Pizze, canzoni, attori e preghiere

Ti dispiace se lascio il cellulare sul tavolo? Lo chiedo, ma per finta, perché mentre mi sfilo la giacca lo appoggio accanto al tovagliolo.

No, figurati. Tutto bene con le ragazze? Domanda, mentre toglie la borsa e il cappotto e li sistema su una delle sedie vuote.

Sì, non è per le ragazze, sono con il padre.

Le racconto, d’un fiato. Guardo il suo sguardo cambiare, la mano alla bocca, e poi sulla fronte, tra i capelli, solo alla fine sulla mia mano rimasta immobile sul cellulare.

Almeno così te l’ho detto. E possiamo cenare. Di farinata ne prendiamo una porzione sola, va bene anche per te? Altrimenti poi non mangio tutta la pizza, le dico mentre sfoglio le pagine plastificate del menù, tu sai già cosa prendi?

Guardo sempre e poi alla fine prendo la stessa pizza da trent’anni. La quattro stagioni con il tonno al posto del prosciutto.

Io cambio, invece. Questa con la cipolla rossa non è male. Da bere? Io birra, assolutamente.

Io coca zero.

Niente vino, stasera. Il vino è da adulti, da signore. Stasera siamo due ragazze, con le facce un po’ sbiadite dal tempo sì, ma due ragazze e le ragazze bevono birra o coca cola e smezzano la farinata. Niente vino stasera, il cellulare sul tavolo non aspetta un messaggio da interpretare in due e al quale rispondere, sibillinamente, in due. Niente vino stasera, che mette malinconia. Quando si avvicina il cameriere per prendere le ordinazioni ci chiama “ragazze”: allora, ragazze, avete scelto? È evidente che siamo due ragazze, stasera, se n’è accorto anche lui. Scambia qualche battuta con lei, accenna a suo marito, sono amici,fine dell’incantesimo, ci ha riconosciute, ha scoperto il trucco, dice quella cosa orrenda, quella della libera uscita, quella che suona così: “ah, stasera siete in libera uscita?”. Lo odio d’istinto. L’importante è avere la libera entrata, gli rispondo, tornare è sempre più difficile che andare. Mia figlia direbbe che faccio battute da boomer. Sorrido ma per finta. È di circostanza, è un sorriso che dice levati di torno, cosa vuoi, prendi le ordinazioni e ripassa quando è pronto, non vedi che tengo il cellulare come si regge il mondo?

Dio che situazione. E tu come stai?

Io sono il meno, come sto io è il meno. Aspetto, aspetto, aspetto. Mezze giornate, vivo così. Come le commesse.

Quali commesse?

Sì, sai la canzone che dice le commesse del centro, quelle vivono a mezze giornate, no che non sono le fate. Vivo così. Non lobotomizzata ma robotizzata. Mi alzo. Mi lavo. Mi vesto. Lavoro. Piango. Mi nascondo. Mi scuso. Accompagno. Ritiro. Cucino. Piango. Mi nascondo. Mi scuso. Impreco. Mi lavo. Leggo. Dormo. Mi sveglio. Non dormo più. L’altro giorno sono stata ore seduta in lavanderia, con la testa tra le mani a fissare il mucchio della roba scura da mettere in lavatrice, sono stata lì tutto il tempo di lavaggio della roba sportiva, centrifuga compresa. Mi serviva un posto. Ma come sto io è il meno. È questa cosa che devi aspettare, che non sai, che non ti dicono perché è presto per dire, che non è una questione di soldi o di conoscenze da far intervenire, amici di amici, ma solo di tempo. È questa vicenda del tempo, sul quale non hai potere. Che fai? Fai passare le giornate più velocemente? Poi, non so tu, voi, ma io mi ritrovo con giornate lunghissime incastrate in settimane cortissime. Porca puttana, in un attimo arriva giovedì. Ma come? Era lunedì. Però le giornate sono eterne. Eterne. E comunque il tempo non basta ancora, ci vuole più tempo per sapere. Aspettare è sfinente.

Sì, anche per noi. È che i ragazzi fanno un sacco di cose. Cri come si trova al liceo? Mio figlio è contento, gli piace la scuola nuova, i compagni nuovi e anche vedere altre realtà, magari un po’ più dure però almeno si rende conto delle differenze e di quanto è fortunato.

Anche Cri si trova bene, ha trovato il suo percorso di studi, davvero. Le piace sapere e allora studia, ha capito che non c’è altra strada. Sono stati anni belli, ovattati, dall’asilo alle medie salendo di un piano alla volta. Siamo stati bene, ti ricordi? Tra poco finirà anche Pepe e anche tutti questi anni trascorsi nel perimetro di quelle mura, in quei cortili, nelle corsie della piscina o tra le poltrone del teatro. Se ci pensi, ne sono già passati tanti. Noi a gennaio abbiamo spento dodici candeline lì dentro.

Noi siamo arrivati a settembre, di quell’anno, il 2010.

Mi ricordo. Avevi il pancione del piccolo.

Tu avevi Pepe nel passeggino. Perché Cri ha iniziato prima?

Due anni e mezzo, 30 mesi, è stato il solo anticipo che ho fatto fare, a entrambe. Dovevo toglierle da dove erano senza far capire che le stavo togliendo da dove erano. Mandarle a scuola era la sola possibilità. Figurati, per educazione sono contraria a tutti gli inserimenti anticipati, mia madre da brava maestra ha sempre detto di lasciar perdere e penso avesse ragione, in quel caso non avevo scelta perché non avevo ancora voce.

Capisco. Fin troppo.

Esistono i cliché, sono retorici ma esistono. C’è un motivo se esistono i cliché, non è che una cosa diventa cliché così,  la storia che si ripete è sempre, banalmente, la stessa. Quello non è stato proprio un periodo facile.

Ti chiamavamo la Canalis bionda e triste.

Ma chi?

Tu. Io e mio marito ti chiamavamo così, dicevamo è arrivata la Canalis bionda e triste.

Minchia. Non assomiglio per niente alla Canalis.

Vabbè, lamentati…

No, no, anzi. Meglio la Canalis che Gegia triste. Prendi quel pezzo di farinata, è tuo.

No, ho già preso, è tuo.

No, è tuo.

Allora facciamo a metà.

Sì, ma taglialo bene. Come fanno le mie figlie quando devono dividere qualcosa: con il righello. Soprattutto Pepe, tremenda, davvero. Cri se ne frega di più. È carattere. Ogni tanto si adombra, vedo le nuvole attraversarle i pensieri, poche schiarite, tende al paesaggio irlandese. Non penso sia l’adolescenza, penso sia lei. Io ho terrore dell’adolescenza, comunque. Tu?

A volte. A volte li guardo e dico ma dove sono i miei bambini? Chi sono questi due, alti, che mi danno un bacio chinando la testa, ormai, che hanno queste voci strane, prima alte e poi basse e questi peli. Peli. Peli ovunque con i maschi.

Anche le femmine. Noi facciamo pellegrinaggi dall’estetista, ormai. Appuntamento triplo, fuori una dentro l’altra. Per non dire dei capelli. Troppo lunghi ma non si possono tagliare perché poi sono troppo corti, troppo sporchi, shampoo sbagliato, balsamo sbagliato, vita sbagliata. A me l’adolescenza distrugge. Mi ferisce proprio, sarà che penso alla mia.

Io mi ribellavo. Ero tremenda.

Io mi detestavo. Ero tremenda.

Ma tu hai cambiato taglio? Sono diversi, vero?

Sì, abbiamo fatto il bob. Un tempo si diceva caschetto. Adesso si chiama bob. Senza frangia che vomito, per carità la frangia. “Abbiamo fatto” perché William, il ragazzo che mi taglia i capelli, dice così, che l’abbiamo fatto. Ma sono già troppo lunghi, mi sa che li taglio quando vado per ritoccare il colore, pensavo già di farlo il mese scorso ma lui non ha voluto, ha sostenuto che il taglio “si è stabilizzato”. Beato lui, gli ho risposto.

Anche i miei, con i capelli, sono fissati. Non è solo roba da femmine. Adesso hanno la mania del ciuffo. L’umore della giornata dipende dalla stabilità del ciuffo. A volte mi rispondono in un modo che guarda, oppure gli dico cento volte di fare le cose e non le fanno, sai, io mica gli sto insegnando che non devono fare niente in casa perché sono maschi, anzi. Ci sto provando. Che sappiano tenere una casa pulita, preparare da mangiare, occuparsi della loro roba.

Brava! Io no…cioè, fanno per imitazione, ma per alcune cose sono autonome fin da piccolissime, per esempio la questione vestiti puliti e vestiti sporchi, cosa riporre, come riporre. Io lavo, loro mettono via. Se avessi avuto un figlio maschio sarebbe stato uno sbruffone, però avrei insistito di più di quanto faccia con le ragazze, avrei fatto come fai tu ma con meno allegria, comunque io figli maschi non ne volevo. Nemmeno ero sicura di volere le femmine. A tutti i miei amici  arrivati ai quarant’anni senza figli io dico apertamente e chiaramente : non fateli. Lasciate perdere, non fateli, l’avete scampata. Cos’è questa cazzata dei figli che ti completano? Ma cosa? Ma chi? No, no, tu sei completo senza figli, guardati, sei tutto lì, dove ti metti stai, sai fin dove arrivano le tue estremità, fin dove puoi arrivare con il tuo fiato, sei intero e integro. Nel momento in cui questa situazione cambia e proliferi tu vai in pezzi. Guardami. Io sono disarticolata, lussata come una spalla, assumo posizioni innaturali ormai, sono calcificata. E pure tu. E tutti quelli come noi. Non fateli, coglioni. È arrivato un messaggio, scusa.

Tutto bene?

Sì. È altro. Altro. Come se io avessi ancora interesse per altro. Ieri la mamma di una compagna di Pepe mi parlava della guerra. Della terza guerra mondiale nel cuore dell’Europa. Wow. Annuivo. Ce le ho qui, le bombe. Stanno bombardando anche noi e forse non troveremo un rifugio, volevo dirle. E mi sento una stronza, perché guardo il mio male e non quello che accade agli altri. E poi mi ha detto qualcosa sulla primavera. Così, passa dalla guerra alla primavera come se fosse possibile un collegamento. Mi è insopportabile la primavera. La primavera è retorica, la primavera sostiene la teoria del “se vuoi puoi”. Ma vaffanculo. Non voglio fiorire. Non voglio sbocciare. Voglio sprofondare. Voglio essere sotterrata.

Gliel’hai detto?

No. Ho annuito. Mi ha fatto gli auguri per la festa della donna. Grazie, le ho risposto senza ricambiare.

È retorica anche la festa della donna?

Sì. È retorico Dio, è retorica la dottrina del “mammo”, è retorico il femminismo di femministe con il culo comodo, è retorico il nuoto come sport completo, è retorico l’asterisco con cui vogliono sostituire le vocali. Cazzo. Come lo pronuncio? Mi ribello a parole che non posso pronunciare fino alla fine. È retorico che qualunque motivo diventi una motivazione. Basta. Ditemi come devo chiamarvi, al femminile, al maschile, al plurale, cane gatto cavallo? Vi ci chiamo. Ma non sfracassateci l’esistenza con l’asterisco. L’asterisco è una roba da surgelati nel menù, indica che il prodotto non è fresco. La maestra di mio fratello, alle elementari, non so di quale paesino pugliese fosse originaria ma non finiva mai una parola. Mai. Immagina i dettati: “prendet la penn e scrivet”. Oppure, un amico di mio fratello, Dio, come si chiamava, lo chiamavamo con un vezzeggiativo, sai come Sonia-Sonietta, ecco, boh, non mi ricordo, facciamo che si chiamava Carlo-Carletto, lui era bravissimo a imitare Anna Oxa, si vestiva e parruccava uguale. Allora, immagina queste cene dove io ero l’unica eterosessuale, tipo un film di Ozpetek ma senza Accorsi.

Tu tipo Margherita Buy.

Tipo.

Più della Canalis.

Diversa.

Sì.

Ecco, Carletto non diceva il cucchiaio, ma la cucchiaia. Non diceva il giaccone ma la giaccona. Non diceva il piatto, ma la piatta. Volgeva tutto al femminile. Per ridere. Per dissacrare. Per uscire dalla retorica, perché se un nome ha un genere è solo quello, un nome con un genere. Perché il neutro indica le cose. Le cose. Come l’asterisco indica i prodotti surgelati. Poi, fate come cazzo vi pare. Io le parole le voglio pronunciare intere, le voglio finire, perché se non finiscono più nemmeno loro come possiamo finire noi? Io non userò mai l’asterisco. Asterisc.   

È retorico se chiedo a mia madre di fare qualcosa con il suo gruppo di preghiera? Le vecchiette, lì, son tremende, sai. Quelle smuovono le montagne, pur di non ricevere più invocazioni vengono accontentate. E sono tante.

Lo farebbe?

Certo. Immagina un flusso costante di preghiere indirizzate.

Come se avessero il destinatario scritto sopra?

Sì.

Anche con un indirizzo inglese?

Non penso sia un problema.

Anche con un nome inglese?

Sì.

Pregano al posto mio?

Pregano. Non al posto di altri, loro pregano. Pregherebbero comunque.

Come le sarte che cuciono i corredi, con le iniziali di chi li commissiona?

Si.

Io ho solo lenzuola Ikea. O Bassetti. Però, sì. Grazie. Davvero. Non so cosa dire. Ringraziala da parte mia, non so se la incontro fuori da scuola, viene a prendere il piccolo ogni tanto?

No, ormai torna a casa da solo anche il piccolo, ma stai tranquilla. In generale, stai tranquilla. Le cose passano, si aggiustano, magari sono diverse dall’idea peggiore che ci siamo fatti, magari ci vuole un po’ di speranza, quella si può avere anche senza fede. E poi seguire il corso della vita, di più non possiamo fare.

Io voglio stare nel controviale, non nel corso. Nel controviale ci sono i semafori direzionali, i parcheggi, puoi fermarti, accostare, ti incolonni per svoltare e puoi svoltare, non tagli la strada a nessuno, vai meno veloce ma correre è retorico. Non voglio correre. Voglio accostare sotto un albero e capire se il dolore funziona come la felicità o al contrario. Ogni volta che sono felice penso che potrei essere più felice. Una mezza tacca in più. Ogni volta che sono addolorata penso che non potrei provare più dolore di quello che sento addosso, nemmeno un grammo in più.

E poi? Cosa succede la volta dopo?

Il dolore. È sempre più grande di quello precedente. Mi è presa la malinconia anche con la birra. Merda. Scusa.

Le scuse sono retoriche.

Sì.

Ti posso abbracciare.

Grazie.

I ringraziamenti sono retorici.

Fanculo.

Eccoti. Ti accompagno alla macchina, dov’è?

Nel controviale.

Appunti di notte

C’è una macchia sull’ultima maglia che Pepe ha voluto comprare, la maglia è bianca con una V rosa al centro, l’iniziale del suo cognome. In mezzo alla V c’ è questo alone non so di cosa. L’abbiamo acquistata da Zara, postaccio qualunque. Il mio professore di Diritto Pubblico Comparato  diceva spesso che “la medesimezza dei consumi è un fattore di democrazia”. Ogni volta che entro da Zara ci penso. C’è questo alone lì al centro e mi sembra che finchè non ne saprò l’origine non sarò in grado di eliminarlo. Non è sugo, né cioccolato. Non è succo. Nessuna bibita. Potrebbe essere frutta, una frutta sbrodolosa che ha sbrodolato. Pepe  mangia la frutta come gioca  a tennis, da agonista. Potrebbe partecipare a tornei per mangiatori di frutta. Nessuno mangia la frutta come e quanto lei. Mio nonno paterno, solo lui lo faceva. Io non lo sogno più da quando è nata lei.  Ci sono talenti che saltano più di una generazione.

La mimica facciale, per esempio. Mia madre è una specie di sfinge, alza un sopracciglio, corruga la fronte, strizza gli occhi. Basta. Non si capisce mai niente dal suo viso. Mia nonna materna invece, lei si trasformava proprio e muoveva ogni muscolo e cambiava espressione e modulava anche la voce. Anch’io lo faccio. Imito lei che lo fa. “Uguale, uguale”- rideva mio fratello quando rideva e si girava verso gli altri, quelli arrivati dopo nella nostra vita e nella nostra famiglia e che non l’avevano conosciuta-” uguale, ti giuro, uguale.” E rideva. Adesso non ride, perché come direbbe nostra nonna ha altri cazzi per la testa.

Ecco, io stanotte la metterei sul piatto questa cosa della mimica facciale. Vorrei sapere l’origine della macchia sulla felpa per toglierla e poi offrirei all’Universo la mia abilità di muovere la faccia e modulare la voce. A me una faccia che si muove tutta intera non serve. Non se non c’è mio fratello che ride. A me basta metà faccia, ormai. Posso cederla, davvero. A chi fatica a muoverla tutta. Così poi mio fratello ride di nuovo.

Vorrei sapere con chi posso parlare. A chi posso scrivere. Al Papa, magari. Dovrei parlare con chi comanda, con chi sa come si gestisce questa cosa dell’offerta spontanea della mia faccia. Posso stare fissa, posso anche smettere di dire tutte le parole che conosco, ormai a me ne bastano molto poche per vivere, quindi voglio offrire uno scambio. Però io con Dio non ci parlo. Con nessun Dio, sia chiaro. Con nessun Dio di nessuna religione monoteista convinta di essere la sola nel giusto.

Perché Dio è figlio unico. Non mi fido di un Dio figlio unico. Non mi fido di un Dio e nemmeno dei figli unici. Non capiscono. E Budda è diventato Budda lasciando moglie e figlio appena nato, altrimenti col cazzo raggiungeva l’Illuminazione. Bravo. Vieni qui a illuminarti, qui, dove sono io, in una giornata delle mie in una settimana delle mie, poi vediamo se riesci.

Intanto mi inventerò un’allergia. Mi sembra una buona idea. Per gli occhi gonfi e la faccia di cartapesta. Tanto chi può dire che non sono mai stata allergica? Nessuno. Chi sa che non sono mai stata allergica o è morto oppure conosce i motivi per cui ho questa faccia da giorni. Gli altri si accontenteranno di una versione riveduta, di una menzogna, di un’invenzione. Una bella storia ben raccontata, un’allergia improvvisa in età adulta. A cosa? Al dolore. Alla sofferenza di chi amo. Alle piante. A chi è vivo e non so perché. A Dio, che è un figlio unico al quale non si può dire niente perché non sa tenere un segreto. Se non hai fratelli quando hai imparato a tenere i segreti?

Devo trovare il responsabile, quello con cui parlare per risolvere la situazione. Passeggio davanti alle foto di chi non c’è più, bravi. Bravi un cazzo, gli dico. A cosa servite? Non intercedete? Cosa c’è di lì? Come vengono gestite le richieste? Più che il culto degli antenati mi esercito nel culo agli antenati. Li rimprovero, li tratto male. Non servite a niente, vi giro la foto, non voglio nemmeno vedervi. Dovreste vergognarvi di lasciarci così. Ridevamo, lo sapete quanto ridevamo. Ridevamo scomposti, ridevamo anche infelici, ridevamo e voi dovreste vergognarvi.

Dovrei chiedere scusa a mia figlia, la grande. Quando andrò a svegliarla domani, le chiederò se vuole un toast o il caffè o uno yogurt e poi le chiederò scusa per aver minimizzato fino a perdere la pazienza, fino a sbottare e dirle basta, queste sono cazzate, queste non sono cose importanti, per lei era importante quella vicenda di portare dei soldi al rappresentante di istituto in quinta perchè doveva parlare con uno di quinta e se sei uno di prima è importante. Eppure non lo è. E l’ho trattata male.

Dividere l’importante dal non importante. Creare scatoloni di importante a lunga conservazione e portarli in un centro di raccolta, assicurarmi che arrivino a destinazione. Creare scatoloni di non importante, chiedere a Lui di portarli in garage, accorgermi che pesano poco e che posso fare da sola, senza chiedere a Lui. Sapere che nemmeno Lui può capire, anche se non è Dio, anche se è un falso figlio unico. È la quota di estraneità che ci portiamo ancora dietro dopo ventuno anni insieme. È il confine naturale, il crinale della montagna. Da questa parte e da quella parte. Non può capire e non voglio spiegarglielo, perché se dovesse inventarsi Lui un’allergia non vorrei capire, non mi interesserebbe nemmeno, forse penserei che di là, dall’altra parte del crinale se lo meritano.

Non mi scuserò con mia figlia, la grande. Metabolizzerà la mia reazione, è abbastanza grande. Anzi, le dirò esattamente come stanno le cose. No. Non è abbastanza grande. Glielo dirò solo se diventerò anch’io una sfinge. Le spiegherò. Mi scuserò. Piangerò senza muovere la faccia.

Dopo aver diviso l’importante dal non importante, stanotte, andare in cerca di cose che non sono motivi per piangere e per le quali piangere senza motivo, trovare tutte le piccole angosce che ho nascosto, tirarle fuori e lasciarmi commuovere. Scoprire se si può vivere nutrendosi solo di frutta secca. Cercare rifugio in piccoli gesti, piccolissimi, minuterie. Riporre l’accendino nel cassetto subito dopo aver acceso la candela vicino al camino. Svuotare la paletta dopo aver raccolto i peli del cane. Scaricare la lavastoviglie quando ancora i piatti bruciano i polpastrelli. Impilare perfettamente i tappi dei barattoli uno sopra l’altro. Impilare perfettamente i barattoli uno dentro l’altro. Continuare la lettura del romanzo su comodino, una storia pessima scritta malissimo da un francese sopravvalutato come tutti i francesi. Inimicarmi i francesi.

 Creare uno zaino per la sopravvivenza, la mia. Metterci dentro la frutta secca. Raccontare alle ragazze che le noccioline tostate sono per me una dipendenza affettiva. Raccontare la storia di una bambina che va a trovare il nonno in azienda e passa dal laboratorio dove le dipendenti, tutte in camice bianco e cuffietta in testa, prendono con un coppo bianco una quantità di noccioline, le mettono su una bilancia, le infilano in un sacchetto, chiudono la confezione passandola sotto una macchina che la sigilla con il calore e ricominciano mentre lei si dondola nella gonna plissettata e allunga la mano nel cestone della noccioline, le prende e le mangia e ricomincia finchè non sente la poltiglia riempirle i denti, quelli in fondo, allora scava con la lingua per liberarli, ingoia e di nuovo allunga la mano nel cestone.

Metterci dentro una scatola da scarpe con delle risate, chiuderla con un elastico, che non escano finché non saremo al sicuro. Un patto con l’universo, un’offerta che non si può rifiutare. Un mantra, gli occhiali per leggere, una penna e un quadernetto per gli appunti, che siano di notte o di giorno. Dell’antistaminico. Una fune lunga per recuperare mio fratello, nel caso scivolasse in un burrone. Una torcia, nel caso si chiudesse in una grotta. È la sua sopravvivenza questa, sì, ma è anche la mia. Raccontare alle mie figlie la storia del crinale e della quota di estraneità, che in parte riguarda anche loro.

Metterci dentro una notte lontana con una lampada su un comodino, accesa, sul muro tappezzato  l’ombra lunga di una bimba corta, ha un caschetto sottile di capelli, ha detto le preghiere con suo padre che gliele ha insegnate in un ordine preciso che non avrebbe mai dimenticato: Padre Nostro, Ave Maria, Eterno Riposo, Angelo di Dio. Il padre ha chiuso la porta uscendo dalla cameretta, sono loro due da soli, la mamma non c’è e nemmeno il fratellino. Sono in ospedale. Perché il bambino deve essere operato. La bambina con il caschetto sottile si avvicina al letto con le sponde, un letto da piccoli, non come il suo.  C’è un pigiama appoggiato, sembra dimenticato, non è sotto il cuscino. Lo prende tra le mani e lo respira, ci affonda il naso dentro, lo preme sulla bocca, cerca l’odore, lo trova, le entra su per le narici, assomiglia al suo odore, le famiglie hanno lo stesso odore, i fratelli hanno lo stesso odore, dice a Dio che non lo tratterà più male, solo questo può offrirgli, lo dice a Dio perché ha solo lui, perché prega ogni sera parole grandi e qualcosa vorrà dire, lo dice a lui, ti prego, fa che vada tutto bene, fallo tornare a casa e gli vorrò bene per sempre. Rimette a posto il pigiama che ha una macchia, un alone al centro della maglia, la bambina non sa di cosa, se ne occuperà sua madre, le sue lacrime sul pigiama si asciugheranno, al massimo racconterà che è bagnato di acqua, una bella storia ben raccontata. La bambina ancora non sa che Dio è figlio unico, ecco perché la metto nello zaino della sopravvivenza.

Scusarmi con Lui, anzi no. Metabolizzerà la mia reazione, è abbastanza grande per accettare questi miei giorni di rabbia e dolore, di tutto quanto sto offrendo in cambio della causa della macchia. Non inventare storie, dirgli che è una questione di odori, di promesse, di notti che non avevo mai raccontato nemmeno a Lui. Scusarmi solo se diventerò una sfinge. Piangerò senza muovere la faccia e poi rideremo, di nuovo, tutti.

di bambine quando erano come Dio.

Olio su memoria.