Una piccola madre e altre simili sciocchezze

Sono una persona paurosa, così gli ho scritto in un messaggio l’altro giorno, gli ho confessato qualcosa che già sa, nessuna nuova scoperta né per me né per Lui, ma il bisogno di dirlo, scriverlo, per formalizzarlo, per dire è così.  Sono una donna paurosa, ho pensato di me, prima di scriverlo a Lui, ecco perché metto spazio e tempo tra me e quel che vivo, tra me e quel che faccio, ecco perché arrivo prima e aspetto, aspetto sempre ho pensato mentre camminavo sul lungo Po, guardavo i cani senza guinzaglio camminare accanto al padrone, qualche irriducibile correre ben equipaggiato contro il freddo che stenta ad arrivare , dei ragazzini ridere in canoa incuranti dello sforzo, una ragazza con un passeggino canticchiare una ninnananna a un bambino sveglissimo, ho contato i miei passi, lo faccio quando sono nervosa, ho guardato l’ora e c’era ancora tempo prima della visita di cui avevo paura e non c’era motivo di averne solo che ancora non lo sapevo.

Ho piccole paure, arrivo a quelle un po’ più grandi quando si tratta della salute ma non tanto per me, non tanto su di me, più per le mie ragazze e per Lui, per le conseguenze.  Ho paura delle scale mobili, più in discesa che in salita. Degli ascensori. Di trovare insetti nella farina o vermi nella macchina del caffè, non so perché, non è mai successo, la lavo ogni giorno e penso sia impossibile che succeda e nonostante questo ne ho paura. La paura è sempre nonostante qualcosa che penso o che so. La paura abita il nonostante, per quel che mi riguarda. Ho paura di investire un cane, di citofonare e che nessuno risponda perché il citofono è guasto o perché ho sbagliato giorno. Ho paura che il bancomat si smagnetizzi. Ho paura di tagliare troppo i capelli, di rischiare di non piacermi per un po’, ancora, o peggio di non riconoscermi. Hai mai pensato alla frangia? Mi ha chiesto la parrucchiera. L’ho inventata io la frangia, le ho detto, quando ero bambina esisteva solo la frangia che ricresceva troppo e prima del resto e cadeva dentro gli occhiali, penzolava moscia lì, come fai a vedere con questa frangia così lunga mi dicevano e allora si andava a tagliare di nuovo e poi ricresceva troppo e sempre prima del resto e ricadeva dentro gli occhiali e tutta la storia si ripeteva sempre uguale a se stessa esattamente come fa la storia finché non si cambia un elemento. La frangia mi fa schifo, deponi la forbice parrucchiera, limitati a ciò che ti ho chiesto, è finito il tempo dell’osare senza pensare, lascia che io mi guardi con amore, ancora, che arrivare a farlo è stato un lungo viaggio.

Sono stata brusca, allora ho sorriso sperando di addolcire un po’ il tono. “È che hai questo modo tranchant di parlare”- mi ha detto qualcuno a cui raccontavo l’episodio pochi giorni fa- “ma è normale perché hai la Luna in Ariete”. Grazie, non lo sapevo. Per anni mi hanno detto che era il carattere di merda  e adesso scopro che c’è una spiegazione. Astrologica, va bene, ma che importa? Ho la Luna in Ariete, scansatevi tutti, mia madre mi ha messa al mondo a quell’ora e ha decretato ciò, bastava che partorisse in un’altra fascia oraria e invece no. Che significa, gli ho chiesto. Che sei un maschio alfa. Ma chi, io? Sì. No, guarda, questo no. Sono una donna paurosa, quale maschio alfa. Non sono nemmeno femminista, io. Non come sono femministe le donne che guai ad offrire la cena perché possono pagarsela da sole, non come sono femministe le donne che usano nomi maschili per le loro cariche, non come sono femministe le donne che forzano un sostantivo per declinarlo al femminile a tutti i costi. No, guarda, io sono cresciuta guardando la Signora Minù, che ne sai tu, quanti anni hai, quanti giri intorno al Sole hai compiuto caro esperto di astri? La signora Minù diventava piccola, piccolissima, lei e il suo cucchiaino.  Sono cresciuta guardando Strega per Amore, che ne puoi capire tu, quante volte hai immaginato di poter diventare così piccolo da stare dentro una lampada arredata in stile Maison du Monde con una coda svolazzante e la frangia(!) perfetta perculando un astronauta che chiami Padrone senza che nessuno davvero ci creda? Sono cresciuta immaginando di poter diventare piccola, piccolissima in caso di necessità e che solo così potevo fare quello che volevo, esattamente come quelle donne, mentre gli uomini restavano grandi, grandi e basta, persino un po’ ridicoli come tutte le cose grandi.

“Prenditi il tuo spazio, Sonia, non sei così piccola come pensi”. Questa frase me l’ha detta Enrica, quasi dieci anni fa. Ero su un futon, in abbigliamento comodo e calzettoni, tutto comprato per l’occasione perché nel mio guardaroba non c’era niente di simile. Era la prima lezione del Corso per diventare operatrice Shiatsu e non avevo mai toccato nessuno lungo tutto il corpo in quel modo, non avevo mai tenuto una testa tra le mani che non fosse quella delle mie figlie o di qualcuno che stringevo a me perchè non andasse via, Enrica è stata la mia insegnante, da allora ho tenuto tra le mani molte teste, ho contattato e toccato molti corpi, ho comprato molti calzettoni e ho capito la differenza tra sentirsi piccola ed essere piccola. Soprattutto ho imparato che nessuno è talmente grande da poterti fare sentire piccola. E se lo è, allora è anche talmente ridicolo da poter essere preso in giro senza paura o con una piccola paura. In ogni caso in modo tranchant.

Lo insegno alle mie ragazze ogni giorno da molti giorni, lo farò ancora ogni giorno per molti giorni, ma meno di quelli già spesi così. Arriverà il giorno in cui diventerò inutile, c’è un brano molto bello “la buona madre è quella che diventa inutile” , io sto lavorando in quella direzione, in quel senso. E sto lavorando per essere non una buona madre ma una madre buona, perché la posizione delle parole è importante quanto il tono con cui vengono pronunciate. E sto lavorando per diventare una piccola madre, di quelle che occupano poco spazio e che porti con te un po’ ovunque, un amuleto nel portafogli, il rossetto ferma al semaforo, una ditata sulle lenti degli occhiali che appanna appena ma ti permette di vedere, il prurito di una cicatrice prima che cambi il tempo, l’abilità di fare da soli le piccole cose di ogni giorno, la cautela nell’amore che prende il posto dell’impeto, la cura che arriva quando si ama da molto tempo, l’attenzione a non colpire, l’istinto di coprire anche se il freddo non è ancora arrivato, la conoscenza dell’altro che è come imparare a parlare, prima si impara ad ascoltare e solo dopo a parlare la conoscenza di se stessi che è come imparare a  scrivere, prima si impara a leggere e solo dopo a scrivere, la conoscenza che è come imparare a camminare, prima si impara a correre e solo dopo a camminare. E sto lavorando per diventare una  piccola madre, di quelle che non disturbano, che ti sembra di vederle per strada e non sono loro ma potrebbero, una battuta che fa ridere, un bicchiere di vino rosso, una ricetta che sai replicare senza sapere perché, l’occhio colorato del Daruma sulla mensola e non l’altro, quello da colorare, per ricordarti che non importa esaudire il desiderio o realizzare il progetto, importa avercelo un desiderio, averlo espresso, importa avercelo un progetto e impegnarsi. E sto lavorando per diventare una piccola madre, di quelle che puoi nascondere bene così nessuno te la ruba, un ricordo lontano ma vivo, un rito anche senza fede, un’ attesa contando i passi per fare qualcosa, ché attendere è un’azione che si fa da fermi altrimenti, una piccola paura che non era tua ma te la intesti e poi ne parlerai all’analista, una ninnananna che serve solo quando si è sveglissimi, altrimenti non è utile, una stella luminosa a cui guardare e va bene anche se forse è già morta che della morte non c’è da aver paura perché è grande e ridicola.

(E sto lavorando. Perché ho il Sole nella Vergine e pare che non possa fare altro che lavorare, nel mio piccolo.)

Lo imparo dalle mie ragazze ogni giorno da molti giorni, lo farò ancora ogni giorno per molti giorni, più di quelli già spesi così. E sto imparando ad essere una piccola madre, di quelle che sai non potranno mai farti male, un cerotto su un taglio, una sciarpa intorno al collo, la crema alla calendula sulla pelle irritata, una foto mossa perchè la vita è ferma solo quando si aspetta, la salute prima di tutto, un fazzoletto di stoffa ritrovato nel giaccone dopo un anno. E sto imparando ad essere una piccola madre, di quelle che le sposti facilmente, non pesano e non devi chiedere aiuto a nessuno, d’estate al sole e d’inverno al riparo, che basta poco, un po’ di luce e acqua quando vedi che il terriccio è proprio secco, non occorre il rinvaso e non farà fiori ma sarà sempre verde, che basta niente, davvero, per non farla gelare, un minimo di attenzione. E sto imparando ad essere una piccola madre, di quelle che non le vedi per un po’ e te le ritrovi un mattino dentro lo specchio, appena dopo esserti sciacquato il viso, prima di lavarti i denti, con la bocca un po’ aperta e il sopracciglio che mai si era alzato così prima, di quelle che inizi a mangiare o smetti di mangiare che robe da matti cambiare gusti alla tua età. E sto imparando a essere una piccola madre, di quelle che aspettano contando i passi per fare qualcosa, ché attendere è un’azione che si fa da fermi altrimenti, di quelle che hanno piccole paure anche se non ce n’è motivo, è che magari ancora non lo sanno.

(E sto imparando. Perchè ho Mercurio nella Vergine e pare che non possa fare altro che imparare, nel mio piccolo.)

Da queste parti

Sono andata via, non ho nemmeno bevuto il mio tè bancha, ho lasciato la borsa e i documenti e l’auto con le chiavi nel quadro in garage e le chiavi  di casa quelle le ho proprio scaraventate sul pavimento e lo stesso ho fatto con il telefono e vaffanculo ho detto, vaffanculo a tutte e due e a me che vi ho fatte, mi sono infilata le scarpe e ho preso il piumino, quello rosa che non è proprio rosa, ma è un colore molto tenue, Lui dice che è dorato, io mi innervosisco ogni volta che lo dice perché non è dorato e ho preso il cappello di Borbonese, per la pioggia, quello che mi ha regalato Lui dopo l’ecografia in cui ci hanno confermato che Cristina era una femmina e io scoppiavo di felicità dentro i pantaloni premaman, ho messo il cappello perché pioveva, pioveva che Dio la mandava giù davvero, pioveva come piace a me che piove davvero, non quelle pisciatelle stupide con la gente che piagnucola blaterando di pioggia battente, tutti che partono con la tiritera della pioggia battente. Vaffanculo anche a loro, anche a voi, so io cosa vi batterei e dove. Sono andata via al culmine di una scena madre che se si dice così un motivo c’è, ho urlato e pure menato, le ho colpite sulle braccia, non ho mai dato uno schiaffo, mai. Però ho menato le braccia, due o tre colpi a testa mentre recriminavo, mentre imprecavo, piccole ingrate che non siete altro, ho menato e sembravo una bambina che colpisce i genitori, sono così alte e inarrivabili ormai, eppure sembravo comunque una madre che colpisce come colpiscono le madri, nodose. Dolorose.   Pioveva una pioggia insistente, una pioggia che puoi scambiarla per un’abluzione rituale se ti infili un cappello ed esci senza niente perchè niente ti serve.

Sono andata via sotto la pioggia insistente perché hanno iniziato a discutere tra loro, ancora, di nuovo, per l’ennesima volta. Ieri. Che era giovedì. Il giovedì non devono discutere. Il venerdì possono mangiare carne e il sabato lavorare, possono fare tutto quello che vogliono, possono fare tutti quei rumori che i corpi di giovani donne producono in casa, possono chiudere le porte, far scattare le serrature, aprire il rubinetto dell’acqua calda più e più volte, accendere il phon, mettere musica, porre domande imbarazzanti ad Alexa, far singhiozzare il frigorifero a furia di aprirlo senza motivo, lasciare scorrere i cassetti nelle guide con quel sibilo struggente di animale morente, lasciare la tv accesa e dimenticarsene. Possono fare quello che vogliono. Ma non il giovedì. Il giovedì non si litiga, non si discute per ogni cazzata, il giovedì tutto è una cazzata per mia decisione insindacabile. Il giovedì è come se io mi muovessi  con il trespolo dell’ossigeno, con il catetere che raccoglie le urine e le espone alla vista di chi c’è, è come se fossi ricoperta di tubi e tubicini che mi permettono di respirare e funzionare un po’. Il giovedì affronto l’abisso e quando torno sono sfinita e allora non si dicute, non si dicono parole inutili, tutte le parole sono inutili il giovedì per mia decisione insindacabile. Sono andata via perché sono sedici anni che progetto di farlo almeno una volta al giorno e almeno una volta al giorno l’ho sempre fatto senza che nessuno se ne accorgesse.  Sono andata via ogni volta in cui ho aspettato un momento prima di scendere dall’auto e prenderle da qualche parte. Sono andata via ogni volta che mi sono chiusa a chiave in bagno e mi sono seduta sul bordo della vasca a guardarmi nello specchio. Sono andata via ogni volta che ho lasciato un biglietto amoroso nel quale promettevo rientri veloci. Sono andata via ogni volta che ho cercato un nuovo lavoro, ogni volta che mi sono iscritta a un corso di formazione o di aggiornamento, ogni volta che ho detto al cane “meno male che ci sei tu”.

Camminare sotto la pioggia, solo questo, volevo solo questo, sbollire, mettere distanza tra me e le parole crudeli che avrei usato, volevo fermarmi un attimo prima di fare male, volevo solo creare distanza, uno iato, un respiro più lungo nel quale rilassarmi. Ho pensato di non tornare, certo. Il primo pensiero. Poi mi sono detta: cazzo Sonia, è giovedì, la puntata di Chi l’ha visto è andata in onda ieri e ho pensato alla mamma di Ceci: la mamma di Ceci lo guarda sempre, io no, non lo guardo mai ma lei dice che è uno spaccato sociologico interessante e allora mi sono immaginata la mamma di Ceci sul suo divano che porta una mano al viso e dice ma questa che cercano è la mamma di Benny, ma comunque mercoledì prossimo ormai. Per la mamma di Ceci io sono la mamma di Benny. La chiamano così, fuori. Noi dentro la chiamiamo Pepe e io mi confondo sempre, parlo di Pepe e dico di Pepe e racconto di Pepe e alla fine le persone mi chiedono ma chi è Pepe, ah, Benny. Come volete, pure voi. Ho pensato di non tornare, certo. Il primo pensiero e dopo il secondo riferito alla mamma di Ceci mi sono immaginata di essere ritrovata così com’ero uscita, che insomma, dall’incazzatura repentina che mi è montata su ho infilato il piumino, quello rosa che non è proprio rosa ma sotto avevo già messo il maglione che uso per stare a casa. Rosso. E spuntava anche un po’ dal piumino. E le scarpe. Presa dall’incazzatura mi sono infilata gli anfibi senza le calze perché io a casa non porto le calze e nemmeno fuori, le ho abolite, basta calze, mi ribello alle calze, non sopporto le calze, le uso solo quando mi alleno e quando dormo. Sì. Dormo con le calze, ma non è questo il punto. Se mi succede qualcosa, mi sono detta, mi ritrovano con gli anfibi e senza calze, con un maglione rosso che spunta da un piumino rosa, più o meno rosa, così, senza documenti che se dovessero chiedere a Lui di riconoscermi direbbe no, perché Lei ha un piumino dorato. E mi sono immaginata le amiche e gli amici di Cri che a volte quando stanno insieme dicono “ma parliamo un momento di quanto è figa la mamma di Cri”. Così dicono, questi matti, che mi è venuto da chiamarli e dirgli allora, guardate adesso, con la pioggia insistente che mi batte sulle spalle, con le mani in tasca e lo sguardo a terra, con il nervoso che non spurga nemmeno così, nemmeno se parto per il cammino di Santiago, guardate adesso che schivo le pozzanghere e i pensieri dolorosi allo stesso modo, i ricordi dai quali non guarisco, le mancanze che non riesco a colmare da sola, guardate adesso che vago sotto la pioggia e c’è ancora chi pensa che ad essersene andata sia la mamma di Cri e di Pepe e invece è Sonia che se n’è andata per ritrovarsi in qualche posto dove si arriva solo a piedi, è Sonia che cerca modi per sopravvivere, è Sonia che cerca, cerca, cerca perché ha il sistema motivazionale dell’esplorazione predominante. È Sonia. Quella che ha il cuscino sporco di mascara. E l’accappatoio azzurro Tiffany, lo voleva verde acido ma non c’era della sua taglia allora ha lasciato che lo prendesse Lui di quel colore perché, in fondo, le metteva allegria l’idea di vedere quella tinta in bagno e allora che fosse il suo accappatoio o quello di Lui poco cambiava e in quel momento ha capito qualcosa di più sul senso del matrimonio. Del suo, per carità, non di tutti i matrimoni. È Sonia, perché la mamma di Cri e Pepe dove volete che vada, cosa volete che faccia senza quelle due piccole ingrate, immense facce da culo, cosa volete che dica e a chi volete che lo dica senza una versione di latino su cui intervenire e la ricerca di un nominativo introvabile e cosa dico alla professoressa, dai, se ne accorge che non posso averlo trovato da sola e tu dille che c’è dentro un po’ di tigna e un po’ di culo che li hai presi da mamma e papà, indovinate da chi la tigna e da chi il culo. Dove volete che vada la mamma di Cri e Pepe, al massimo fa il giro dell’isolato e se proprio si spinge più in là è per recuperare Sonia, adesso che sta in pensiero anche per lei se non la vede tornare, adesso che le hanno dato il compito di parlarle come parla alle sue ragazze, di menargli pure se è il caso ma di fare esattamente come fa con le sue ragazze, di guardarla con lo stesso amore, di accoglierla e di non farle pesare tutti i pezzi in cui è rotta, tutte le volte in cui si inceppa, magari si aggiusterà, magari no, ma si può provare a farla funzionare lo stesso. Ci vuole un po’ di tigna e un po’ di culo.

E poi la pioggia si è indebolita, come fiaccata, forse stufa. Poche goccioline, ho tirato su il viso per vedere se mi bagnavo ma c’erano solo le lacrime di rabbia ferme agli angoli degli occhi, forse un po’ di mascara colato, il naso rosso per il freddo ma pioggia poca. Ho tirato fuori la lingua e non ho sentito nessuna goccia. Ho tirato fuori le mani dalle tasche e ho aperto i palmi verso il cielo come certe anziane quando pregano inginocchiate al primo banco e niente nemmeno così. Ho preso la strada del ritorno, con calma, con più calma di quanta calma volessi usare, a ogni passo un respiro a ogni respiro un soffio a ogni soffio uno sbuffo a ogni sbuffo un passo a ogni passo un respiro a ogni respiro un soffio a ogni soffio uno sbuffo a ogni sbuffo un passo fino al citofono, cognome di Lui, cognome mio, quattro lettere, sei lettere per totali dieci lettere, dieci è un bel numero ho pensato, ho suonato e non mi hanno aperto e mi sono incazzata e allora ho suonato di nuovo una scampanellata lunga che la sentono anche sotto il casco della parrucchiera altro che phon e chissà se esistono ancora i caschi dalla parrucchiera, dal mio non li ho più visti e allora mi hanno aperto e nel vialetto ho incontrato il vicino che usciva per andare a buttare la spazzatura, io non la butto mai la spazzatura, a casa nostra la butta sempre Lui e svuota anche il tappo del lavabo in cucina dai residui perché io lavo e pulisco ma quello mi fa sempre un po’ schifo e lo faccio proprio solo se vedo che non lo fa Lui che comunque è molto bravo e lo fa con una certa continuità e il matrimonio è fatto di queste cose, penso io, il mio matrimonio per carità, mica tutti i matrimoni. Il vicino sorride sempre e io lo ammiro per questo perché sorride davvero, sorride genuino e io a volte mi esercito ma non riesco a sorridere sempre, la mamma di Cri e Pepe in questo è molto più brava, lei sorride spesso e ride molto. “Sonia”, mi ha chiamata e l’ho guardato perché penso che in due anni sia la prima volta che usa il mio nome e mi è venuto da guardarmi alle spalle perché ho avuto il dubbio per un attimo di non essere io come quando mio padre mi ha mandato gli auguri di compleanno il giorno prima e prima di rispondergli per correggerlo io comunque ho controllato la data e poi ho messo in discussione per un momento 44 anni di certificati, ecco per un attimo ho pensato di non essere Sonia, non completamente e invece lui aveva solo pronunciato il mio nome che è il modo con il quale i consociati e i condomini e le persone in genere usano appellarsi e niente mi ha offerto del cavolo nero. Che coltiva lui. Senza niente. Senza pesticidi o niente, senza robe non previste dalla natura del cavolo nero. E ho accettato e allora mi ha portato questo sacchetto di carta con dentro il cavolo nero a kilometro zero già lavato e ho ringraziato, davvero, grazie mille, che meraviglia che ti occupi anche di questo e ti viene in mente di offrirmelo e mi sorridi e scusa adesso rientro, ho un maglione rosso che spunta dal piumino e i piedi scalzi raggrinziti negli anfibi e devo sbollentare il tuo cavolo , ho sbollito il nervoso, è giovedì ma niente gnocchi, fatico a respirare e non voglio sentire rumori, mi viene da piangere un po’ di più il giovedì, è così, adesso rientro, perché ero andata via ma mica per davvero.