Figuriamoci se non compariva anche quello che “mi sono fatto un’ idea”.
Ma , visto il soggetto, si è fatto “un idea”, perchè è uno di quelli che non mette l’apostrofo.
E si è fatto unidea.
Di me.
Che lo metto anche quando la penso, un’idea.
Quindi, si è fatto unidea sgrammaticata di me, sulla base di un racconto sgrammaticato narrato da soggetti con evidenti problemi di apprendimento.
Tutto questo, giuro, mi sta anche bene. Come si dice, bene o male, purchè se ne parli.
Quello che non mi sta bene è che questa idea venga spacciata a basso costo per VERITA’ e rivenduta a fruitori di certezze da discount.
Finchè unidea resta nella testa , più o meno capiente, del suo creatore nessun problema.
Ma se pretendiamo di vederla uscire come Atena dalla testa di Zeus per ammantarsi di una veste nobile, allora no.
Allora cosa vuoi?
Allora chi ti conosce?
E’ormai talmente usuale giudicare una persona per interposta persona, senza avere una relazione diretta , che non ci meravigliamo più. Si spia un profilo facebook, instagram, basta sin anche uno stato di whatsapp , e si crea un fascicolo personale, da usare con valore probatorio a dire “visto? visto? lo dicevo, avevo unidea io!!!”
Eppure sono qui, vivente, contemporanea, in grado di rispondere. Volevi unidea?
Ti avrei aiutato a fartene una.
Ti avrei raccontato di me.
Tu avresti potuto chiudere gli occhi, metterti comodo, allentare la cravatta, slacciare i lacci delle scarpe inglesi che hai bramato così tanto da ragazzino, quando ti compravano le scarpe da Togo in periodo di saldi.
Ed io ti avrei parlato lentamente, senza paroloni, magari con qualche parolaccia, passando dal tono giocoso a quello serio, alternando la commozione al riso come nella vita, come la vita. Ti avrei descritto quei momenti di me che meriterebbero la scena di un film, il quadro di un pittore, un accompagnamento di violino al tramonto. Non ti avrei celato nemmeno quei momenti di me che meritano le risate da cabaret, gli applausi finti delle sit-com americane degli anni novanta ed in alcuni casi la censura.
Tutti i miei segni più, tanti miei segni meno. Come nella vita, come la vita, che è così: due negazioni affermano, più per meno meno.
Perchè il meno quando arriva porta via il più. Lo ingoia, lo ingloba, lo cambia.
Conosco tanti che sono il risultato di più per meno e che avrebbero il segno meno cucito addosso come la lettera scarlatta , se la matematica fosse la vita.
Ti avrei detto che la matematica non l’ho mai capita e per me più per meno fa forse.
E che posso essere meglio di come sono. Ma anche peggio.
Che mi sono cercata ovunque e trovata solo grazie a parole stropicciate su fogli strappati, vaganti, persi, dimenticati, ricomparsi, spariti.
Ti avrei raccontato che mio nonno aveva le mani grandissime e mi faceva aggiungere le 500 lire di panna montata al gelato . Sempre. Anche se non la volevo. E mi metteva il profumo per farmi le foto. Giuro. Mi scattava un sacco di fotografie e ogni volta compiva lo stesso rito: si abbassava sulle ginocchia, tirava fuori dalla tasca interna della giacca un pettine marrone e mi sistemava la frangetta dicendo ogni volta ” Soso’, devi dire a mamma che te la taglia un poco questa frangia”, proprio così, “la taglia” e non “che te la faccia tagliare un po’”. Poi dalla tasca esterna della giacca sfilava il suo fazzoletto bianco, piegato in 4, stirato perfettamente, imbevuto del suo profumo e me lo passava sul viso “ecco, ora in posa, sorridi, spontanea” e scattava.
Tu hai un fazzoletto profumato in tasca, per prenderti cura di qualcuno?
E ti avrei detto della panchina.
In Via Riberi, vicino a Palazzo Nuovo, c’è una panchina di cemento dove io e Mara abbiamo assemblato fisicamente la sua tesi di laurea per portarla in copisteria, poche ore prima che scadesse il termine per la consegna.
Quel giorno c’era un vento fortissimo.
E lei era in paranoia totale.
E lei è mia sorella per scelta.
Meno di 10 anni prima la nostra amicizia era nata su un’altra panchina, a Verona, in gita scolastica.
Quel giorno, quello della tesi, il vento faceva volare via tutti i fogli ma ci lasciava i pensieri, spettinava i capelli e portava via le parole che non ricordo più. Ma so che ridevamo. Di noi, su quella panchina a comporre la tesi.
Io so che da vecchie saremo insieme su una qualche panchina, in una giornata di vento a lasciar andare i pensieri e trattenere le parole nella memoria incerta. Ridendo di noi.
Tu hai qualcuno di tanto importante che ti aspetta su una panchina?
Poi ti avrei raccontato di quella volta che sono entrata in pizzeria vestita come per andare al peggior veglione di Capodanno. Era inverno, indossavo il cappotto con il collo di pelliccia, avevo circa venti anni e le labbra color del fuoco anche senza il rossetto.
La cameriera mi ha mostrato l’appendiabiti, al fondo della sala. Non perdo l’occasione di sfilare. Sorrido al mio fidanzatodell’epoca, mi sfilo il cappotto e a lunghe falcate percorro la sala piena di tavoli occupati. Come la peggiore Kate Moss dei poveri sento tutti gli occhi su di me, torno al tavolo come se fossi in passerella ed ancora tutti gli sguardi su di me. Penso “questa minigonna è una bomba”.
Il mio fidanzato mi sorride stranamente divertito.
Scopro che la minigonna si era alzata fino a diventare una cintura, scendendo dalla macchina credo.
Avevo sfilato con indosso il perizoma delle grandi occasioni e delle peggiori intenzioni coperto da un velatissimo collant nero 20 denari senza cuciture.
Tu, tu hai mai fatto girare più di una testa per il tuo culo?
Avresti saputo di Cocò, la mia bellissima nonna che mangia i mandarini appena comprati al mercato, mentre guida per tornare a casa a preparare il pranzo, prima che torni nonno “dalla Ditta”. In un attimo la Renault 5 si riempie di quel profumo che le rimane anche sulla pelle delle mani ed io lo sento perchè mi fa quel gioco che sembra un buffetto, uno schiaffo, ma che è una carezza, un gioco che definisce il contorno del mio viso e lo disegna e la mano scivola via veloce mentre lei ride, ride di ogni cosa anche di quel mandarino che non ha lo stesso sapore di quelli di Ciaculli che mangiava prima.
Io lo so che prima vuol dire prima di Torino, prima di diventare un’esule e socchiude gli occhi, che hanno lo stesso colore dei miei, e dondola leggermente la testa scuotendo i ricci morbidi e corvini che io non ho, cullata dalla nostalgia per un attimo, questa mia bellissima nonna giocosa, diventata straniera anche a se stessa, ammalata di un dolore che non si è mai lasciato guarire e ha voluto solo farsi dimenticare inghiottito dall’alzheimer.
Lui invece, sempre “in Ditta”, era lì anche quando gli ho parlato per l’ultima volta, sai.
Dovevo dare un esame importantissimo. So che anche su questo hai avuto informazioni.
Ma non sai che mi ha detto “supererai anche quello”.
E’ morto prima di sapere che non l’ho superato. Ma ho scoperto che non si riferiva all’esame. Ed allora, si, si, aveva ragione lui.
“Quello” l’ho superato.
Tu, tu hai qualcuno che sa che ce la farai?
Hai una carezza di zagara da lasciare a qualcuno per gioco?
Sicuramente ti avrei raccontato di Stefano. Tutto. Con dolcezza. Con tenerezza, per quella ragazzina di 17 anni così intensa e viva.
Si dice che si bacia prima con gli occhi e poi con le labbra, ma ti giuro che quando si bacia anche con la pancia, quando il bacio arriva alla pancia e parte dalla pancia e tutto è un groviglio che non sai più cosa è iniziato dove, allora quel bacio vale tutto. Vale l’alba insieme e ogni minuto di ogni ora di ogni giorno senza respiro, salire su un treno interregionale con in tasca un biglietto da 12.000lire e basta, in un tempo senza cellulari, con lo zaino del liceo in spalla, il maglione regalato tatuato addosso e Stefano in testa, nel cuore, nella pancia quel groviglio, sono io, sei tu, siamo noi, i tuoi ricci e i miei capricci, il tuo sorriso e i miei capelli biondi che tra le tue dita sono più belli, e le tue mani e le mie mani, arrivo, scendo, aspettami al binario, abbracciami , Milano Centrale si ferma, Milano si ferma, il Mondo si ferma, siamo fermi anche noi in quell’abbraccio sempre più stretto.
E non riparte per un po’.
Quando quell’abbraccio non c’è più.
Quando il groviglio è quello della fine e non è più nella pancia ma in gola. Brucia.
Quando il sabato non si va più in stazione con 12.000lire in tasca, ma dritta a casa per fare la versione di greco per lunedi, tua sorella ha 5 anni e tiene il volume dei cartoni animati alto, tuo fratello invade gli spazi che dovrebbero essere condivisi, ma non vuoi condividere nulla perchè allora prendetevi anche un pezzo di questo male alla gola, di questo blocco di cemento nella pancia, dove prima c’erano i baci, i ricci, la scoperta impacciata di quanto sono belli i brividi lungo la schiena.
Quel maglione come unica prova, come fossile di un ultimo abbraccio.
Avevo 17 anni.
Ne ho 39.
Il maglione è in fondo al mio armadio.
E tu? Tu hai un maglione capace di abbracciare?
Chissà, forse ti saresti addormentato arrivati al punto in cui mio fratello va in vacanza studio a Londra, poi ci torna per trovare i nuovi amici. Poi si trasferisce. E si porta dietro la mia infanzia, la mia essenza, quella parte grezza sconosciuta ai più. Lui ce l’ha tutta con sè, nelle rughe intorno agli occhi per i pianti insieme e soprattutto in quelle intorno alla bocca per il troppo ridere. Unico depositario di tante verità.
Tu? Ti sei infilato per sempre nelle pieghe di qualcuno che ti tiene con sè, tanto lontano e così vicino?
Ma ti avrei svegliato, per raccontarti che il 27 maggio del 1986 ho fatto i buchi alle orecchie in una gioielleria di Corso Agnelli. Non avevo ancora 8 anni,tenevo per mano mia madre che quel giorno ne compiva 30 ed indossava jeans e una maglietta bianca, aveva i ricci lunghissimi come Cocò. E si stava dedicando solo a me. Eravamo io e lei, mano nella mano come non saremo più state, unite in una presa stretta ma leggera, solida ma lieve. Era prima che la depressione la scavasse, erodendo pezzi che non sono più tornati. Prima dei pomeriggi passati a guardarla inerme su in divano, coperta da un plaid a scacchi. Prima di tante cose mai dette, mai affrontate, capite dolorosamente.
Ho ripensato a quel giorno tante volte da quando sono mamma. Quella sensazione di cura, dedizione, amore, provata quel giorno è stata la mia bombola di ossigeno tante, tante volte. La mia scorta d’amore. Ho capito perchè odio i plaid a scacchi. Ho capito che siamo tutti frangibili. Ho capito che bisogna tenersi per mano con la giusta pressione, non stringere, non lasciar andare perchè ciò che scivola via non lo si recupera. Ma che bisogna sempre tenersi per mano.
Tu? Tu hai una bombola di ossigeno?
Di certo non ti avrei raccontato di lui. Lui che se la notte allungo la mano lo trovo accanto, lui che se di giorno allungo la mano lo trovo accanto. Lui che se chiudo gli occhi lo trovo dentro.
Perchè non avrei saputo cosa chiederti, alla fine. O meglio, non penso che tu abbia le risposte alle mie domande.
Tu hai mai amato qualcuno per come sei? O anche tu pensi che amare sia amare l’altro per come è? E in questo caso, come si fa con il cambiamento? Come fai quando l’altro cambia? Tu sai che nella vita si cambia continuamente? Che il cielo che vedi il mattino non è lo stesso che vedi la sera? Ti sei mai messo di fronte a qualcuno nella tua versione peggiore per dargli anche quello di te? Ti sei amato nello sguardo di un’altra persona?
Potrei continuare, ma in fin dei conti non mi serve a nulla cercare di trasformare unidea contraffatta in un’idea. Tu sei uno da contraffazione.
Sei uno da citazioni ricopiate da un sito di brocardi latini. Sei uno salvato dai giga dell’I-Phone.
Io non sono salva, non sono salvata. Non sono salvabile. Non mi interessa il tuo profilo facebook perchè non mi piace il profilo del tuo viso, non tanto per le cicatrici lasciate dall’acne, in realtà le cicatrici più imbarazzanti che hai non si vedono …
E non mi piacciono i tuoi occhi, piccoli, mai diretti, occhi da sotterfugio.
Non mi piaci tu.
E alle citazioni ho sempre preferito i proverbi, così diretti e sicuri.
Il mio preferito è ” chi si fa i fatti suoi campa 100 anni”.