Ti dispiace se lascio il cellulare sul tavolo? Lo chiedo, ma per finta, perché mentre mi sfilo la giacca lo appoggio accanto al tovagliolo.
No, figurati. Tutto bene con le ragazze? Domanda, mentre toglie la borsa e il cappotto e li sistema su una delle sedie vuote.
Sì, non è per le ragazze, sono con il padre.
Le racconto, d’un fiato. Guardo il suo sguardo cambiare, la mano alla bocca, e poi sulla fronte, tra i capelli, solo alla fine sulla mia mano rimasta immobile sul cellulare.
Almeno così te l’ho detto. E possiamo cenare. Di farinata ne prendiamo una porzione sola, va bene anche per te? Altrimenti poi non mangio tutta la pizza, le dico mentre sfoglio le pagine plastificate del menù, tu sai già cosa prendi?
Guardo sempre e poi alla fine prendo la stessa pizza da trent’anni. La quattro stagioni con il tonno al posto del prosciutto.
Io cambio, invece. Questa con la cipolla rossa non è male. Da bere? Io birra, assolutamente.
Io coca zero.
Niente vino, stasera. Il vino è da adulti, da signore. Stasera siamo due ragazze, con le facce un po’ sbiadite dal tempo sì, ma due ragazze e le ragazze bevono birra o coca cola e smezzano la farinata. Niente vino stasera, il cellulare sul tavolo non aspetta un messaggio da interpretare in due e al quale rispondere, sibillinamente, in due. Niente vino stasera, che mette malinconia. Quando si avvicina il cameriere per prendere le ordinazioni ci chiama “ragazze”: allora, ragazze, avete scelto? È evidente che siamo due ragazze, stasera, se n’è accorto anche lui. Scambia qualche battuta con lei, accenna a suo marito, sono amici,fine dell’incantesimo, ci ha riconosciute, ha scoperto il trucco, dice quella cosa orrenda, quella della libera uscita, quella che suona così: “ah, stasera siete in libera uscita?”. Lo odio d’istinto. L’importante è avere la libera entrata, gli rispondo, tornare è sempre più difficile che andare. Mia figlia direbbe che faccio battute da boomer. Sorrido ma per finta. È di circostanza, è un sorriso che dice levati di torno, cosa vuoi, prendi le ordinazioni e ripassa quando è pronto, non vedi che tengo il cellulare come si regge il mondo?
Dio che situazione. E tu come stai?
Io sono il meno, come sto io è il meno. Aspetto, aspetto, aspetto. Mezze giornate, vivo così. Come le commesse.
Quali commesse?
Sì, sai la canzone che dice le commesse del centro, quelle vivono a mezze giornate, no che non sono le fate. Vivo così. Non lobotomizzata ma robotizzata. Mi alzo. Mi lavo. Mi vesto. Lavoro. Piango. Mi nascondo. Mi scuso. Accompagno. Ritiro. Cucino. Piango. Mi nascondo. Mi scuso. Impreco. Mi lavo. Leggo. Dormo. Mi sveglio. Non dormo più. L’altro giorno sono stata ore seduta in lavanderia, con la testa tra le mani a fissare il mucchio della roba scura da mettere in lavatrice, sono stata lì tutto il tempo di lavaggio della roba sportiva, centrifuga compresa. Mi serviva un posto. Ma come sto io è il meno. È questa cosa che devi aspettare, che non sai, che non ti dicono perché è presto per dire, che non è una questione di soldi o di conoscenze da far intervenire, amici di amici, ma solo di tempo. È questa vicenda del tempo, sul quale non hai potere. Che fai? Fai passare le giornate più velocemente? Poi, non so tu, voi, ma io mi ritrovo con giornate lunghissime incastrate in settimane cortissime. Porca puttana, in un attimo arriva giovedì. Ma come? Era lunedì. Però le giornate sono eterne. Eterne. E comunque il tempo non basta ancora, ci vuole più tempo per sapere. Aspettare è sfinente.
Sì, anche per noi. È che i ragazzi fanno un sacco di cose. Cri come si trova al liceo? Mio figlio è contento, gli piace la scuola nuova, i compagni nuovi e anche vedere altre realtà, magari un po’ più dure però almeno si rende conto delle differenze e di quanto è fortunato.
Anche Cri si trova bene, ha trovato il suo percorso di studi, davvero. Le piace sapere e allora studia, ha capito che non c’è altra strada. Sono stati anni belli, ovattati, dall’asilo alle medie salendo di un piano alla volta. Siamo stati bene, ti ricordi? Tra poco finirà anche Pepe e anche tutti questi anni trascorsi nel perimetro di quelle mura, in quei cortili, nelle corsie della piscina o tra le poltrone del teatro. Se ci pensi, ne sono già passati tanti. Noi a gennaio abbiamo spento dodici candeline lì dentro.
Noi siamo arrivati a settembre, di quell’anno, il 2010.
Mi ricordo. Avevi il pancione del piccolo.
Tu avevi Pepe nel passeggino. Perché Cri ha iniziato prima?
Due anni e mezzo, 30 mesi, è stato il solo anticipo che ho fatto fare, a entrambe. Dovevo toglierle da dove erano senza far capire che le stavo togliendo da dove erano. Mandarle a scuola era la sola possibilità. Figurati, per educazione sono contraria a tutti gli inserimenti anticipati, mia madre da brava maestra ha sempre detto di lasciar perdere e penso avesse ragione, in quel caso non avevo scelta perché non avevo ancora voce.
Capisco. Fin troppo.
Esistono i cliché, sono retorici ma esistono. C’è un motivo se esistono i cliché, non è che una cosa diventa cliché così, la storia che si ripete è sempre, banalmente, la stessa. Quello non è stato proprio un periodo facile.
Ti chiamavamo la Canalis bionda e triste.
Ma chi?
Tu. Io e mio marito ti chiamavamo così, dicevamo è arrivata la Canalis bionda e triste.
Minchia. Non assomiglio per niente alla Canalis.
Vabbè, lamentati…
No, no, anzi. Meglio la Canalis che Gegia triste. Prendi quel pezzo di farinata, è tuo.
No, ho già preso, è tuo.
No, è tuo.
Allora facciamo a metà.
Sì, ma taglialo bene. Come fanno le mie figlie quando devono dividere qualcosa: con il righello. Soprattutto Pepe, tremenda, davvero. Cri se ne frega di più. È carattere. Ogni tanto si adombra, vedo le nuvole attraversarle i pensieri, poche schiarite, tende al paesaggio irlandese. Non penso sia l’adolescenza, penso sia lei. Io ho terrore dell’adolescenza, comunque. Tu?
A volte. A volte li guardo e dico ma dove sono i miei bambini? Chi sono questi due, alti, che mi danno un bacio chinando la testa, ormai, che hanno queste voci strane, prima alte e poi basse e questi peli. Peli. Peli ovunque con i maschi.
Anche le femmine. Noi facciamo pellegrinaggi dall’estetista, ormai. Appuntamento triplo, fuori una dentro l’altra. Per non dire dei capelli. Troppo lunghi ma non si possono tagliare perché poi sono troppo corti, troppo sporchi, shampoo sbagliato, balsamo sbagliato, vita sbagliata. A me l’adolescenza distrugge. Mi ferisce proprio, sarà che penso alla mia.
Io mi ribellavo. Ero tremenda.
Io mi detestavo. Ero tremenda.
Ma tu hai cambiato taglio? Sono diversi, vero?
Sì, abbiamo fatto il bob. Un tempo si diceva caschetto. Adesso si chiama bob. Senza frangia che vomito, per carità la frangia. “Abbiamo fatto” perché William, il ragazzo che mi taglia i capelli, dice così, che l’abbiamo fatto. Ma sono già troppo lunghi, mi sa che li taglio quando vado per ritoccare il colore, pensavo già di farlo il mese scorso ma lui non ha voluto, ha sostenuto che il taglio “si è stabilizzato”. Beato lui, gli ho risposto.
Anche i miei, con i capelli, sono fissati. Non è solo roba da femmine. Adesso hanno la mania del ciuffo. L’umore della giornata dipende dalla stabilità del ciuffo. A volte mi rispondono in un modo che guarda, oppure gli dico cento volte di fare le cose e non le fanno, sai, io mica gli sto insegnando che non devono fare niente in casa perché sono maschi, anzi. Ci sto provando. Che sappiano tenere una casa pulita, preparare da mangiare, occuparsi della loro roba.
Brava! Io no…cioè, fanno per imitazione, ma per alcune cose sono autonome fin da piccolissime, per esempio la questione vestiti puliti e vestiti sporchi, cosa riporre, come riporre. Io lavo, loro mettono via. Se avessi avuto un figlio maschio sarebbe stato uno sbruffone, però avrei insistito di più di quanto faccia con le ragazze, avrei fatto come fai tu ma con meno allegria, comunque io figli maschi non ne volevo. Nemmeno ero sicura di volere le femmine. A tutti i miei amici arrivati ai quarant’anni senza figli io dico apertamente e chiaramente : non fateli. Lasciate perdere, non fateli, l’avete scampata. Cos’è questa cazzata dei figli che ti completano? Ma cosa? Ma chi? No, no, tu sei completo senza figli, guardati, sei tutto lì, dove ti metti stai, sai fin dove arrivano le tue estremità, fin dove puoi arrivare con il tuo fiato, sei intero e integro. Nel momento in cui questa situazione cambia e proliferi tu vai in pezzi. Guardami. Io sono disarticolata, lussata come una spalla, assumo posizioni innaturali ormai, sono calcificata. E pure tu. E tutti quelli come noi. Non fateli, coglioni. È arrivato un messaggio, scusa.
Tutto bene?
Sì. È altro. Altro. Come se io avessi ancora interesse per altro. Ieri la mamma di una compagna di Pepe mi parlava della guerra. Della terza guerra mondiale nel cuore dell’Europa. Wow. Annuivo. Ce le ho qui, le bombe. Stanno bombardando anche noi e forse non troveremo un rifugio, volevo dirle. E mi sento una stronza, perché guardo il mio male e non quello che accade agli altri. E poi mi ha detto qualcosa sulla primavera. Così, passa dalla guerra alla primavera come se fosse possibile un collegamento. Mi è insopportabile la primavera. La primavera è retorica, la primavera sostiene la teoria del “se vuoi puoi”. Ma vaffanculo. Non voglio fiorire. Non voglio sbocciare. Voglio sprofondare. Voglio essere sotterrata.
Gliel’hai detto?
No. Ho annuito. Mi ha fatto gli auguri per la festa della donna. Grazie, le ho risposto senza ricambiare.
È retorica anche la festa della donna?
Sì. È retorico Dio, è retorica la dottrina del “mammo”, è retorico il femminismo di femministe con il culo comodo, è retorico il nuoto come sport completo, è retorico l’asterisco con cui vogliono sostituire le vocali. Cazzo. Come lo pronuncio? Mi ribello a parole che non posso pronunciare fino alla fine. È retorico che qualunque motivo diventi una motivazione. Basta. Ditemi come devo chiamarvi, al femminile, al maschile, al plurale, cane gatto cavallo? Vi ci chiamo. Ma non sfracassateci l’esistenza con l’asterisco. L’asterisco è una roba da surgelati nel menù, indica che il prodotto non è fresco. La maestra di mio fratello, alle elementari, non so di quale paesino pugliese fosse originaria ma non finiva mai una parola. Mai. Immagina i dettati: “prendet la penn e scrivet”. Oppure, un amico di mio fratello, Dio, come si chiamava, lo chiamavamo con un vezzeggiativo, sai come Sonia-Sonietta, ecco, boh, non mi ricordo, facciamo che si chiamava Carlo-Carletto, lui era bravissimo a imitare Anna Oxa, si vestiva e parruccava uguale. Allora, immagina queste cene dove io ero l’unica eterosessuale, tipo un film di Ozpetek ma senza Accorsi.
Tu tipo Margherita Buy.
Tipo.
Più della Canalis.
Diversa.
Sì.
Ecco, Carletto non diceva il cucchiaio, ma la cucchiaia. Non diceva il giaccone ma la giaccona. Non diceva il piatto, ma la piatta. Volgeva tutto al femminile. Per ridere. Per dissacrare. Per uscire dalla retorica, perché se un nome ha un genere è solo quello, un nome con un genere. Perché il neutro indica le cose. Le cose. Come l’asterisco indica i prodotti surgelati. Poi, fate come cazzo vi pare. Io le parole le voglio pronunciare intere, le voglio finire, perché se non finiscono più nemmeno loro come possiamo finire noi? Io non userò mai l’asterisco. Asterisc.
È retorico se chiedo a mia madre di fare qualcosa con il suo gruppo di preghiera? Le vecchiette, lì, son tremende, sai. Quelle smuovono le montagne, pur di non ricevere più invocazioni vengono accontentate. E sono tante.
Lo farebbe?
Certo. Immagina un flusso costante di preghiere indirizzate.
Come se avessero il destinatario scritto sopra?
Sì.
Anche con un indirizzo inglese?
Non penso sia un problema.
Anche con un nome inglese?
Sì.
Pregano al posto mio?
Pregano. Non al posto di altri, loro pregano. Pregherebbero comunque.
Come le sarte che cuciono i corredi, con le iniziali di chi li commissiona?
Si.
Io ho solo lenzuola Ikea. O Bassetti. Però, sì. Grazie. Davvero. Non so cosa dire. Ringraziala da parte mia, non so se la incontro fuori da scuola, viene a prendere il piccolo ogni tanto?
No, ormai torna a casa da solo anche il piccolo, ma stai tranquilla. In generale, stai tranquilla. Le cose passano, si aggiustano, magari sono diverse dall’idea peggiore che ci siamo fatti, magari ci vuole un po’ di speranza, quella si può avere anche senza fede. E poi seguire il corso della vita, di più non possiamo fare.
Io voglio stare nel controviale, non nel corso. Nel controviale ci sono i semafori direzionali, i parcheggi, puoi fermarti, accostare, ti incolonni per svoltare e puoi svoltare, non tagli la strada a nessuno, vai meno veloce ma correre è retorico. Non voglio correre. Voglio accostare sotto un albero e capire se il dolore funziona come la felicità o al contrario. Ogni volta che sono felice penso che potrei essere più felice. Una mezza tacca in più. Ogni volta che sono addolorata penso che non potrei provare più dolore di quello che sento addosso, nemmeno un grammo in più.
E poi? Cosa succede la volta dopo?
Il dolore. È sempre più grande di quello precedente. Mi è presa la malinconia anche con la birra. Merda. Scusa.
Le scuse sono retoriche.
Sì.
Ti posso abbracciare.
Grazie.
I ringraziamenti sono retorici.
Fanculo.
Eccoti. Ti accompagno alla macchina, dov’è?
Nel controviale.

Concordo, la retorica è un male, ma è quasi inevitabile, si insinua dalle fessure ogni volta che la cacci fuori.
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