Ho fatto tredici

Al tredicesimo giorno di isolamento non distinguo più il positivo dal negativo, come quando devo inserire le pile nel telecomando, mica sostituirle, no, io le tolgo, le rimetto e così funziona di nuovo. Al tredicesimo giorno di isolamento, ammetto, non sono mai stata isolata. Come fa una madre a isolarsi? In lavanderia, è quello il solo spazio, avrei dovuto segnalare che sì, avrei osservato l’isolamento presso il mio domicilio ma nel vano lavanderia, seduta sullo sgabellino sghembo osservando il timer del display della lavatrice, sorprendendomi della lunghezza di cinque minuti quando li osservi da dentro.

Al tredicesimo giorno di isolamento osservo solo da dentro.

Il lupo che mi vive dietro lo sterno è sveglio, attento, scattante direi. Il dolore in qualche regione situata dietro le costole o tra le costole lo ha infastidito da subito e ha smesso di dormire. Risponde alle mie domande, fa da filtro, scarta i pensieri che non devono arrivare, chiude la porta, spegne la luce, controlla le finestre. Armeggia con cuscini e nastro adesivo per gli spifferi, qualcosa passa comunque, ma so che non può fare più di quello che fa per non espormi ad altro.

Quando sto tanto dentro arriva sempre, l’altro.

Al tredicesimo giorno di isolamento mi mancano gli allenamenti ma mi mancano anche il fiato e le forze. Mi mancano la voce di Stefano che conta le ripetizioni, i muscoli affaticati, la sensazione di aver fatto tutto e tutto bene, al massimo, al meglio. Ogni tanto mi manda un messaggio per sapere come sto, io dimentico il cellulare in giro per casa, Lui me lo porta e mi dice che mi ha scritto Stefanino, come lo chiamo io quando parlo di lui, con una tenerezza che riservo a pochi, Lui lo sa per quello mi fa il verso.

Con il lupo abbiamo inventato un gioco che è un lungo elenco e forse anche una poesia, ogni giorno aggiungiamo un pezzo, lo abbiamo chiamato Ringraziare desidero, perché anche i giochi hanno diritto a un nome altrimenti poi non sai di cosa si tratta. Anche le poesie. Gli elenchi non lo so, forse loro no.

Ringraziare desidero per aver sposato Lui, che fra tanti che ne siamo al mondo potevo anche confondermi e  sbagliare, questione di attimi. In isolamento aver sposato il tuo migliore amico fa la differenza. Anche il ragazzo che ti piace da impazzire. Si chiama crush, mi ha detto Pepe. Lui è il mio crush, insomma. Sembra un’onomatopea, ho obiettato, come quando qualcosa si rompe. O anche una di quelle cose da test informatico sui livelli di sicurezza nella protezione da attacchi esterni. No, è solo per dire che hai una cotta, mi ha confermato.

Al tredicesimo giorno di isolamento ho voglia del mio isolamento in ufficio per un numero minimo di ore, circa cinque o sei, nelle quali sono sola, completamente sola, così sola che nessuno apre la porta ogni minuto e mezzo o mi chiede qualcosa dall’altra stanza e io non capisco e allora non è che si alzano e vengono dove sono io per dirmela da vicino, no, urlano e non capisco lo stesso e allora urlano in due, il primo e quello che ha capito e io non sento ancora e allora urlano in tre e se non mi alzo io allora potremo andare all’infinito.

Ringraziare desidero per il modo in cui Lui pronuncia il mio nome quando parla di me al telefono. Mi sembra un nome nuovo, appena imposto, come se mi battezzasse ogni volta, come se capissi di cosa si tratta, quando si parla di me.

Al tredicesimo giorno di isolamento non so se fa freddo o caldo, se pioverà o se la neve si è già sciolta tutta in montagna, se la primavera arriverà e allora l’inverno finirà presto, se i desideri sono quello che chiedi di ottenere o ciò che speri di preservare, se le mie ragazze sono felici di vivere con me, se avranno più ricordi felici o più ricordi tristi, se mi assoceranno a una risata o se faranno smorfie quando parleranno di me, non so se ci sono tanti modi per dire mamma, se uno è meglio di un altro, se c’è un modo che vuol dire mamma come qualcosa di solo bello. Al tredicesimo giorno racconto pezzetti di quando erano piccole, cose piccole di bambine piccole, che a guardarle ora non sembra possibile sia stato tutto così, per davvero, eppure non invento, giuro, dico mentre ridiamo, giuro che è vero, quella volta che Pepe mi ha spiegato la differenza tra il bene e il male all’uscita dall’asilo: arriva un angioletto bravo a suggerirti nell’orecchio cosa fare e allora fai bene. E quando il giorno dopo ha fatto male a sua sorella e l’ho sgridata, Pepe che cazzo, e l’angioletto? Che ti ha detto l’angioletto? Mamma, è arrivato prima quello cattivo. Quella volta che era un venerdì e lei aveva dimenticato nell’armadietto della scuola a copertina dudù, che ancora ci dorme, guai a chi la tocca e ce ne siamo accorte alle 18.30, ad asilo chiuso e abbiamo bruciato semafori mentre chiedevamo la cortesia, al telefono con la portineria della scuola, aspettateci, aspettaci un attimo, prendiamo la copertina rosa e andiamo via, roba di secondi e ci hanno detto che la comunità dei Fratelli si stava ritirando per il Rosario e allora ho assicurato che avrei fatto scendere Cristo dalla croce per aprirmi il portone e ci hanno aspettate e tutto è andato bene.

Ringraziare desidero per il tempo felpato, i sogni all’alba che entrano nella giornata e non restano nella notte, per la tazza termica della tisana, per il terzo libro che sto leggendo, per l’assenza di gravità delle situazioni perché prima la salute e poi il resto, per la me che dimentico in giro e quando la ritrovo è una vecchia amica, per le pagine bianche e i fogli di recupero quando sbagli a stampare, per la stanchezza che adesso si può dire fatigue e cambiando il nome sembra si tratti di altro, per i miei cani che in due si ingegnano su come aprire  le porte per vedere dove sono.

Al tredicesimo giorno di isolamento bevo meno caffè, lavoro quando riesco, patteggio con il senso di colpa e archivio il senso del dovere, non indugio davanti allo specchio, mi vedo chiaramente. Con il lupo contiamo i pezzetti come facevo con le bambine: qui c’è un nasino e lì c’è la boccuccia, due sono le orecchie e questi gli occhietti belli. Gli chiedo di contare per me, come fa Stefano quando mi allena, così posso distrarmi, posso pensare ad altro e lui non vuole, non lo fa, non vuole l’altro, quello che arriva quando sto tanto dentro, così tanto da non dovermi guardare per vedermi, che mi basta aprire il palmo della mano perché ci sia tutto riflesso, il nasone e gli occhi pesti, la bocca screpolata e le orecchie guaste, le righe in su e in giù, i segni del tempo quando non è stato felpato, i segni del tempo quando ho riso, i segni del tempo quando non lo contavamo. Resto con la mano aperta e la poggio sulla sua fronte.

Ringraziare desidero per aver tanto amato, mi sembra di aver ballato a una grande festa, ho volteggiato e non sapevo i passi e non andavo a tempo e non seguivo il ritmo e mi sono lasciata condurre e ho pestato qualche piede e qualcuno mi ha lasciata in mezzo alla pista e qualcuno mi ha invitata e qualcuno mi ha stretta senza chiedere e qualcuno si è stancato e qualcuno è rimasto sullo sfondo con un bicchiere in mano ad aspettarmi per un po’ o per molto ma io ho ballato, sempre, per tutta la festa e ancora ballo, anche con il fiatone, ancora adesso che la festa è la mia e conosco il deejay, è il mio crush.

Al tredicesimo giorno di isolamento mi dispiace per le mie ragazze quando capiscono che  vorrei non ci fossero sempre, in ogni momento, in ogni angolo, in ogni stanza, ad ogni pasto. Sempre e ovunque. Eccola, mi dico, la crepa nella devozione, la smagliatura sulla pelle liscia, ecco il buco nella trama, lo strappo rattoppato, eccola, mi dico, eccoti, eccomi. Al tredicesimo giorno di isolamento mi dispiace per le mie ragazze quando vago per casa elemosinando attenzione, conferme, rassicurazioni, quanto bene a mamma, quanto bene a mamma, tanto?  Sì, preparo quello che mi chiedi ma quanto bene mi vuoi? Tanto? Tantissimo? Eccola, mi dico, la questione irrisolta, il nodo da sciogliere, il riscatto da pagare, eccolo, mi dico il pegno richiesto, la paura più grande, l’incredulità di un’atea quando avviene il miracolo.

Ringraziare desidero per essere tanto amata, per l’ambivalenza dei sentimenti, per la positività che è indicata da una croce, robe da fedeli o analfabeti, per la negatività che è indicata da un trattino, roba da elenchi senza nome, per il lupo che mi protegge dagli attacchi esterni, per tutti i pezzi che nella conta non ho ritrovato, per quelli che ha preso Lui dopo averli rotti, ringraziare desidero perché funziono lo stesso, per i pezzi che non si trovano più e non so dove siano finiti o se qualcuno li ha tenuti, ringraziare desidero perché non mi servono più.

Ringraziare desidero Roby per la foto sul suo futon, dopo un trattamento shiatsu qualche settimana fa.

In conclusione

Ho un biglietto chiuso in una busta sul fondo della borsa nera sul ripiano dello scrittoio all’ingresso. È lì da sabato pomeriggio. Lo scrittoio all’ingresso era del padre di Lui, dovrei dire mio suocero ma non avendolo conosciuto non mi riesce, la borsa nera è mia, regalo di Lui, un regalo senza occasione, il biglietto nella busta è indirizzato a me, la grafia sulla busta è di mio padre che, poi, è chi me l’ha dato dicendomi di leggerlo perché si era impegnato per scriverlo. Non l’ho letto. Ancora. Forse perché mi ha chiesto, detto, di farlo, forse perché potrebbe esserci scritto di tutto, da un ti amo a un vaffanculo attraverso tutti i casi in cui si declina il nostro volerci bene, dispettoso, guerrafondaio, ricattatorio,  stupido, onesto. Non l’ho letto. Ancora. Perché è inverno, mi sono detta e mi è sembrato bastevole.

È tornato un sogno che per un periodo è stato ricorrente e rincorrente, mi agguantava nonostante i miei tentativi di scappare, seppur con il fiatone arrivava sempre, circa quattro anni fa, quando la scena della nostra tranquilla esistenza si è riempita di personaggi folli da arginare ed essendo sola, profondamente sola, a farlo mi sono inventata per loro nomi che mi facessero ridere e che mettessero in ridicolo quelle loro caratteristiche orrende. Nel sogno ho un brufolo tra il rossastro e il giallognolo, ma non è sul viso o sulle spalle. È sulle gamba sinistra. Lucido e pieno. Lo schiaccio tra i due pollici ed esce il pus, tanto, in un getto continuo, non uno spruzzo ma una lunga e lenta fuoriuscita di pus e a un certo momento un pelo. Un pelo incarnito che incarnito non è più. Un pelo lunghissimo, come se fosse rimasto a crescere sotto la pelle della gamba dal giorno della mia nascita, un cazzo di pelo carsico, sommerso, folto, robusto, cattivo, resistente, indifferente allo scrub, al peeling, alle cerette, a tutte le follie che ho commesso da ragazzina sulle gambe perché fossero lisce e perfette, un lungo pelo cresciuto nel pus che della mia rincorsa alla perfezione non solo se ne fotte ma la sfotte.

Non ho fiato per salire le scale, non so quanti gradini ci siano, non molti, li conto e poi me ne dimentico. Comunque non ho autonomia per farlo. Ho avuto la febbre, io che non ho mai la febbre, ho avuto le ossa rotte soprattutto di notte, ci ho giocato a puzzle, ci ho provato ma a me i puzzle hanno sempre annoiata. Anche ricomporre le mie ossa mi annoia. Anche io mi annoio a volte. Ho la tosse, secca, corta, fastidiosa. Anche io mi do fastidio, spesso.  Igienizzo le mani di continuo, ho uno spray disinfettante che nebulizzo su maniglie e plaid e divani. Apro e chiudo finestre come apro e chiudo la bocca, mai a sproposito ma a volte per abitudine. Sono abituata a me stessa, per la prima volta da quando mi frequento, osservo ogni sintomo come se fosse mio, con un occhio di riguardo. Per gli altri non ho riguardi. Per gli altri non ho attenzioni. Non mi interessano. Soprattutto i curiosi e i vanesi e quelli che cercano la parola vanesio sul dizionario. Ho mal di testa io che ho spesso mal di testa ma è diverso. È proprio nella testa, dentro, al centro, nel fondo, dove non ci arriveresti con la mano se la testa fosse aperta come un vaso, come una Testa di Moro, dove faresti fatica a scorgere qualsiasi cosa, anche il dolore. È lì che mi fa male, di più non so dire.

Mia nonna paterna interpretava i sogni. Non penso sapesse niente di Freud o di Jung.  Conosceva un po’ di mitologia greca, la rivisitava in chiave dialettale, faceva ridere senza aver in sé nulla di comico e nemmeno di tragico. Avrebbe voluto essere tragica, lei chiedeva i sintomi per sentirseli addosso e dichiararli a sua volta come le generalità, ne conosco tanti così. Le eroine e le dee erano femmine, non le ho mai sentito usare la parola donna. Nel mondo c’erano i maschi e le femmine. E le femmine hanno delle caratteristiche e i maschi no. Ne hanno altre, forse. E le femmine sono brave femmine o male femmine. I maschi non lo so, non lo ricordo com’erano i maschi per lei. Interpretava i sogni a richiesta, di chi sognava ovviamente. Le sue sorelle, loro sognavano e dicevano chiediamo a Maria. Mio padre- anche i maschi sognano-mio padre chiedeva a sua madre, poche cose deve averle chiesto nella vita ma questa sì, poi non so se ci credesse, non penso, forse era un conforto, un desiderio che lei provasse a capirlo, forse era solo un modo per stare insieme, in un inverno senza fine, il loro. Mia nonna interpretava i sogni perché gli altri pensavano che lei fosse capace di farlo. Io non so cosa sono capace di fare. Non penso che le chiederei di spiegarmi il mio sogno del pelo e del pus, non le chiederei niente, forse solo di salutarmi il nonno ma lei si offenderebbe e io rincarerei, per farle dispetto perché le femmine piagnone a me stanno sul culo.

Mia figlia Pepe è dotata di sinestesia gustativa. Che roba mi sono andata a trovare eh?  È così: datele un nome di persona e lei vi dirà quale cibo è e il più delle volte sarà vero, vi verrà di pensare che è proprio così. Da quando è piccola. Adesso le chiedo, ogni volta, anzi no, le chiedo spesso ma non ogni volta, spesso, le chiedo di dirmi che sapore hanno le persone, chiudo gli occhi e aspetto ma lei non ci deve pensare, per lei è immediato davvero. Ci sono cibi che piacciono di più, altri meno, ci sono quelli che ci fanno schifo, lei è fortunata ad avere questa abilità, insomma vedere il sapore delle persone è meglio che saper interpretare i sogni.  Mia figlia Cristina ha elencato le nove forme di intelligenza di cui può essere dotato l’essere umano, femmine e maschi senza distinzioni, perché le sta studiando in pedagogia o psicologia non so, e le ho detto che sono tante quante le vite dei gatti e lei sostiene che le vite dei gatti siano sette e alla fine non importa, ho concluso, gatti non ne abbiamo. A lei piacerebbe avere un gatto ma è impossibile finchè conviviamo perché i gatti li detesto e spesse volte anche gli umani che dai gatti vengono ospitati. Abbiamo fatto il gioco di cercare di capire quante forme di intelligenza abbiamo e lei ha vinto. Nella corsa ad accaparrarsi il meglio di quello che io e suo padre potevamo offrire quella sera di ottobre del 2006 lei ha vinto. Avere tante forme di intelligenza è meglio che saper interpretare i sogni. Ed è come avere più vite.

Al secondo giorno di isolamento, nel penultimo giorno dell’anno, ieri ho capito che rumore fa l’amore. Anzi, ho sentito che rumore fa l’amore. Ma mica l’amore universale, che ne so io di quelle cose. Ho sentito che rumore fa l’amore qui, a casa mia, dove c’è uno scrittoio di qualcuno che non ho mai conosciuto, dove non abbiamo gatti e i nomi propri li teniamo in dispensa o nel frigo, dove i sogni li raccontiamo, dove non interpretiamo nulla, nemmeno dei ruoli, dove i personaggi con nomi ridicoli servono solo a ricordarci che è sacro  ciò che noi rendiamo tale e tutto il resto è suscettibile di privato ludibrio, che anche gli alberi genealogici perdono le foglie e possono, persino, essere potati, che le frasi che iniziano con “devi” le lasciamo aspettare sulla soglia, magari passa il cane e ci piscia sopra. Ho sentito che rumore fa l’amore quello che abita qui e non altrove e mi ha fatto sorridere. Mia nonna materna, splendida Musa di leggerezza, si lamentava con mia madre e mia zia perché non era stata bene e lui, quel rompiballe, passava le giornate a misurarle la pressione, prima lui e poi lei, mattino e sera e annotava su un quadernetto, giorno, data e ora, preciso e metodico con la sua grafia inquinata dal greco antico, scriba in vestaglia, amanuense della minima e della massima. Lei lo imitava, di nascosto in cucina, mentre le avvolgeva la macchinetta intorno al braccio e poi con la pompetta gonfiava e puf, puf, puf, puf. Il loro amore faceva puf. Io infilo il dito in una scatoletta, bene fino in fondo, come il male alla testa, lì giù fino a toccare con la punta dell’unghia qualcosa e la scatoletta inizia a  emettere un trr, trr, trr, trr.  E indica che sono tachicardica, appena un po’, ma che la saturazione è buona. Anche se non ho voglia, anche se mi sembra inutile, anche se possiamo farlo dopo, mi siedo di fronte a Lui che apre il mobile, tira fuori la scatoletta, mi fa infilare il dito e mentre noi restiamo in silenzio sentiamo insieme il trr, trr, trr. Che potremmo ballare stretti, finché è inverno.

Ultime scoperte

Adolescenza significa che non c’è dolo. È un evidente caso di alfa privativa, a-dolescenza: la danza di lacrime e risate su una base di stizza non è intenzionale. Che poi è come vivo io, salvo il discorso del dolo, ovviamente. Vivere con degli adolescenti è istruttivo, personalmente ho trovato più distruttivo vivere con degli infanti. In assoluto, comunque, è meglio vivere con dei cani. A star con gli adolescenti impari che le Regine delle Fate esistono, sono quelle che rispondono danza quando viene chiesto loro che sport praticano. Impari che se li fai incazzare ti metteranno la forchetta rimasta sporca o caduta a terra mentre apparecchiano controvoglia e raccolta senza risciacquarla, senza nemmeno soffiarci sopra entro i dieci secondi, pratica che uccide ogni germe, è risaputo. Tu mangerai con quella posata pestata dai cani dopo essere stati in giardino senza sapere i rischi che corri. A vivere con gli adolescenti ti senti come quando nel tuo quartiere cambia qualcosa, passi per giorni davanti a un cantiere, un negozio annuncia la nuova apertura, tu ci passi mattina e sera, vedi ma non guardi, poi il negozio apre e non hai capito bene di cosa si tratta e nello spazio di qualche settimana non ti ricordi più quale negozio fosse lì prima. Una profumeria? Un calzolaio? Adesso cos’è? Un’agenzia immobiliare. Prima cosa c’era? Boh. Ripensi al quartiere dove vivevi da bambino, ai negozi e quelli te li ricordi tutti. Farmacia-panetteria- latteria-fruttivendolo- edicola-drogheria. Invece qui, adesso, questi non te li ricordi. A vivere con gli adolescenti capita di dover spiegare cos’era una latteria. Il negozio che c’è adesso, forse, non ti serve, non è il tipo di negozio dove entreresti. Ma tanto non è lì per te. Va bene lo stesso, dici, a nessuno, perché nessuno ascolta. Solo il cane.

Vivere con qualcuno, chiunque esso sia, è fondamentale quando si ha la febbre o il sospetto di avere la febbre. Perché il termometro te lo deve dare qualcuno dopo averlo scalato e al termine dei cinque minuti lo devi dare a qualcuno che controlla la temperatura e tu devi capire solo dallo sguardo. L’operazione termometro non può essere svolta in autonomia. Non ho mai visto nessuno farlo. Impossibile. O, almeno, inconcepibile.

Una donna che si chiama Paola mi ha detto che il mio nome, Sonia, è molto diffuso. La riformulo. Sonia è un nome molto diffuso, a detta di una persona che si chiama Paola. Niente, me la rigiro in tutti i modi ma continua a non aver senso nella mia testa. Apro la rubrica del telefono. Ho mille Paola. Poi, non so in giro per l’Italia, ma qui a Torino si fanno chiamare tutte Paoletta. Ora, già Paola significa quel che significa, anche Sonia significa quel che significa, ma insomma a significato direi che non c’è gara, poi se lo usate anche con il diminutivo è veramente riduttivo. Ecco. Mille Paola. Nemmeno una Sonia nella mia rubrica. Ma Sonia è un nome diffuso. Ma soprattutto mi ci sono intestardita, su questa cazzata. Che non so nemmeno io perché, la vado ripetendo un po’ a tutti: ti rendi conto, una che si chiama Paola mi ha detto che Sonia è un nome molto diffuso, cioè, capito? Paola. Scusate, Paole e Paolette della mia rubrica, è che non me ne capacito.

Ho fretta. Sempre. Senza motivo, davvero io non ho motivi di fretta. Posso arrivare in ufficio quando voglio. Posso uscire dall’ufficio quando voglio. Le ragazze frequentano scuole vicine, accompagno entrambe e riprendo entrambe con tempi comodi. Ma io, ultimamente, ho fretta. Mangio in fretta, velocissima, non è mai successo prima. I tempi biblici dei miei pasti da bambina sono uno dei cavalli di battaglia narrativi di mia madre. Pare che ci mettessi quaranta minuti a mangiare un uovo al tegamino o alla coque. Lo dice sempre e cerca lo sguardo di mio padre, ti ricordi, gli chiede. Lui si ricorda. Ora, io pranzi di quaranta minuti a casa dei miei fatico a ricordarli, nel senso che ci si sedeva, si mangiava, ci si alzava. Però. Per carità. Lei ricorda, chiede a lui, lui conferma. Tutto giusto. Io ricordo la mia sedia. Avevo lei a destra e lui a sinistra. Il tavolo era rotondo. Davanti a me c’era il cucinino e poi negli anni mio fratello. I miei genitori fumavano a tavola, una volta finito di mangiare. Quindi, secondo il loro racconto mentre io ancora cercavo di convincermi che dovevo masticare e ingoiare. Dietro di me c’era la radio, sul ripiano angolare. Era spenta, non si mangiava con la radio accesa. Il televisore era in un’altra stanza. Ricordo anche un uovo, nel portauovo, il cucchiaino che stacca il bianco, albume, dal bordo, il rosso, tuorlo, nel qual intingere la mollica. Forse, mamma, non mi piacevano le uova. Adesso, invece, ho fretta. Sempre. Senza motivo se non che mi manca qualcosa, non so cosa, mi manca nel respiro che si fa corto, mi manca nelle ore di sonno risicate e rosicate e rosicchiate. Mi manca negli automatismi. Nell’ordine dettato per fare le cose. Nella programmazione. Ho fretta di andare incontro a un imprevisto per dire che, visto, l’avevo previsto. È tutto sotto controllo. Ho fretta e cammino veloce per andare da nessuna parte. Ho fretta e aumento gli allenamenti. Ho fretta e compro altri libri. Ho fretta e questa è una cosa nuova. Sono una neofita della fretta. Sono un’entusiasta della fretta. Ho fretta, non aspetto più. Mai più.

Siamo diventati importanti consumatori di caco-mela. È iniziato come un tentativo, da parte mia. Il cachi mi ha sempre fatto schifo. Proprio schifo, schifo che non si dice schifo del cibo ma se fa schifo devi dire schifo. Il cachi mi ricorda la maestra Clara, all’asilo. La maestra Clara non mi faceva schifo, ma gli zoccoli bianchi che aveva ai piedi sì. E anche il cachi come merenda del pomeriggio. Si spappolava tutto, risaliva lungo il cucchiaino, era impossibile non essere agguantati da quella gelatina vischiosa e arancione. L’arancione mi fa schifo. Quando aspettavo Cri, nei primi mesi di gravidanza, ho avuto solo due voglie. Vere voglie, proprio quelle che sono voglie, che devi soddisfare a tutti i costi, potresti uccidere per avere quello che non solo desideri ma proprio vuoi. Solo due voglie, in due serate diverse fortunatamente: un involtino primavera e il suo odore. E il gelato al cachi.  Cristina adora il cachi. È la sola in famiglia. Ho trovato il caco-mela, questo curioso incontro tra il cachi e la mela. Ha la consistenza di quest’ultima e la dolcezza del primo. Lo prendo, proviamo. Ogni volta che porto a casa qualcosa da provare incontro una sola resistenza, una sola. Quella di Lui. Lui pensa, in partenza, che io sia stata mossa da un desiderio di novità che mi deluderà. Pepe dice che è solo perché non ha avuto Lui l’idea, una sorta di invidia della novità. Io non lo so, ma a volte mi sono sforzata di apprezzare per non dargli ragione, con il mapo per esempio, l’incrocio tra mandarino e pompelmo. Non in questo caso, però. Lui ha detto che il caco-mela non esiste in natura. È una forzatura. Anche tu, gli ho detto. Cosa si incrociano piemontesi con friulani, che poi uscite strani. Sei come il caco-mela, ho concluso. Ti ho dato una possibilità e mi sei piaciuto lo stesso. E niente, adesso va in giro per mercati a comprarli per le ragazze, perché io li prendo al supermercato e costano di più e sono meno buoni, certo. Lui sa dove prenderli, bravo. Solo gli ha cambiato nome e glielo abbiamo concesso, li chiama: melocaco. Lo capisco.

Mio nipote, duenne inglese con bilinguismo incorporato, mi ha portato in bagno, a casa dei miei genitori e mi ha fatto vedere il bidet. Per lui è un accessorio sconosciuto, a casa sua. Cos’è questo, Geppetto? Gli ho chiesto curva su di lui, occhi negli occhi. È il lavaculo. Lavaculo. Lavaculo. Laaaavaaaaculooooo. Anche i vicini lo hanno sentito. È il tempo trascorso con mia madre, lo so. Riconosco lo stile. Poi mi ha legata alla poltrona del salotto con il nastro del regalo che gli ho portato e mi ha fatto aggredire da un dinosauro, da un robot, da Ken rubato a sua cugina, mia nipote quattrenne italiana con rivendica incorporata e così quando lei si è accorta del furto gli ha strappato Ken di mano lui prima di piangere ha cercato di riprenderlo e le ha tirato qualcosa come i capelli o la maglia e io ero legata alla poltrona e loro litigavano e lui deve aver detto qualcosa come dad, help me e mio fratello che succhiava nervoso la sigaretta elettronica mi ha detto senti come parla bene, lo trovi cresciuto, è bello vero? Ho detto sì, sì, sì. Ho chiesto di essere liberata, hanno smesso di litigare per dirmi che non avevano ancora finito di giocare con me e anche mia nipote si è aggiunta e ha iniziato a farmi aggredire da Barbie, da Cicciobello cagacazzobua o quel che era e a quel punto è arrivata mia madre che era sul balcone della cucina a fumare e mi ha chiesto cosa ci facessi seduta e legata e poi è arrivato mio padre che era nel suo studio a lavorare e mi ha chiesto perché fossi seduta e legata. E io mi sono sentita un po’ in colpa.

Non ho presentimenti buoni. Pre-sento le cose quando vanno male, su quello sono davvero imbattibile. Se nell’aria c’è un accenno di tragedia o problema io lo capto con la precisione di un radar sofisticato. Se nell’aria c’è qualcosa che gira per il verso giusto niente. Niente. Io non sento niente. Sonia, mi sono detta, non Paola, Sonia, la felicità non fa rumore. È quel vecchio adagio che fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce? Mi sono chiesta. Tipo, mi sono risposta. È più come quando da adolescente, ricordi, sei stata adolescente anche tu è inutile che cerchi di rimuovere, è tutto ancora lì lo sai, è più come quando da adolescente ti eri amminchiata con l’atarassia e l’aponia. Ah, che tempi gloriosi quelli in cui anelavi a tanto. Ecco. Non senti il turbamento, non senti l’agitazione, questa è la felicità, pensi sia l’assenza di segnali invece è il segnale. Tutto sta andando bene. Zitta, non pensare a voce alta. Zitta. Non andrà male solo perchè dici che sta andando bene. Ascolta, cosa senti? Niente. Ecco, giusto. Vuol dire che arriverà la felicità se non vibro, se non ho sentore alla bocca dello stomaco, se non mi trema l’anima? Vuol dire che è già qui la felicità. Sicura? No, sicura mai. Si tratta, sempre, di te. O di me.

Va bene. Va bene lo stesso.

Faccio io

Lunedi.

Ho controllato la sveglia dalle 4, che fosse lì, che fosse accesa, che fosse programmata. Ho contato le ore e i minuti che mi restavano.  Ore 6. Mi alzo, mi chiamo Sonia e aspetto una mail, una sola, quella. Dalla app del Liceo autocertifico l’assenza di sintomi Covid per Cri, Pepe mi lancia la borsa da tennis dalle scale, se per favore le do una mano a caricarla in auto. Tangenziale direzione Caselle, uscita Corso Regina, limite dei 70, corso Lecce, Via Medici e poi giù di lì. Notifiche degli insoluti bancari, analisi delle causali, gestione del recupero: nuova emissione per le insufficienze fondi, contatto con il cliente per ogni altra motivazione fornita dalla banca debitrice. Non è difficile, solo noioso. Cerco tra gli annunci una libreria in vendita, Google mi avvisa che ho visitato questa pagina molte volte, lo so, niente di nuovo, solo una Mondadori in un centro commerciale per carità. Tanti bar e ristoranti, non mi interessano i bar e i ristoranti, un laboratorio di sartoria. Causa trasferimento. Una panetteria. Alberghi. Un elettrauto. Causa trasferimento. Dove vanno, tutti?

Caffè con Gabry, organizzato da quindici giorni, io posso, lei può. Non succedeva da luglio. Mia figlia, suo figlio, mia figlia l’altra, suo figlio l’altro. Il basket, il karate, il tennis, gli stessi professori del fratello il suo piccolo, meglio così, non tutti quelli della sorella la mia piccola, meglio così.

Arriva Pepe.

Arriva Cri.

Pepe a tennis. Cri studia.

Aspetto una mail, una sola, quella e non arriva. Cri mi chiede se è arrivata. No. Ritiro Pepe, mi chiede se è arrivata, no. Perché cambi sempre canzone in macchina, mamma? Non lo so. Lasciamo scorrere la playlist? Ok, bimba bella.

Cri ad allenamento. Sei felice? Ti piace la nuova palestra? Viene papà a prenderti, io scaldo la cena.

Pepe dall’oculista, cambiamo le lenti, cambiamo la montatura, la ragazza accomoda, spasmizza. Mi augura Buon Natale, guardo la data.

Martedì

Ho controllato la sveglia dalle 4, che fosse lì, che fosse accesa, che fosse programmata. Ho contato le ore e i minuti che mi restavano.  Ore 6. Mi alzo, mi chiamo Sonia e ho 43 anni, potrei essere orfana senza che questo desti stupore ma non sono orfana, i miei genitori hanno 65 e 68 anni, se morissero questo desterebbe stupore.  Dalla app del Liceo autocertifico l’assenza di sintomi Covid per Cri, Pepe mi lancia la cartellina di Educazione Artistica, se per favore le do una mano a caricarla in auto. Tangenziale direzione Caselle, uscita Corso Regina, limite dei 70, corso Lecce, Via Medici e poi giù di lì. Fatturazione del mese, prima i nuovi contratti e poi le ripetizioni. Controllo degli addebiti degli F24. Verifica di chimica per la grande, riconsegna delle tavole di arte corrette per la piccola, non so nulla di quello che hanno fatto. Telefonata con Betti, dice che Stefi è felice per il suo daimon mentre lei è felice per il suo diamond e ride soffiando il fumo della sigaretta che mi arriva attraverso il telefono, bene, le dico, io sono felice con il mio Dyson. Ride ancora di più. Il miglior acquisto di sempre, mi soffia all’orecchio. Pepe ha il rientro fino alle 16.30, Cri esce alle 15. Stasera io e lei andiamo al Carignano, è la prima di Orgoglio e Pregiudizio, le dico che forse mi addormenterò, mi chiede della mail, scuoto la testa, cerco un posto, quasi piango, impreco, uno uno solo, a me basta un posto solo. uno, uno solo. Niente. Eccolo. Sotto un ponteggio, c’è il divieto. Torino è tutta un ponteggio. Si potrebbe attraversare la città senza mai toccare terra, passando da un cantiere all’altro, guardando nelle case di tutti, battendo alle finestre. Lo dico a Cri, sorride, si potrebbe. Avviso Lui, non so se troverò la macchina, forse dovrai venire a prenderci o possiamo chiamare un taxi, uno che accetti il bancomat perché non ho contanti, ci costerà un po’ dal Carignano a Rivoli, amen, poi dovremo recuperare l’auto se ce la portano via, se me la portano via. Non mi addormento, lo spettacolo è bellissimo, Cri ha gli occhi felici, io metto gli occhiali perché ho mal di testa, l’auto è sotto il ponteggio.

Mercoledì

Ho controllato la sveglia dalle 4, che fosse lì, che fosse accesa, che fosse programmata. Ho contato le ore e i minuti che mi restavano.  Ore 6. Mi alzo, mi chiamo Sonia e ho una laurea in Giurisprudenza. Dalla app del Liceo autocertifico l’assenza di sintomi Covid per Cri, Pepe si lancia giù dalle scale saltellando perchè oggi è il suo giorno alle ATP, se per favore ci muoviamo tutti. Le accompagna Lui perchè è mercoledì. Io torno a letto un po’, con il cane piccolo, il cane grande si sdraia sulle mie ciabatte, non mi riaddormento, aspetto una mail, una sola, quella, ho ginnastica con Stefano perchè è mercoledì, ho bisogno di ciabatte nuove, inizio la riconciliazione bancaria. Cri ha la prima interrogazione di diritto, è una questione personale, abbiamo ripassato insieme, le ho spiegato quel che non le era chiaro, sa tutto, è preparata, per chiarirle la posizione della consuetudine tra le fonti giuridiche ho preso una sedia, tolto le ciabatte, sono salita e ho afferrato dalla libreria il Trimarchi, Manuale di Istituzioni di Diritto Privato, copertina blu, quello con la copertina rossa era di mio padre, ma lui a Scienze Politiche mica aveva portato il mio programma. Ti voglio vedere se non spacchiamo tutto, all’interrogazione. Cerco tra gli annunci una libreria in vendita, Google mi avvisa che ho visitato questa pagina molte volte, lo so, niente di nuovo, solo una Mondadori in un centro commerciale per carità. Tanti bar e ristoranti, non mi interessano i bar e i ristoranti, un laboratorio di sartoria. Causa trasferimento. Una panetteria. Un negozio di ottica. Un centro estetico con solarium. Causa trasferimento. Dove vanno, tutti? Cri ha lezione di teatro, Lui e Pepe vanno alle Atp, sono undici mesi che hanno i biglietti, ordino cibo cinese, io e Cri lo mangeremo sul divano, di cosa sono fatte le nuvole di drago, mamma? Non so se vuoi saperlo, bambina. Dai dimmelo. Gira il video della spiegazione, lo pubblica tra le storie, i suoi amici impazziscono, è simpatica tua madre, è troppo forte tua madre. Abbiamo preso 9 di diritto. Spacchiamo. Guardiamo la partita di tennis in tv, cercando di vedere se inquadrano gli altri due, i nostri.

Giovedì

Ho controllato la sveglia dalle 4, che fosse lì, che fosse accesa, che fosse programmata. Ho contato le ore e i minuti che mi restavano.  Ore 6. Mi alzo, mi chiamo Sonia e sono la mamma di Cristina e Benedetta. Dalla app del Liceo autocertifico l’assenza di sintomi Covid per Cri, Pepe mi lancia la borsa da tennis dalle scale, se per favore le do una mano a caricarla in auto. Tangenziale direzione Caselle, uscita Corso Regina, limite dei 70, corso Lecce, Via Medici e poi giù di lì. Programmazione dei pagamenti, verifica degli effetti fornitori, ricerca delle fatture che non corrispondono, gestionale bloccato, imprecazioni, gestionale sbloccato, funziona.

Pepe a tennis. Cri studia.

Ritiro Pepe.

Porto Cri ad allenamento. Sei felice? Ti piace la nuova palestra? Viene papà a prenderti, io scaldo la cena.

Apro Facebook, compare un annuncio sponsorizzato da una società di psicologia, c’è un seminario per psicologi, compare la foto del relatore e il nome del relatore e guardo il nome e leggo la foto, al contrario, proprio al contrario. Il mio psicanalista. L’Uomo con la Barba. Ha ancora un nome e un cognome e la barba e gli occhiali. Esiste ancora. Anch’io esisto. Lui non mi può vedere dall’annuncio sponsorizzato, solo io posso, solo io so che lui esiste ancora ma anch’io esisto ancora e mi chiamo Sonia, ho 31 anni e sono la mamma di Cristina e Benedetta, Cri sorride e Pepe piange. Cri ha tanto catarro e Pepe ha le coliche. Io sto male, forse muoio. L’uomo con la barba apre la porta e mi cura, io sto meglio ma non guarisco. Faccio vedere la foto a Lui e gli dico eccolo, esiste ancora e Lui mi dice me lo immaginavo diverso. Se l’era immaginato.

Venerdì

Ho controllato la sveglia dalle 4, che fosse lì, che fosse accesa, che fosse programmata. Ho contato le ore e i minuti che mi restavano.  Ore 6. Mi alzo, mi chiamo Sonia e non riesco più ad ascoltare alcuna canzone fino alla fine. Dalla app del Liceo autocertifico l’assenza di sintomi Covid per Cri, Pepe mi lancia la borsa del nuoto dalle scale, se per favore le do una mano a caricarla in auto. Le accompagna Lui, perché è venerdì. Io torno a letto un po’, con il cane piccolo, il cane grande si sdraia sulle mie ciabatte, non mi riaddormento, leggo, finisco un libro che non so se mi è piaciuto, aspetto una mail, una sola, quella, ho ginnastica con Stefano perché è venerdì, imposto il lavoro dei Sepa Direct Debit, compro il mangiare del cane piccolo, avviso Lui che bisogna comprare il mangiare del cane grande. Oggi Cri ha la prima interrogazione di Latino, è una questione personale, abbiamo ripassato insieme, le ho spiegato quel che non le era chiaro, sa tutto, è preparata, per chiarirle perché quel Romae significa stato in luogo ho preso la mia grammatica latina del ginnasio, ti voglio vedere se non spacchiamo tutto, all’interrogazione. Pepe torna alle Atp, doppio e singolo, mi ricorda di registrare le partite, registro le partite. Il vicino raccoglie le foglie secche nel vialetto, ha tempo perché è in pensione. Aspetto una mail.

Cerco una libreria.

Non finisco una canzone.

Prima piango poi impreco. Funziona.

Tranne che per la mail.

Voglio ascoltare quante più canzoni possibili ecco perché salto di continuo, non le lascio finire. Ho un problema con l’organizzazione. Con l’ottimizzazione. Su Facebook vedo il mio psicanalista. Stefano dice che ho la mentalità da atleta. Io penso di essere un asino da soma. Io e Cri andiamo dal parrucchiere, lei taglia e io coloro, la vedo gesticolare con il ragazzo che si occuperà di lei, gli fa vedere con le mani la lunghezza, poi agita le dita per chiedere un po’ di volume, fa segni per spiegare, anch’io faccio segni, sbuffo. Come segni di fumo. Quando sbuffo sanno che no, non farò il tonalizzante perché non ho più tempo, la prossima volta. Abbiamo preso 8 di Latino. Spacchiamo. Ci facciamo una foto all’uscita dal parrucchiere anche se è buio. Lei sembra più grande, io sembro sua madre.

Sabato

Ho controllato la sveglia dalle 4, che fosse lì, che non fosse accesa, che non fosse programmata. Mi riaddormento. Sogno di tirare l’acqua dopo la pipì ma qualcosa non funziona e resta un brandello di carta igienica, ci provo ancora ma lo scarico non funziona. Mi sveglio. Mi alzo. Mi chiamo Sonia e ho una migliore amica da quasi trent’anni.

Pepe si allena poi va a casa di Ceci, bisogna prendere un regalo. Cri si allena e domani andrà da Auri, bisogna prendere un regalo. Andiamo a prendere i regali. Andiamo ad allenamento. Lascio una prendo l’altra prendo l’altra e ritiro una. Mi sforzo di non cambiare canzone. Mi impongo di non cambiare canzone. Guardo quanto manca alla fine della canzone. Abbraccio Torino lungo la tangenziale, da Mirafiori a Corso Grosseto, ci stanno tante canzoni intere, aspetto che finiscano, sono brava ma mi costa fatica.

Casa di Ceci.

Cerco la via.

Cerco il civico.

Cerco parcheggio.

Rifaccio il giro.

Piango.

Impreco.

Funziona e trovo parcheggio. È arrivata la mail, mamma. No, bambina del mio cuore.

Suono, salgo, saluto, ringrazio, sorrido, ho la mascherina, divertitevi, va bene alle 22.

Ceniamo in tre. Pepe non c’è e si vede. Dico che voglio svenire per la stanchezza. Svuoto la lavatrice, carico l’asciugatrice, stendo. Male. Non sono una di quelle donne che stende bene e appaia i calzini, non lo sarò mai.

Domenica

Ho controllato la sveglia dalle 4, che fosse lì, che fosse accesa, che fosse programmata. Ho contato le ore e i minuti che mi restavano.  Ore 7. Mi alzo, mi chiamo Sonia e non ho mai praticato sport. Cri oggi deve dare l’esame per la cintura nera I Dan. Lo aspetta da tre anni, quando è diventata cintura marrone. Ho un rigurgito di memoria. La cerimonia di cintura blu rovinata da una persona orrenda che le si avvicina, io che dico non è il momento, questa che fa la scena madre: mi dispiace per te, mi dispiace per te mi ripete, come se potesse permettersi di rivolgermi la parola. Da allora il muro. Lontani da mia figlia o sparo. Lontani da mia figlia o uccido.

I documenti. Il green pass. La carta di identità. La licenza federale. Fai piano, non svegliare tua sorella, Cristo, controlla tutto, se non importa a te deve importare a me? Come stai? Mangia, che la mattina è lunga, arrivi alla fine che non hai le forze, non questo cappotto non vedi che è leggero, ci sarà la coda per entrare, fai come vuoi ma poi ti ammali. Prima l’ingresso degli atleti. Poi i genitori. Fumano, alle 8 del mattino. Puzzano alle 8 del mattino. Raccontano brandelli di vita, io sono cattiva e penso che abbiano la vita a brandelli come la carta igienica nel mio sogno. Tutti bravi. Tutti che sanno cosa è meglio. Tutti che hanno capito. In Austria da domani c’è l’obbligo del vaccino. No, c’è il lockdown. Sì, ci sono tutti e due. Chiusi dentro e vaccinati. È giusto. Ma che cazzo giusto. Allora non è giusto. No. ci arriveremo anche qui. No, qui no. Vedrai. Ma la nebbia e il freddo che sono arrivati tutti insieme? Bastarda miseria. A me il vaccino fa paura perché diventi sterile. Sorrido. Il mio amico Andrea sostiene che questi non saranno mai sterili, perché la minchia non vuole pensieri. Vorrei interromperli per dirglielo.  Non lo faccio.

Consegno l’autocertificazione, sì, sono un genitore. No, non ho sintomi, non questi. Vedo il mio psicanalista su Facebook, sa come quelli che vedono Padre Pio, mi sforzo di ascoltare una canzone fino alla fine, conto quanto tempo mi resta per dormire, aspetto di presentare il conto a un paio di balordi che ancora non me l’hanno pagata, cerco una libreria e aspetto una mail ma no, altri sintomi non ne ho.

Esame. Ultima, per via del cognome, inizia con la V. Idonea. Cintura nera, piango, impreco, funziona. Lui la guarda orgoglioso, scatta le foto, sorride mentre lei cammina sul tatami, devi amare molto qualcuno se sorridi mentre cammina e basta, penso. 

Controllo la sveglia per domani.

Lunedi.

Ore 6. 

Mi chiamo Sonia.

Lettera aperta, anzi chiusa. (Uso personale del, mio, blog)

Caro Maestro, Allenatore, Istruttore, Tecnico, Coach o come vuoi tu. Caro tu, che al terzo tentativo di identificarti sembro mio padre quando chiama noi figli, si sbaglia sempre e se la prende con chi ha davanti, colpevole di non chiamarsi come ha detto lui. Caro Maestro, Allenatore, Istruttore, Tecnico, Coach o come vuoi tu, che al mio terzo tentativo sbagliato ti blocchi come il pin del bancomat, caro tu, non voglio sembrare mio padre che sa sempre cosa è meglio per noi anche quando non ci chiede cosa pensiamo sia meglio per noi.

Caro tu, che usi le maiuscole per scrivere il tuo ruolo, per favore, se ti riesce, usa la maiuscola anche per scrivere Allievo, Atleta, Sportivo o come vuoi tu. È più corretto, non trovi? O tutti in minuscolo o tutti in maiuscolo, e sì, lo so, che sono dettagli ma è nei dettagli che io mi incastro. Caro tu, usa la maiuscola per questi Ragazzi, che è come urlare. Ed è quello che fanno, sai. I Ragazzi. I Ragazzi urlano. Che siano Allievi, Atleti, Sportivi o come vuoi tu, loro urlano e non c’entra con il fatto di sentirli perché il più delle volte non li senti. Urlano con la bocca premuta sul cuscino, urlano con le mani spalancate sul viso, urlano per non essere sentiti perché poi gli si chiederebbero spiegazioni e i Ragazzi, loro, non è detto che le abbiano o che le vogliano condividere.

Toccherebbe a noi. Dare spiegazioni, se richieste. Toccherebbe a noi sapere come si urla quando non ci si vuol fare sentire. Toccherebbe a noi sapere che urlano.

Caro tu, che parli per ore delle tue imprese quando gareggiavi, quando eri Tu l’Atleta maiuscolo, caro tu qualcuno dovrà prendersi prima o poi l’ingrato compito di rivelarti che non frega niente a nessuno. No, non sarò io, figurati. Non ho ancora capito cosa sei, se Allenatore, Istruttore, Tecnico, Coach o come vuoi tu, non mi prenderei mai la briga di venire a dirti che non si parla più di te ormai, ma di Loro. Tocca a Loro, tu basta, fine, stop. Caro tu, non cercare la loro adorazione perché hanno già degli dèi e non sei tra quelli quindi puoi rilassarti, anche tu, come noi genitori, come noi adulti qualsiasi, capitati un po’ per caso a interpretare un ruolo improvvisando completamente, perché caro tu, dai, lo sai anche tu che qui nessuno sa come si fa.

Non perderti nel delirio di conquista, non aspettarti che pendano dalle tue labbra. Ho sentito questa affermazione da uno di Voi e mi si è bloccata la vena materna, che è quella che dall’ombelico porta le sensazioni al cervello, mi si è occlusa all’altezza della gola, appena in tempo per impedirmi di dire checazzodici, mi ci sono strozzata, tanto che mi hanno dovuto battere tra le scapole con forza e mi hanno praticato la manovra di Heimlich e alla fine ero troppo stanca per parlare e così sono stata zitta a fare la sola cosa che potevo: passare le dita tra i capelli delle mie figlie. Caro tu, io esigo che le mie figlie non pendano dalle labbra, o da qualsiasi altra cosa, di chicchessia. Men che meno di uno che si nasconde dietro il dettaglio di una maiuscola usata per sé.

Caro tu, è il momento di parlarci con sincerità. Come Atleta non hai concluso un cazzo di niente o comunque molto poco o comunque per un lasso di tempo minimo, altrimenti non saresti lì, dove sei, dove ti abbiamo trovato, in una qualche strada di periferia dalla quale ti vanti di aver tolto giovani vite. Evviva. Come Maestro, Allenatore, Istruttore, Tecnico, Coach o come vuoi tu, qual è l’unità di misura del tuo successo? L’Atleta talentuoso? Troppo facile, non trovi? Se l’Atleta talentuoso lo porto in un’altra strada di periferia cosa succede? Io penso che arriverà comunque sul podio. Caro tu, se alzi lo sguardo e muovi la testa da sinistra a destra e viceversa vedrai un piccolo mondo di Ragazzi che vengono lì, in quella strada di periferia, non per salvarsi ma per amore. E l’amore non c’entra la vittoria, anzi. Caro tu, se li osservi vedrai che vogliono essere corretti quando sbagliano, che vogliono imparare, anche vincere, certo, ma perché non dirgli che imparare è già vincere?

Caro tu, che usi frasi mal pensate, come puoi dire ai genitori che i ragazzi devono imparare ad accettare la sconfitta? Cosa vuoi? Cosa vuoi da noi? Vuoi che gli mostriamo noi come si fa? Mi sembra quella vecchia storiella che gira tra gli avvocati: quando la causa viene vinta si chiama il cliente e gli si dice abbiamo vinto, quando a causa viene persa si fa chiamare il cliente dalla segretaria per dirgli che lui ha perso.  Caro tu, i Ragazzi pèrdono continuamente, è quello che fanno, sai. I Ragazzi. I Ragazzi pèrdono e questo, sì, che c’entra con l’amore.  E noi li rimproveriamo, come se non fossimo mai stati Ragazzi che pèrdono, come se non fossimo adulti improvvisati che pèrdono ogni giorno. Caro tu, è compito tuo insegnare a un Atleta come si perde una gara. Altrimenti devo pensare che sia tu quello che non ha ancora imparato e in questo caso toccherebbe a te chiedere perdono. Il loro.

Caro tu, sono delusa. Non c’è un altro modo per dirlo e forse è anche meglio, per me, se non c’è un altro modo devo usare questa parola. Delusa dalla vanità di sedicenti Maestri o quel che sono, autoreferenziali e noiosi, verso i quali vorrei provare tenerezza o compassione ma mi manca la vena apposita dove lasciarle scorrere e allora sono costretta alla delusione e, in fondo, al disprezzo per il quale sono dotata di arteria bella grossa dalla nascita. Caro tu, qualcuno dovrà pure prendersi prima o poi l’ingrato compito di rivelarti che nella sigla A.s.D. la D. indica i dilettanti, e no, non è detto che sia riferito agli Atleti. No, non sarò io, figurati, cosa ne so io, che pensavo significasse Ascolta ‘sto Deficiente. Ma in maiuscolo.

Noi

Non ce li avevamo i morti, i nostri morti erano lontani e quindi stavano sui comodini o sul cassettone in camera da letto, dentro cornici spesse senza polvere, bianchi e neri da non sapere di che colore avessero i capelli o gli occhi. Bisognava chiedere.  I morti sepolti qui erano pochi, uno o due, non di più. Venuti su e morti in esilio, noi eravamo la prima generazione nata qui, ci mancava la prima generazione di morti.

Troppi fiori per poche lapidi, i fiori avanzati mio nonno li distribuiva tra le tombe dimenticate, quelle in evidente stato di abbandono, sulla strada del ritorno verso l’uscita, gli metteva tristezza che non ci fosse nessuno a ricordarsene. Lui, qui, morti suoi non ne aveva e nemmeno foto, solo una un po’ lisa, consumata con gli occhi, sua madre morta per un’infezione dopo il parto, il suo. Mi fai rivedere la foto, come si chiamava? Carolina, lavorava, nessuna donna lavorava lei invece lavorava, aveva le palle mia madre. Guardala, guarda la bocca, è come la tua. Ma che ne sai, non l’hai mai vista. Ma l’ho sognata ogni notte e a te ti vedo, siete belle uguali. Con suo padre non si parlava più da anni quando è morto, è morto giù. La mamma di mia nonna, invece, è morta qui, otto mesi dopo la mia nascita: “lei ti ha conosciuta e tu non hai fatto in tempo a conoscere lei”. Era contenta di diventare bisnonna? Non lo so, quando le abbiamo detto di te ha commentato chi va per mare di questi pesci piglia. Io ero il pesce? Sì. Com’era? Aveva gli occhi verdi e la pelle chiara. Allora nonna non le somiglia. No, nessuna figlia. Assomigliano tutte al padre.

Il padre di mia nonna è morto qui ma è sepolto giù. Ha voluto così, tornare accanto alla prima moglie. Era vedovo, la nonna con gli occhi verdi era la seconda moglie, gli ha fatto cinque figlie, tutte femmine. Gli prendevano i nervi ogni volta. Tutte uguali a lui. Stava nella foto sul comò, con la camicia arrotolata fino ai gomiti, le mani appoggiate su un bancone, le bretelle. Aveva un emporio, non si è patita la fame in guerra anche se c’era il razionamento. Quanti anni avevi, nonna? Otto, nove, dodici quando è finita. Dov’era l’emporio? In piazza Carlo III, vicino alla stazione. In centro? Abbastanza, noi abitavamo sopra e l’emporio stava sotto. Di cosa è morto? Un trombo, pure tuo padre se lo ricorda. Era brutto, e pure stronzo, per quella cosa delle femmine, lo penso ma non lo dico. Ho conosciuto tuo nonno lì,dietro a quel bancone, era soldato con mio fratello, fratellastro, il solo maschio, figlio del primo matrimonio. Avevano fatto un patto, il primo dei due che tornava a Napoli avvisava la famiglia dell’altro, si presentava, andava a portare notizie. È tornato prima tuo nonno, è entrato, ha parlato con mio padre. Com’era? Bello. Profumato.

Mia nonna zoppica, cammina a fatica, percorre il cimitero sottobraccio al nonno, dritto e ben vestito, stando ai miei calcoli se io ho quattro anni lei ne ha quarantanove. Mio padre ventinove. Mia nonna è vecchia e grassa, si lamenta sempre, sulla tomba di sua madre piange, si bacia la mano sulla punta delle dita e le poggia sulla foto e ancora e ancora. Capisco che suo padre si sia fatto seppellire lontano da questo teatrino.

Noi eravamo la prima generazione nata qui da matrimoni misti ma ben visti. Matrimoni tra meridionali, nessuno del nord e pace se sposi un napoletano con la pancia o se questa ragazza tutta occhi e ossa è palermitana, pace se ci porti in casa uno di Brindisi. Basta che non sia del nord. Quelli mangiano presto, che ancora c’è luce, mangiano agli orari dell’ospedale. Mangiano aglio, puzzano. Non si può prendere l’ascensore con quello del terzo piano, facciamo finta di guardare nella buca delle lettere finché non sale e poi andiamo a piedi perché resta la puzza. Quelli mangiano cose che non conosciamo. Dicono neh. Non li capiamo quando parlano. Sì, sì, siamo noi qui, è vero, a casa loro, sarà pure così, ma non ci mischiamo. Ognuno per sé, noi a loro non piacciamo e loro a noi non piacciono. A noi tocca stare qui, con il freddo, con la nebbia, con la pioggia. Sai perché ci sono tanti portici? Perché piove e fa un cazzo di freddo, allora questi si sono fatti i portici, così possono camminare per strada lo stesso.

Cosa ti manca di più? Ci andavi al mare? No, ma quale mare. La luce. Il profumo delle arance nel giardino della villa dei miei genitori, le porte sempre aperte, i miei fratelli. Chi è questo? Mio padre. Com’era? Secco secco come un ramo, quando sono nata io lui aveva cinquantasei anni, era nonno, sono nata che già ero zia, mi amava così, che potevo fare quello che volevo. Mia madre no, era severa. Ora tu la vedi così, nel letto, ma la nonna vecchia era un generale, sai, ci teneva tutti a bacchetta. Perché lo tieni qui? Perché la notte lo guardo prima di addormentarmi, gli dico le preghiere, ci penso. Dov’è? Giù. È sepolto giù. E lui chi è? Mio fratello Andrea, il più grande, quando è morto sono quasi impazzita per il dolore. Come si impazzisce per il dolore? Ciascuno a suo modo.  Perché ha questa forma il portafoto? È un albero, come l’albero genealogico, sai cos’è? No. È la famiglia come se fosse un albero, ognuno è il frutto di qualche ramo. Gli spazi vuoti sono per quelli che non sono ancora morti? Sì. Non mi piace, nonna, mi fa pensare a chi è il prossimo. E tu non ci pensare. Come si fa? A fare cosa? A non pensare più una cosa che pensi?

E la mamma del nonno? Ha una pelliccia nella foto? Sì, era una gran dama, lei, sempre curata, suonava il pianoforte ma lo detestava, cucinava benissimo tranne quando nonno aveva le versioni di greco o gli esami al ginnasio, in quei giorni no, scriveva sul taccuino oggi Fanino ha gli esami, non si cucina. Quando è morta? Quando il nonno aveva sedici anni. Perché? Una malattia. E il nonno? Non ne parla. Nemmeno con te? Ogni tanto, poco. Era molto amato da sua madre, poi quando quell’amore non ce l’hai più non ti va di nemmeno di ricordarlo. Suo padre? Ha distrutto tutto quello che riguardava la moglie, ha venduto le proprietà, le case, i terreni, ha licenziato i domestici, ha venduto tutto quando i soldi non valevano più niente invece di comprare e così nonno si è trovato senza niente, un po’ di greco e latino e le buone maniere. Come fanno i soldi a non valere più niente,i soldi sono soldi, valgono sempre. No, a volte non valgono niente. Lui lo vado a trovare al cimitero ma non mi piace perché si chiama come mio zio. Anzi, mio zio si chiama come lui e io non vorrei mai chiamarmi come uno che è morto e sta scritto lì il mio nome, non vorrei leggere il mio nome su una tomba. Penso che a mio zio non sia mai importato. Ha chiamato suo figlio come mio nonno, che poi è morto, così adesso abbiamo più morti, anche noi, anche se non ci andiamo. Forse loro ci vanno, non lo so. Mio zio ha avuto il primo matrimonio misto malvisto. Poi mia nonna ha perso la memoria.

Il mio matrimonio l’ha intuito, quando vedeva Lui storceva un po’ la faccia, lei era la regina delle espressioni facciali, aveva una mimica notevole. Ogni tanto mi ha suggerito di trasferirmi giù. Io ho avuto il secondo matrimonio misto malvisto, a quel punto l’Alzheimer aveva già vinto. L’hanno cremata e non c’è un posto dove andare, l’urna ce l’ha un mio zio, un altro con un’unione mista malvista ma lei ormai non può farci più niente, nemmeno lo sa di essere a casa loro. Non ci andrei, comunque. Dalla mia unione mista ho imparato che qui, al nord, partono delle spedizioni di pie femmine armate di detergenti per sanificare le tombe prima della ricorrenza dei Santi o dei defunti o di quel che è. Giorni prima, vanno a pulire le tombe. Perché, ho chiesto a Lui. Perché non si dica che sono trascurate durante l’anno. Chi lo deve dire? Quelli che vanno per la ricorrenza. Ma sono trascurate durante l’anno? Sì, ma non si deve dire. Non capisco. Non puoi capire. Ma tu capisci? No, non come pensi tu che vadano capite le cose, le capisco perché le so. Le capisci perché le contieni? Forse sì, qualcosa di simile. Non ti fa senso andare da tuo nonno e leggere il tuo nome? No. Gli somigli pure adesso. Trovi? Sì, dalla foto, sì. Stessi occhi, anche la fronte. A me farebbe senso leggere Sonia Laezza su una lapide. Non ci ho mai fatto caso. Forse perché non l’hai conosciuto, tuo nonno. Forse. Comunque sarete pure del nord ma anche voi che usanza del cazzo dare il nome dei nonni, io sono del sud e mi hanno chiamata come hanno voluto e tu sei del nord e ti sei beccato il nome in eredità, strano, tua nonna aveva l’alberello dei morti? No, che orrore. Ma no, io ci giocavo, ogni portafoto pendeva da un ramo, era ovale, tipo un frutto appeso e con i miei cugini capitava di farli dondolare, gli davamo un colpetto con la punta dell’indice, e sapevamo i nomi che non erano i veri nomi, voi usate solo i veri nomi? Quali sono i veri nomi? I nomi veri, io Sonia, mia nonna Maria, mio nonno Stefano. I nomi veri. Sì, certo, che nomi dovevamo usare? Eh, belli, facile così. Noi sapevamo i nomi usati famiglia anche per i morti quando erano vivi, anche per quelli dell’alberello. Una specie di Indovina Chi dei morti. Dai, che macabro. Ma figurati. Nonno Turè, tu dici da Salvatore, no, si chiamava Domenico ma era detto Turè come suo padre, morto quando lui era piccolo. Vabbè, mio nonno Fani o Fanino, ma lui era vivo ai tempi, poi c’era zio Pinè e così via. Un giorno abbiamo dato un colpo più forte ed è caduto l’ovale con la foto del papà di nonna, sul comodino. Abbiamo cercato di riagganciarlo ma abbiamo sbagliato ramo e lei se n’è accorta. Si è arrabbiata? Sì. Dovete lasciare stare mio padre. Ma quello non è tuo padre, è la sua foto, mica è lui. Zitta tu, che sai sempre tutto. Ero io. Parlava a me, ero io la sapientina. E poi? Poi ci ha proibito di giocare con l’alberello e non ci abbiamo più giocato, non ci interessava più e lei se n’è scordata. Stando ai miei calcoli io avevo setto o otto anni e lei cinquantatré o cinquantaquattro, mia madre ventinove o trenta. L’alberello adesso? Non lo so. Non so che fine abbia fatto. Lei ti manca? No. Un po’. Ogni tanto, un po’ più degli altri. Mi manca dirle alcune cose o sentirmele dire ma per il resto no, io sono così, ci ho fatto pace, me lo diceva lei, a volte. Cosa? Che ero sprucida, però con la erre palermitana lo devi pronunciare, e la c suona quasi come una sci. Sprucida, come una del nord, diceva, mica come noi.

Facciamo pace

Facciamo pace Corso Vittorio dal lato del Tribunale, non è stata colpa tua e nemmeno colpa mia, è stata la vita che non mi voleva così, con quell’aria triste e arrogante che non so se c’è un nome per definirla ma se fosse un colore sarebbe il greige.

Facciamo pace vetrina del mio ex cliente in Corso Svizzera, non è stata colpa tua e nemmeno colpa mia, è vero, avevo camminato troppo quel giorno e mi ero stancata, il tuo titolare mi aveva fatto innervosire ma lui non sapeva, nessuno ancora sapeva, e poi certe cose succedono perché non possono far altro che succedere e alla fine è andata bene, mia figlia è nata lo stesso e il tuo titolare è ormai un bolso venditore di case brutte.

Facciamo pace piazza Cavour, cosa ne puoi tu e cosa ne posso io se ci siamo dimenticati, io non ho richiamato e lui neppure, dopo venticinque anni ho pranzato allo stesso tavolo e solo allora ci ho pensato di nuovo e mi sono ricordata.

Facciamo pace signora dell’appartamento sopra il mio ufficio, sì, sì, sono io che chiudo il portone che lasci accostato quando esci con i due cani claudicanti per fare un malfermo giro dell’isolato. Se tu la smetti di fumare nell’androne e di mettere tutta la pubblicità nella mia cassetta delle lettere possiamo trovare un accordo.

Facciamo pace Via Cavalli lato del Tribunale poco prima dei giardini, non è stata colpa tua e nemmeno colpa mia, è stato il desiderio di proteggerle dagli sguardi rapaci se durante quella telefonata gli ho sibilato che sarebbero venute a quel funerale solo se ne avessero avuto voglia perché non erano lì per essere mostrate ai mostri.

Facciamo pace Bambina mia grande, non è colpa tua e nemmeno colpa mia se in Latino il paradigma si trova cercando la prima persona singolare, son cose che succedono perché non possono far altro che succedere e allora mettiti lì con tanta pazienza e parti sempre dalla prima singolare, non cercare l’infinito, che inganna.

Facciamo pace Tribunale, cosa ne potevi tu e cosa ne potevo io se prima di te avevo sbagliato corridoio anche all’Università. Facciamo pace Palazzo Nuovo, forse nemmeno esisti più, forse non sei più la sede delle Facoltà umanistiche, non so più niente di te e tu non sai più niente di me, facciamo pace adesso, che è stata tutta colpa mia se ho tirato dritto per anni e anni fino alla porta di Giurisprudenza senza il coraggio di svoltare prima, sulla destra, e cambiare quel che si poteva cambiare finché si poteva cambiare.

Facciamo pace Amore Mio, è colpa tua ed è colpa mia se non ti chiamo mai Amore Mio, se rido di tutti, anche di te e specialmente di me, facciamo pace per le mattine strappate alle notti, per le comunicazioni di servizio, per gli orari di ritiro e di consegna, per tutte le parole che non ci diciamo risparmiandole per tempi meno affollati.

Facciamo pace mamma rappresentante di classe, è vero non ho votato ma non è stata colpa tua e nemmeno colpa mia o forse solo un po’ ma io non mi sento rappresentata nemmeno da me stessa in certi momenti.

Facciamo pace specchio, una volta per tutte, non ti frantumo perché poi sarebbe colpa mia, non restituirmi una me frantumata, ricomponimi, siamo ormai adulti, è colpa tua ed è colpa mia. Sii generoso con me, concedimi le attenuanti, sgonfia la pancia, assottiglia le righe sparse sul viso come scarabocchi sbadati mentre telefoni, ci son cose che succedono perché non possono far altro che succedere, rivendimi la mia immagine come un successo e la comprerò,  sorridimi per una volta e ti sorriderò.

Facciamo pace Amico Mio che mi inviti a pranzo per prendere aria tra due tempi e scegli un tavolo all’aperto sotto gli alberi e non guardi mai il telefono e non parli mai del passato ma solo del futuro, facciamo pace con questi trent’anni che ci hanno portati a ordinare il dolce senza scambiarci un assaggio, facciamo pace con le categorie che usi per vivisezionare il mondo, è colpa tua che hai bambini ancora piccoli, facciamo pace con la libertà che uso per guardare il mondo, è colpa mia che non ho più bambini ancora piccoli. Facciamo pace con gli amori finiti e con i genitori che ancora non capiscono, Amico Mio, mi sembravi tuo padre quando l’ho conosciuto trent’anni fa, chissà io chi ti ho ricordato.

Facciamo pace subdola spia luminosa che ti sei accesa in auto e non ti spegni. Quel che si accende prima o poi si spegne, pensavo, invece tu resti accesa, arancione e misteriosa, un punto interrogativo racchiuso tra una parentesi tonda, sono d’accordo anch’io, l’enfasi e la meraviglia le preferisco sussurrate. Facciamo pace prima che il gommista mi faccia un cazziatone.

Facciamo pace Bambina mia piccola, cosa ne puoi tu e cosa ne posso io se ci annusiamo come bestie e ci mordiamo per poi consolarci l’un l’altra giurandoci amore eterno, facciamo pace con la forma solida delle parole che usiamo, facciamo pace con le gare e con le classifiche, chi viene prima di chi, chi butteresti giù dalla torre, chi salveresti, chi sceglieresti, per chi tifi, chi vincerà al tie break.

Facciamo pace quinto piano dal lato della cucina e dello studio, facciamo pace quinto piano dal lato della sala e della camera da letto, non è colpa tua se ogni volta che passo da lì alzo lo sguardo come se potessi vederli affacciati sapendo che non ci saranno mai più, è colpa dell’età che mi intenerisce a tratti, ho sprazzi di commozione come assenze di lucidità.

Facciamo pace memoria, è colpa tua se sei piena, è colpa mia che non ti ho mai alleggerita. Facciamo pace paura, ci son cose che vanno dimenticate perché non possono far altro che essere dimenticate. Facciamo pace genetica, se vincerai tu non lo saprò.

Facciamo pace, Sonia. Io e te, che non è colpa tua e nemmeno colpa mia.

Vorrei essere

Vorrei essere il maestro Lollo per avere il merito dei progressi di Pepe che non sarebbe Pepe ma Benny con la coda di cavallo e il servizio bello da vedere, vorrei essere il maestro Lollo per stare comodo nelle frasi di Benny quando afferma “ha detto il maestro Lollo di fare così” e non pensa mai, mai, nemmeno per un momento di discutere quel che il maestro Lollo ha detto.

Vorrei essere Pepe con la coda di cavallo quando osserva alcuni adulti giocare a tennis e annoiata li inserisce nella categoria concettuale dei “male impostati”, elaborata da lei per identificare tutti coloro i quali hanno iniziato un’attività sportiva non da bambini e se ne portano dietro l’evidenza, come l’ombra.

Vorrei essere la cassiera del supermercato per sapere se a furia di bippare poi si smette di pensare, io bipperei con furia se sapessi che, almeno, poi fa meno male. E non guarderei più nessuno in faccia, i sacchetti li darei senza chiedere, stenderei a un certo punto anche la faccia sul nastro e la guancia farebbe attrito ma non scivolerebbe via e sfilerei il bancomat un attimo prima per la fretta di mandare via o per la smania di andare via e a quelli che pagano con i ticket tirandoli fuori all’ultimo per mettersi a contarli direi di levarsi dal cazzo e nessuno vorrebbe più passare dalla mia cassa perché sarei la cassiera scontrosa e antipatica e allora resterei a bippare niente e allora non smetterei di pensare e farebbe ancora male.   

Vorrei essere la Vecchia Prepotente per prendermi a schiaffi da sola e forse mi sputerei in faccia allo specchio. No, non è vero. Nessuno vorrebbe essere la Vecchia Prepotente.

Vorrei essere mia madre il giorno in cui sono nata per sapere se ero come mi aveva immaginata anche senza ricci e anche senza capelli, anche senza tracce di lei sulla faccia, se andavo bene lo stesso insomma.

Vorrei essere un maestro di karate ma uno vero. Vorrei essere quel cliente che, una volta, a Lui disse di mandargli un tecnico “ma uno vero” e Lui ha capito chi non doveva mandargli. Vorrei essere un maestro di Karate ma uno vero, uno di quelli che insegnano l’agonismo e la competizione partendo dal basso e salendo come si fa con le scale di valori, uno di quelli che non rivende pensieri riciclati presi dal bidone dei pensieri smessi e li spaccia a una pletora di genitori analfabeti parcheggiati in doppia fila, privi di una qualsivoglia elementare forma di rispetto figuriamoci il resto, genitori male impostati, un maestro vero, uno di quelli che sanno che il sostegno più grande va dato al ragazzo che perde perché a fare il maestro di chi vince sono capaci anche i nani di gesso del giardino.

Vorrei essere Cri con il kimono bianco, che decide di ricominciare da dove non poteva proseguire, cambiando percorso e che si inchina prima di entrare nel dojo e prima di uscire con lo stesso rispetto nello sguardo da otto anni che su una vita di quattordici comincia a essere rilevante.

Vorrei essere la mia amica Betti quando disse a sua figlia di non intristirsi per aver perso a quel gioco sciocco, perché aveva vinto nella vita.

Vorrei essere il mio amico Felice quando disse a suo figlio che non aveva motivo di preoccuparsi per l’esito della gara perché, comunque, avrebbe vinto una tazza, niente di più.

Vorrei essere mio padre per ammettere che non è giusto come mi sono comportato.

Vorrei essere la proprietaria di un negozio di abbigliamento da donna per pronunciare parole come chicchettoso e grintoso in contesti con un senso. “Basta mettere un decolté e subito l’outfit assume un mood più chicchettoso”. “Basta indossarlo con l’anfibio e subito diventa tutto più grintoso”. Vorrei essere la proprietaria di un negozio di abbigliamento femminile per usare tantissimo il verbo sdrammatizzare. “Basta metterci su un chiodo in ecopelle e sdrammatizzi”. “L’abito da cerimonia se me lo indossi con lo stivale nero lo sdrammatizzi”. Lo direi sempre, a ripetizione, passerei le giornate a sdrammatizzare la qualunque, giuro, e forse smetterei di pensare o, almeno, farebbe meno male

Vorrei essere una libraia medicamentosa come alcuni erboristi. Vorrei essere una libraia per intercettare il bisogno sotteso alla frase “do un’occhiata” e suggerire il rimedio. Per te ci vuole un Calvino, per te ci vuole una Barbato, per te ci vuole una Szymborska, per te peschiamo a caso nel catalogo Iperborea e vai, vai lontano, per te va bene questo che è in cima alle classifiche da tre anni senza che io riesca a capirne il motivo ma almeno ti dà di che conversare con gli altri, nel caso.

Vorrei essere la mia migliore amica per avere la voce sorridente.

Vorrei essere il medico che ha rinviato il vaccino di Pepe che però non era Pepe ma Benedetta per lungo e per intero con tanto di codice fiscale e le ha inferto una terapia profilattica di antistaminico e ha girato la palla al collega di turno il giorno dopo.

Vorrei essere il medico di turno il giorno dopo per sapere dove è andato quando è sparito che anche l’infermiera non se n’è capacitata e vorrei non essere me quando ho pensato che fosse in bagno a cercare su Google “Mastocitosi cutanea”.

Vorrei essere Pepe che però non è Benedetta per lungo e per intero con tanto di codice fiscale ma proprio solo Pepe quando butta giù l’antistaminico e sbaglia di proposito la parola “profilassi” e non ha timori perché ha imparato da piccola come si fa con alcune malattie e con alcune parole e non è una male impostata, lei.

Vorrei essere Cri che gira il viso dalla parte opposta quando nella stanza c’è un ago e poi legge King e guarda serie ansiogene su Netflix forte del fatto che il divieto ai minori di 14 anni non la riguardi più.

Vorrei essere quella persona che un mese fa mi ha detto “sei bravissima e puoi fare qualcosa di micidiale”, per esserne convinta e non restare ferma a fissare un punto inesistente davanti a me e tralasciando qualsiasi altra incombenza finché non riveste il carattere dell’urgenza.

Vorrei essere il primo uomo che ho amato per sapere se ogni tanto mi pensa e per chiedergli di perdonarmi per averlo amato da male impostata, ma l’amore per me ha sempre funzionato al contrario e l’ho imparato da grande, ripartendo da zero e cioè da me e affidandomi a maestri, veri, prima piccoli, piccolissimi e poi sempre più grandi, così grandi da convivere con diagnosi incomprensibili, così grandi da ricominciare.

Vorrei essere l’ultimo uomo che ho amato, che un po’ era male impostato anche lui all’inizio, vorrei essere l’ultimo uomo che ho amato perché Lui sa se è vero o no che posso fare qualcosa di micidiale, perché Lui sa quali tracce porto sulla faccia, perchè Lui sa quali pensieri fanno male, perché Lui sa da dove sono arrivata io, quella vera.  

In foto io che cerco di fare qualcosa di micidiale.

Cose stupide

Oggi ho fatto una cosa stupida che ha coinvolto mia figlia. Odio fare le cose stupide perché non sono stupida e quindi ho tutte le abilità per prevenire la commissione di gesti stupidi. Quando faccio cose stupide poi non dormo, non mi addormento proprio, quando le cose stupide le fanno gli altri magari mi sveglio nel mezzo della notte ma non ho difficoltà ad addormentarmi.  Quando faccio cose stupide queste mi rimbombano in testa per lunghi periodi, si appiccicano alle pareti della mia mente e fanno da sfondo a tutti gli altri pensieri perché non so perdonarmi e c’è una parte di me che mi rinfaccia di continuo di aver fatto qualcosa di stupido.

Non ha senso entrare nel dettaglio, oggi.

L’altro giorno ho fatturato per due volte la stessa prestazione a un cliente solo perché non avevo tolto il suo contratto dalla scrivania e non mi sono accorta di aver appena cliccato quel nome, proprio due fatture consecutive, bisognava essere molto distratti per non accorgersi che era lo stesso cliente. Ero molto distratta. La mia testa era altrove, lo è, inutile dire di no o cercare altre scuse. Ho la testa altrove e non posso farci nulla.

Non ha senso dire dove, oggi.

Nel 2014 a maggio della prima elementare mia figlia ha saltato una gara di nuoto perché io ho fatto una cosa stupida. La mamma di un suo compagno mi ha telefonato, dalla tribuna. Mi ha chiesto se davvero la bambina non avesse con sé il costume, l’accappatoio, la cuffia, le ciabatte. Perché, le ho chiesto. Perché, oggi non è giorno di nuoto. No, non lo è ma oggi è il giorno della gara di fine anno, la fanno tutti e lei è a bordo vasca, vestita, seduta sulla panchetta con il maestro che, per inciso, ha le ascelle pezzate. Siamo tutti qui, tu dove sei?

Ero al Viridea. Ha senso dirlo, ormai. Era un mattino lavorativo e io non ero a lavoro. Era un giorno scolastico con una gara di nuoto calendarizzata aperta a tutti i genitori e mia figlia era senza costume, accappatoio, cuffia,ciabatte e senza genitori. Perché io avevo la testa altrove, perché io stavo male, malissimo, ero arrabbiata, inferocita proprio, pronta a scappare e contemporaneamente zavorrata, impossibilitata a muovermi e smaniosa di non farmi trovare.

Arrivo, Monica, arrivo subito. Le ho detto. E piangendo ho fatto una corsa fuori, passando da una cassa qualsiasi perché non c’è l’uscita senza acquisti e io no, non volevo comprare alcuna pianta, io ero lì perché speravo che le piante appassissero tutte solo al mio passaggio, speravo di ucciderle con la mia sola presenza, meglio loro che altri mi dicevo, meglio loro che io, pensavo. E di corsa sono arrivata a scuola. Il maestro di mia figlia ha fatto la faccia desolata, insomma, più che mettere l’avviso, mandare la circolare, confidare nelle comunicazioni tra genitori, alla fine se uno è stupido c’è poco da fare.

No, guardi, ho fatto una cosa stupida ma non sono stupida.

Mia figlia era stretta nelle sue spalle, come se avessimo tolto malamente la gruccia dalla maglia, erano i vestiti a tenerla su e non il contrario. Non piangeva, non sorrideva, non faceva niente, niente in quel suo viso imperscrutabile, niente nel suo sguardo liquido, verdognolo come certe pozzanghere nei boschi. Adesso piange, mi dicevo. Adesso si arrabbia con me, pensavo. Adesso appassisce perché io sono qui, temevo.

Le ho chiesto scusa, scusa, scusa scusa amore mio. Scusa, scusa, scusa amore mio, che tu sei l’amore mio. E piangevo. Piangevo per quella volta che lei appena nata non smetteva di urlare e io ero sola a casa e allora l’ho guardata, sdraiata nel lettone che si dimenava come uno scarafaggio rivoltato e le ho detto, brusca, ma cosa vuoi, ma cosa vuoi tu da me, ma cosa cazzo vuoi e devo aver urlato perché lei è stata zitta e io allora io volevo soffocare, volevo riprendere in bocca tutta l’aria che avevo sputato fuori, volevo rimangiarmi tutte le lettere sillabate e volevo che mi uccidessero, che mi soffocassero, che mi rimanessero incastrate in gola e ho iniziato a chiederle scusa, scusa, scusa scusa amore mio, che tu sei l’amore mio. Piangevo per tutta la rabbia che covavo come una malattia verso suo padre in quei giorni di incomprensioni, di faide lavorative e vendette di famiglia, per il posto dove ero costretta a stare, a lavorare, per le persone che lo occupavano, per me che non sapevo tirarmi fuori da quella situazione in un modo diverso che non fosse scappare al Viridea, a guardare le piante perché morissero tutte al posto mio, in una mattina di maggio.

Oggi sono andata prenderla, mi hanno chiamata a causa della cosa stupida che ho fatto, nessuna amica, nessun tono cordiale, nessuno sguardo di desolazione o di biasimo camuffato da parte di nessuno solo una comunicazione data per quel che è, lei era accovacciata sul marciapiede, lo sguardo al cellulare, non mi ha vista entrare nella rotatoria e accostare appena possibile, mettere le quattro frecce. Io l’ho vista. L’ho chiamata al telefono, ho pensato al taglio dei suoi occhi quando compare il mio nome sullo schermo del telefono, non so nemmeno come mi ha salvata, penso Sonia Mamma, una volta me l’ha detto perché una sua amica l’aveva guardata in modo strano, ma come, tua madre la salvi prima con il nome? Il suo numero è un numero del padre dismesso e poi rimesso in funzione quindi il mio nome c’era già in memoria, lei ha solo aggiunto Mamma e così mi ha salvata. Non ha senso dire in che senso. Ho pensato al suono della sua voce, che non tradisce mai nulla. Ho pensato alle sue spalle, che non le piacciono perché sono troppo larghe e che a me piacciono perché sono belle larghe. Ho pensato che per colpa mia era accovacciata sul marciapiede di un quartiere di merda e che se fosse stato un altro quartiere forse sarebbe stato diverso vederla così.

Quando è entrata in macchina volevo piangere e lei invece anche secondo me ma non ha pianto e io ho imprecato non contro di lei ma contro il cielo che non tuonava, basta con questo caldo, io adesso voglio l’autunno perché non so più come vestirmi e contro il luogo dove pratica sport e forse anche contro il colore della divisa della società sportiva. E le ho detto che non ci sto tanto con la testa, che le zanzare non le sopporto più, che ho bisogno che lei e sua sorella mi stiano lontane un po’ perché non meritano questa mia energia che cerca di sterminare le piante e immagina di schiacciare quel cagacazzo con il monopattino. Questa che mi fa dire cose tremende perché le penso e mi fa fare cose stupide anche se no, non sono stupida, non sono stupida nemmeno un po’, questa che mi chiede di esplodere, mi implora di esplodere e cambiare tutto, che mi fa pensare cose tremende e me le fa dire con la disinvoltura dei matti o degli ubriachi. Statemi lontane un po’, quando sono così, quando mi sentite così, statemi lontane perché non c’entra niente con voi, è tutta roba mia che non vi deve sfiorare, non vi deve riguardare, è solo roba mia questa testa che va altrove, questa incapacità di chiedermi scusa. E mentre le dicevo che era colpa mia, che avevo fatto io la cosa stupida per la quale era stata accovacciata sul marciapiede ad aspettarmi senza vedermi, per la quale avevo odiato quel quartiere di vite senza possibilità, immaginavo che si sarebbe chiusa in camera sua, con i suoi libri o con i manga e che non mi avrebbe mai più parlato di quanto accaduto oggi ma ci avrebbe pensato sempre in futuro: quella volta che per colpa di mia madre è andata così. Quella volta che per colpa di mia madre non ho potuto fare la gara di nuoto davanti a tutti i genitori. Quella volta che per colpa di mia madre le piante sono morte tutte. Quella volta che per colpa di mia madre ho passato il pomeriggio a progettare di andare via, di starle lontana, di non vedere la sua testa che va altrove senza poter far nulla per trattenerla. Quella volta che per colpa di mia madre ho smesso di urlare il mio adattamento al mondo nel mezzo di un letto enorme. Al semaforo l’ho fissata, per la prima volta eravamo senza musica in auto, e le ho chiesto scusa. Scusa, scusa, scusa scusa amore mio, che tu sei l’amore mio.

Udite Udite (ho passato)

Cristina ha iniziato il Liceo, Pepe la seconda media e io ho iniziato a svegliarmi di nuovo prima che suoni la sveglia per non farmi trovare impreparata mannaggia a me. Occhi sbarrati al soffitto e imprecazioni come screen saver del cervello, con effetto rotante e luminoso che fa molto anni ‘90, quando andavo io al Liceo. Pepe si è messa d’accordo con la sua amica per i banchi da riservare, la prima che è arrivata li ha tenuti per l’altra. Cri invece ha avuto un incontro in aula magna e poi è stata smistata nella sua classe, un po’ come con il Cappello Parlante. C’è questa cosa per cui i genitori non potevano entrare il primo giorno, è giusto le ho detto, ti pare andare al Liceo con la mamma? Però, ho aggiunto, però, io con la mascherina e gli occhi un po’ truccati e lo zaino buttato su una spalla sola sembro una ragazza del quinto anno? Secondo me si. Hai voglia mi ha rassicurata lei. Poi adesso pare che si trucchino le occhiaie. Pazzesco. Ragazzine con la pelle naturalmente liscia che si disegnano occhiaie bluastre e grinzose per avere l’aspetto sbattuto. Allora posso sembrare anche una del quarto anno. Invece niente, non sono entrata, che poi io al Liceo non tornerei nemmeno se mi pregassero o se mi pagassero o se mi offrissero tutto quello che voglio. Per niente al mondo. Quelli sono stati tra gli anni più infelici della mia vita, durante i quali ogni innesco di gioia o soddisfazione è stato spento a titolo precauzionale prima che riuscisse solo a scaldarmi, non dico a bruciarmi. Da Cri sarei entrata solo per assicurarmi che stesse bene, tanto lo so già che la merenda non la mangia e che se non le rivolgono la  parola lei non lo fa per prima, mica come Pepe che parla anche con i muri ed è in grado di farsi rispondere. Io ero come Cri. Per questo volevo solo dare un’occhiata, poi sarei uscita anzi scappata e avrei assaporato la libertà di essere adulta, adulta vera, quella libertà per cui si, è vero, c’è tanta gente che ti rompe i coglioni ma tu puoi tappare le orecchie e fare gnègnè e ti puoi permettere di non sentirli. Da ragazzo no. Mi sono attenuta alle indicazioni e ho aspettato entrambe in ufficio, la grande con il passo sicuro di chi sta facendo qualcosa per la prima volta e la piccola che per la prima volta a scuola non è più la sorella minore di qualcuno ma è solo lei. Ho passato le prime mattine ad aspettarle, lavorando per distrarmi lo confesso, riversando sul cagnetto attenzioni in eccesso costringendolo a rintanarsi dietro una tenda pur di sparire al mio sguardo pietoso. Dopo qualche giorno è tutto più disinvolto, non siamo ancora al livello della consuetudine ma puntiamo dritte in quella direzione e anche il cagnetto lo vedo più sereno.

Quest’anno vinciamo il primo premio per l’organizzazione. Abbiamo i libri foderati, ne mancano ancora tre o quattro per Cri e uno solo per Pepe, abbiamo fatto scorta di ricambi a righe e quadretti, evidenziatori, gomme e matite. Abbiamo jeans nuovi a vita alta perché a vita bassa sono da sfigate. Abbiamo scarpe per educazione fisica da tenere pulite. Abbiamo ritirato il libretto delle giustificazioni e comprato il diario, Pepe ha voluto la Smemoranda rosa fluo per poco non me la ricompravo, mi son dovuta trattenere razionalizzando l’evidenza di non averne bisogno, ma tornata a casa ho recuperato le mie, dal fondo del mio Invicta ginnasiale. Ho trovato una fotografia di me e Mara in gita a Parigi,  siamo vicinissime sotto un ombrellino con le punte piegate dalla forza dell’acqua, opponiamo una debole resistenza agli eventi atmosferici e ridiamo. Le ho mandato la foto della foto, le ho detto ti pare che mia figlia inizia il Liceo quando noi dobbiamo ancora finirlo? Infatti, non le pare, nemmeno a lei. Non può essere. Eppure è. Questo è.

Ho scoperto che detesta il suo nome. Mia figlia, l’ha scritto nel gruppo WhatsApp della classe nuova, si è presentata e ha chiesto di essere chiamata Cri perché detesta il suo nome per lungo. Ma sei scema, le ho chiesto? Ma sai quanto tempo ci ho girato intorno? Ma sai la fatica di trovarlo e pronunciarlo tante volte per sentirlo, per sentire come sarebbe stato chiamarti nella mia vita, parlarti, come sarebbe stato rivolgermi a te mentre ti immaginavo e non ti sapevo, non ti potevo sapere? Niente, mi ha detto che scritto va bene, ma pronunciato per lungo non le piace. Allora, l’ ho rassicurata, ti scriverò un biglietto per mandarti a cagare.  Anche un’altra sua compagna ha chiesto di essere chiamata con il diminutivo perché detesta il suo nome, ma lei ha ragione  perché ha un nome orrendo. Ma Cristina. Cristina. Dai, su, è un nome che va bene con qualunque titolo accademico a precederlo, va bene dall’asilo nido al pensionato per anziani non autosufficienti, va bene se diventi zia o nonna, va bene sempre. Va bene con il cognome. Non le piace nemmeno quello, mi ha detto. Perché è corto e secco, tempo di dirlo è già finito. Allora ti faccio fare un giro con il mio, le ho suggerito. Ho passato gran parte della vita a scusarmi e a fare lo spelling prima di imparare che non mi devo scusare proprio di niente, se lo capisci bene altrimenti gnègnè.

Io ti piaccio, le ho chiesto. Per sicurezza, per rassicurazione. Si, a volte, molte volte, il più delle volte, dipende. Dice che se dovesse riassumere il nostro rapporto sarebbe così: madre che si agita perché non trova qualcosa, generalmente in borsa, e spazientita dice Criiii, strascicando la iiii, bella lunga a buttare fuori l’aria dopo l’apnea bene da coinvolgere il diaframma. Figlia che non si scompone per niente, come suo padre, e dice alla madre che ciò che sta cercando è sicuramente lì dove lo sta cercando solo che non lo sta vedendo. Mi ha fatto ridere moltissimo, perché è vero e a me la verità fa sempre questo effetto qui, mi fa ridere. Le bugie mi fanno incazzare. È così: Cristina mi rassicura, dovrebbe essere compito mio, anzi è compito mio e io lo eseguo, io ci sono, sempre, spesso, ogni volta che serve e anche quando non serve perché lei sia al sicuro, e non dovrei dirlo ma ci sono di più che con Pepe o forse solo diversamente perché lei ne ha avuto più bisogno, perché lei è stata usata per colpire me e suo padre, ecco perché continuo a stare di guardia. Però, questo faccio io, la tengo al sicuro mentre lei mi rassicura. Da sempre. Dal battito intercettato in una placenta lacerata, ravanato tra il sangue quando tutto sembrava perduto. Il tutto era lei. Ho passato settimane a pregarla di restare con me, piccola divinità contenuta nel mio utero e lei ad ogni visita mi rassicurava, piccolo extraterrestre dalla testa allungata e le dita ossute, telefono casa. La casa ero io.

Domani è il mio compleanno. 43. Iniziano a suonare stranamente, come se ormai il decennio fosse avviato non più come qualcuno che si affaccia a guardare, non posso più dire che do solo un’occhiata insomma, ci sono dentro. Ma va bene. Va bene per davvero, forse è il momento di vita nel quale sono più felice ma tengo stretto il forse perché io ho sempre avuto paura dell’invidia degli dèi più che dell’invidia degli uomini. Mi è spuntato un gran brufolo nel centro della fronte, anche quando è nata Cri ne avevo uno uguale, uscito fuori con me dalla sala operatoria. L’ho guardato e ci ho messo su il ciuffo per coprirlo. Ho passato anni a camuffarli, avendone pochissimi non tolleravo nemmeno quei pochi giorni di passaggio sulla mia pelle e giù di spremitura e correttore e fondotinta e intrugli di varia natura. Ho mal di testa a fine giornata, gli occhiali mi sembrano un balsamo. Ho passato anni a nasconderli in fondo alle borse sperando di non romperli perché avrei dovuto spiegare ai miei genitori come mai gli occhiali non si trovavano sul mio naso. Ho capito di essere diventata adulta, adulta vera, quando mi sono potuta permettere da sola due paia di occhiali, uno da tenere sempre in ufficio. Mi sono comprata un completo color malva che mi sta benissimo. Ho passato la vita a vestirmi di nero pensando che bastasse a rendermi invisibile. Cri ha un bellissimo pullover celeste, lo abbiamo comprato insieme qualche giorno fa, se non lo metti tu lo metto io ci siamo dette reciprocamente. Lo tormentava con la mano destra prima, mentre mi raccontava della professoressa che ha conosciuto oggi, vorrebbe diventare come lei che ha detto ai ragazzi che il suo compito è quello di trovare il loro demone e tirarlo fuori perché possano scoprirlo. Ho invidiato la possibilità di questa donna di stare così dentro mia figlia nei prossimi cinque  anni, di potersi avvicinare così tanto al suo talento da vederne l’innesco. Ho passato gran parte della vita a ridurre in silenzio il mio perché così avevo capito che bisognava fare con i demoni, anche se sono buoni, anche se siamo noi. Per fortuna non si può fare per sempre. Ho passato alle mie ragazze vestiti e scarpe e libri e gioielli e tutta me stessa, tutti i pezzi che volevano, perché non sperassero mai di essere invisibili. E ho passato sul viso di un uomo le mie mani ragazze e le mie mani adulte, adulte vere, che lasciano i segni mentre guariscono, Lui pensa siano segni del tempo e invece sono io incastonata nel suo sguardo. Ho passato notti terribili e giorni stentati, ho passato esami e semafori con il giallo. Ho passato molto tempo arrabbiata e ho passato molto tempo ridendo. Ho passato qualche battaglia, ancora nessuna guerra, ho passato compleanni fissando un telefono muto, ho passato giorni interminabili e anni velocissimi. Ho sciolto nodi, ho afferrato le corde, le ho tenute strette come faccio solo con le mie ragazze e con i miei forse. Mi ci sono aggrappata come faccio solo con le mie ragazze e con i miei forse. Le ho passate intorno a un ramo e mi sono dondolata, che questo ho imparato da adulta, adulta vera, a dondolare da sola. Ho riso, perché sono vera.