la maestra Clara, all’asilo. La maestra Clara non mi faceva schifo, ma gli zoccoli bianchi che aveva ai piedi sì. E anche il cachi come merenda del pomeriggio. Si spappolava tutto, risaliva lungo il cucchiaino, era impossibile non essere agguantati da quella gelatina vischiosa e arancione. L’arancione mi fa schifo. Quando aspettavo Cri, nei primi mesi di gravidanza, ho avuto solo due voglie. Vere voglie, proprio quelle che sono voglie, che devi soddisfare a tutti i costi, potresti uccidere per avere quello che non solo desideri ma proprio vuoi. Solo due voglie, in due serate diverse fortunatamente: un involtino primavera e il suo odore. E il gelato al cachi.  Cristina adora il cachi. È la sola in famiglia. Ho trovato il caco-mela, questo curioso incontro tra il cachi e la mela. Ha la consistenza di quest’ultima e la dolcezza del primo. Lo prendo, proviamo. Ogni volta che porto a casa qualcosa da provare incontro una sola resistenza, una sola. Quella di Lui. Lui pensa, in partenza, che io sia stata mossa da un desiderio di novità che mi deluderà. Pepe dice che è solo perché non ha avuto Lui l’idea, una sorta di invidia della novità. Io non lo so, ma a volte mi sono sforzata di apprezzare per non dargli ragione, con il mapo per esempio, l’incrocio tra mandarino e pompelmo. Non in questo caso, però. Lui ha detto che il caco-mela non esiste in natura. È una forzatura. Anche tu, gli ho detto. Cosa si incrociano piemontesi con friulani, che poi uscite strani. Sei come il caco-mela, ho concluso. Ti ho dato una possibilità e mi sei piaciuto lo stesso. E niente, adesso va in giro per mercati a comprarli per le ragazze, perché io li prendo al supermercato e costano di più e sono meno buoni, certo. Lui sa dove prenderli, bravo. Solo gli ha cambiato nome e glielo abbiamo concesso, li chiama: melocaco. Lo capisco.

Mio nipote, duenne inglese con bilinguismo incorporato, mi ha portato in bagno, a casa dei miei genitori e mi ha fatto vedere il bidet. Per lui è un accessorio sconosciuto, a casa sua. Cos’è questo, Geppetto? Gli ho chiesto curva su di lui, occhi negli occhi. È il lavaculo. Lavaculo. Lavaculo. Laaaavaaaaculooooo. Anche i vicini lo hanno sentito. È il tempo trascorso con mia madre, lo so. Riconosco lo stile. Poi mi ha legata alla poltrona del salotto con il nastro del regalo che gli ho portato e mi ha fatto aggredire da un dinosauro, da un robot, da Ken rubato a sua cugina, mia nipote quattrenne italiana con rivendica incorporata e così quando lei si è accorta del furto gli ha strappato Ken di mano lui prima di piangere ha cercato di riprenderlo e le ha tirato qualcosa come i capelli o la maglia e io ero legata alla poltrona e loro litigavano e lui deve aver detto qualcosa come dad, help me e mio fratello che succhiava nervoso la sigaretta elettronica mi ha detto senti come parla bene, lo trovi cresciuto, è bello vero? Ho detto sì, sì, sì. Ho chiesto di essere liberata, hanno smesso di litigare per dirmi che non avevano ancora finito di giocare con me e anche mia nipote si è aggiunta e ha iniziato a farmi aggredire da Barbie, da Cicciobello cagacazzobua o quel che era e a quel punto è arrivata mia madre che era sul balcone della cucina a fumare e mi ha chiesto cosa ci facessi seduta e legata e poi è arrivato mio padre che era nel suo studio a lavorare e mi ha chiesto perché fossi seduta e legata. E io mi sono sentita un po’ in colpa.

Non ho presentimenti buoni. Pre-sento le cose quando vanno male, su quello sono davvero imbattibile. Se nell’aria c’è un accenno di tragedia o problema io lo capto con la precisione di un radar sofisticato. Se nell’aria c’è qualcosa che gira per il verso giusto niente. Niente. Io non sento niente. Sonia, mi sono detta, non Paola, Sonia, la felicità non fa rumore. È quel vecchio adagio che fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce? Mi sono chiesta. Tipo, mi sono risposta. È più come quando da adolescente, ricordi, sei stata adolescente anche tu è inutile che cerchi di rimuovere, è tutto ancora lì lo sai, è più come quando da adolescente ti eri amminchiata con l’atarassia e l’aponia. Ah, che tempi gloriosi quelli in cui anelavi a tanto. Ecco. Non senti il turbamento, non senti l’agitazione, questa è la felicità, pensi sia l’assenza di segnali invece è il segnale. Tutto sta andando bene. Zitta, non pensare a voce alta. Zitta. Non andrà male solo perchè dici che sta andando bene. Ascolta, cosa senti? Niente. Ecco, giusto. Vuol dire che arriverà la felicità se non vibro, se non ho sentore alla bocca dello stomaco, se non mi trema l’anima? Vuol dire che è già qui la felicità. Sicura? No, sicura mai. Si tratta, sempre, di te. O di me.

Va bene. Va bene lo stesso.