Avvisi e divieti (2023)

Alle 4.40 del 4 gennaio mi è stato chiaro che non mi sarei riaddormentata, forse mai più, e pertanto potevo arrendermi, smettere di lottare con il piumone, i cuscini, le lenzuola e persino con i pensieri, lasciando che mi prendessero in ostaggio, alzarmi in segno di resa come quando ti colpiscono a palla prigioniera, e che la tristezza delle 4.40 suona in modo dolce, soprattutto se è il 4, tutta un’altra tristezza da quella che coglie alle 3.30, per dire, più aguzza, più appuntita.

Quando si è molto tristi, dice Merlino a Semola in una scena de La Spada nella Roccia, non c’è che una cosa da fare: imparare qualcosa. Nei primi tre giorni dell’anno ho chiesto informazioni per cinque corsi e due master, con il Lupo che mi vive dietro lo sterno in stato di allerta, preoccupato del mio restare in pigiama ma ancora di più dell’interessamento tutto nuovo per un corso di Ikebana, mi ha ricordato che con i fiori e con le piante vivi forse è meglio che io eviti un contatto diretto e che, in fondo, con il pigiama sono carina. Quando ho proposto il corso di Kintsugi mi ha detto che funziona solo con il ciotolame e che, in fondo, anche con tutte le mie ferite aperte sono carina.

Ha lavorato moltissimo in questi primi giorni,il Lupo, esattamente come nell’anno appena trascorso durante il quale ho letto 60 libri, ho portato a termine 120 allenamenti e ho tenuto in servizio il Lupo dietro lo sterno pe circa 360 giorni.  Lupus sanus in corpore sano.  Che poi, a dover dire il perché mica lo so. Della tristezza, intendo. Mi è presa così, come certe ubriacature quando ti prendono male e diventi molesta e lagnosa, do la colpa all’anno che è terminato, uno dei più faticosi e brutti da quando ho memoria e quindi da molto tempo. Ma non faccio bilanci, per quello c’è la commercialista. E non faccio pronostici, per quello c’è l’astrologo. Sui propositi ho già detto come la penso, mi annoia anche solo la parola. Rimugino nella mia tristezza, la esploro fino in fondo e lascio che faccia un po’ come le pare.

Quando sono molto triste la sola cosa che mi riesce di fare è camminare. Non con il pigiama. Il cane è il mio salvavita, mi costringe a uscire. Nel nostro percorso quotidiano c’è la tappa ai giardini, quelli della mia infanzia, sotto casa dei nonni, lì ci sono due rocce tra le panchine. Non ne ho mai capito il significato, in realtà non me lo sono chiesto fino a quando non ci sono tornata da adulta, con il cane. Ho una foto tra quelle due rocce, scattata da un mio zio, una delle poche cose carine che gli riconosco nei miei confronti, la foto è venuta bene per essere una foto della prima metà degli anni Ottanta. Quella foto è nel mio salotto e non so perché, ce l’ho messa io ma non so perché. Le foto di quando sono bambina non mi piacciono mai. Mi vedo e non mi riconosco nell’intero, solo nei dettagli, nei pezzi: la frangetta, i capelli così biondi da dover essere giustificati in famiglia, il sorriso forzato di chi vorrebbe essere altrove ma non può, l’occhio strabico che disorienta. Mi facevano togliere gli occhiali per essere fotografata, non so se per evitare un effetto del flash oppure se perché c’era lo stigma dell’occhiale e così sono rarissime le mie foto nelle quali mi riconosco davvero, perché io mi vedevo solo con gli occhiali, se li toglievo non vedevo e quindi non mi vedevo. Alle mie figlie non verrebbe mai in mente di togliere gli occhiali per farsi fotografare e io penso che, forse, loro sapranno sempre riconoscersi senza bisogno di andarsi a recuperare componendo pezzi e pezzetti. Il cane non fa mai la pipì contro quelle due rocce, non mi va.

L’idea di ricominciare con i ritmi pieni dalla prossima settimana, mi sono detta. Sicuramente quello concorre a determinare la mia tristezza che è sempre un po’ un misto di stanchezza e insoddisfazione, un vapore acquoso e grigiastro che non è pioggia e non è  nebbia, che sai cosa non è e non sai cos’è, di certo c’è solo che è grigio e che è giusto così, mica può essere tutto bianco o nero, sono nell’età del grigio. Grigi i capelli che crescono, grigio il Lupo dietro lo sterno, grigio il cappotto sotto il quale lo nascondo. “La vedo grigia” è un’espressione abbastanza usuale di mia madre. È tutto grigio. L’idea che tutto mi costa di più, dopo lo scorso anno, anche solo stare in piedi e fornire indicazioni minime: dov’è il tubetto di dentifricio nuovo, la maglia termica è stesa, a pranzo la pasta al pomodoro che non si sbaglia mai. Sono aumentati i pedaggi per entrare nei miei pensieri, per percorrerli e ci sono cantieri, lavori a non finire, restringimenti di carreggiata soprattutto di notte, sono stati abbassati i limiti di velocità perché si creavano troppi incidenti e no, non erano dovuti alla distrazione e  l’ aumento del carburante, quelli che vanno avanti a rabbia ne sanno qualcosa. L’idea di perdere la barra di comando se cambio un solo elemento e di non essere in grado di riprenderla e di non sapere più fare tutto quello che c’è da fare o , peggio, di non aver più voglia di fare tutto quello che c’è da fare ma c’è una rotta da seguire anche se mi sento come Ifigenia quando le hanno detto che, alla fine, suo padre ci andava a combattere a Troia, stava solo cercando un modo per propiziarsi mare e vento.

Alle 4.40 del 4 gennaio mi è stato chiaro che avrei dovuto segnalare nuovi divieti e  nuove avvertenze. A cominciare dal sottofondo quando sono sola in casa, niente più telegiornale di Sky tg24 ma maratona di Harry Potter e basta perché non sono in grado di ascoltare i nomi dell’attuale governo in continuazione, molto più credibile il Ministero della Magia. Poi, interdire l’accesso alla lavanderia ai non addetti perché quella è la stanza del mio piagnisteo, che ciascuno si trovi il proprio luogo deputato. Intendo vietare anche l’uso della locuzione “è un periodo” riferito a qualsivoglia avvenimento, lo sostituiremo con un più onesto “è la vita”, perché è esattamente quello che è tutto questo cadere, rialzarsi, venire colpito, colpire, schivare, abbassarsi, adottare la strategia dell’opossum, ripetere da principio come un circuito di allenamento, due giri di ripetizioni e il terzo giro a tempo cercando di infilare quante più ripetizioni in quel tempo e portate il battito al massimo e lasciarlo abbassare, bere un goccio d’acqua per togliere il sapore ferroso dalla bocca e poi da capo, per lo stretching ci sarà tempo alla fine.  È la vita, dico al Lupo e così si acquieta.

Quando sono molto triste e cammino a lungo succede sempre che mi ricordo qualcosa che poi mi fa sorridere o piangere o tutte e due le cose insieme e non che mi faccia passare la tristezza ma è come se mi ci facesse camminare sopra senza la paura di farmi male, come quando ero bambina e papà, d’estate,  portava me e mio fratello ai tappeti elastici e potevamo saltare e cadere senza pericolo, lui entrava insieme a noi a volte ed era capace di fare un balzo altissimo e tornare giù dritto perfetto , mamma no, aspettava fuori e controllava i sandali, che nessuno li confondesse con i propri e ci sorrideva da dietro la rete, con la sigaretta tra le mani e le gambe abbronzate. Ieri, durante la passeggiata con il cane,  sono arrivata alle rocce e diversamente dal solito mi sono seduta sulla panchina più vicina e ci ho appoggiato i piedi sopra.

Tutte le donne del ramo materno, mi sono detta. È sempre lì che affondo la mia tristezza da quando ero una morula aggrappata alla cavità uterina di mia madre, quarantacinque anni in questi giorni ed è sempre lì che cerco il suo rimedio, in quelle frasi che metto insieme come tanti pezzetti, per vedermi, per riconoscermi, per darmi le indicazioni di cui ho bisogno mai come adesso. Mia madre dice sempre “parente di mio parente a me non viene niente” che è il discrimine per interessarsi o meno alle vicende di famiglia, dai battesimi ai funerali passando per i matrimoni, mio padre torna a casa con la notizia dell’invito da qualche parte e lei applica questa semplice regola logica per decidere se è tenuta o meno ad accettare. La mia bisnonna diceva “se non è netto è freschetto” che significa pace, anche se non è pulito come vorresti almeno è rinfrescato, fatti bastare quello che puoi fare, va bene. Mia nonna diceva “il monaco buono non esce dal convento”, che significa stai attenta a quello che sembra un affare, perché se davvero lo fosse resterebbe dov’è, se il monaco valesse davvero quel che dicono resterebbe in convento a fare il suo, non lo troveresti in giro in cerca di collocazione. Mia zia adotta il parametro delle dimensioni del culo. Il culone è pericoloso, bisogna stare lontano dai culoni perché non si rendono conto dei danni che sono in grado di provocare. Quando mio nonno era ricoverato in terapia intensiva, prossimo alla morte, hanno fatto entrare a turno ciascuno di noi nipoti per un ultimo saluto. Lui non era cosciente ma noi sì e quindi tutti in coda come per le centomila a Natale siamo entrati a turno. Mia zia in qualità di primogenita e camerlengo coordinava ingressi e uscite, faceva entrare il nipote, due parole, usciva lei e poi rientrava per fare cenno che toccava a chi c’era dopo. Quando è toccato a me sono entrata e quasi non l’ho riconosciuto quel piccolo uomo in quel letto attaccato con tubi e tubicini a dei macchinari, ho dovuto osservarlo nei dettagli, nei pezzi del viso, il naso grande, le sopracciglia, il mento e ricomporre l’immagine intera per decidere che sì, si trattava di lui. Mia zia gli accarezzava la mano piena di ecchimosi ricoperta da cerotti e aghi e piangeva, quanto piangeva mentre sussurrava hai visto che bello il nonno, sai che sta morendo il nonno, non ce la fa il mio papà, non ce la fa questa volta, hai visto che bello e io annuivo e poi scuotevo la testa e poi annuivo e piangevo anche io ma senza fare altro, senza parlare. In quel momento si è avvicinata un’infermiera per ricordarci che è ammesso un solo parente alla volta e allora mia zia, in lacrime, fa cenno di aver capito e poi la guarda mentre questa si gira di scatto e si allontana dal monitor dove delle linee verdi segnano che è ancora vivo e strabuzzando gli occhi zia diventa serissima e mi chiede “ma è legale fare lavorare in questo reparto una con un culone tanto grosso?”, io impiego qualche secondo a capire la domanda e a capire che si aspetta davvero una risposta da me. Confermo, è legale. “non dovrebbe esserlo, perché questa con un colpo di culone stacca qualche filo, qualche cavo e i cristiani muoiono per colpa del suo culone”, poi ancora scandalizzata è uscita e mi ha lasciata sola con lui che era impassibile e allora sono stata certa che si trattasse di mio nonno.  

Alle 4.40 del pomeriggio del 4 gennaio ero seduta su una panchina con i piedi appoggiati ad una roccia e raccontavo a una bambina bionda cosa è accaduto dopo, in quella stanza della terapia intensiva quando sono rimasta sola con il nonno, tanto sono passati più di dieci anni e ormai interessa a pochi, forse a nessuno. Per prima cosa ho controllato il monitor, perché in effetti con quel culone non si sa mai. Ho appoggiato la mano sulla sua senza portare peso, gli ho detto che le bambine erano a casa con il papà, avevano quasi finito l’asilo e c’era aria di vacanze e di mare. Poi, sussurrandogli “veniamo a noi”, ho coniugato al presente indicativo il verbo essere in greco, prima, seconda e terza singolare, seconda e terza duale, prima, seconda e terza plurale. A quel punto gli ho detto che ci avevo pensato a lungo e che mi trovavo d’accordo con Parmenide per quella storia dell’essere che non può che essere. Infine, ho gli ho sussurrato l’art.2697 del Codice civile che è il faro della mia navigazione. Esattamente quello di cui parlavamo io e lui quando restavamo soli. Un attimo prima che mia zia rientrasse l’ho salutato per sempre e ho lasciato il posto a chi aspettava dietro di me. La bambina bionda è rimasta in silenzio, penso che abbia paura di balbettare e quindi preferisce stare zitta anche se di cose da dire ne avrebbe. Non importa, sai, se non è netto è freschetto le ho detto. Poi le ho confessato di aver dimenticato il verbo essere in greco e tutti gli altri verbi, riesco ancora a leggerlo ma basta, non vado oltre. È che a un certo punto serve spazio e a qualcosa si deve rinunciare. Sai che ci assomigli a Semola, quello della spada nella roccia, sei la bimba nella roccia, la prendo in giro, anzi sei la bimba di roccia e così le strappo un sorriso. Facciamo così, le prometto, quest’anno mi impegno a sollevarti e portarti via da qui, non so quando, nessuno lo sa, ma mi sembra di allenarmi solo per quel momento.

La Bimba nella roccia.Giardino Kranji-Rivoli.