Ciao

 

2017

 

La partenza di Cri sul pulmino della squadra di Karate, primo viaggio senza di me, primo pezzetto di pelle lasciato in terra in quesa muta che la porta ad essere contemporaneamente la mia bambina coccolona  e una ragazza alta, musona e bellissima.

Tutti i libri che ho letto, decine, e più di tutti Fato e Furia e quello stare insieme per tutta la vita che è anche pulirsi il cesso.

La maestra che scrive sul diario di Pepe “creatura speciale questa bambina”.

L’apparecchio ai denti di Cri e la sua mano a coprire i sorrisi, tranne quando è distratta, quando è distratta sorride con le mani in aria, strizza gli occhi da cinesina e tutto brilla, anche la ferraglia in bocca.

Mamma orsa. Il mio nuovo soprannome.

Il tavolo della cucina rovesciato a terra, piatti e bicchieri in frantumi ma i cocci davvero pericolosi e taglienti non erano quelli sul pavimento, erano quelli che avevo io dentro, nelle lacrime congelate, lame pronte ad uccidere, stalattiti sul soffitto.

Il treno per Torino da sola.

Pepe che canta Su di Noi di Pupo. Pepe che canta Pupo fa per forza ridere.

Cristina nel lettone che dice grazie, grazie per questa festa.

La cena con Palma e Roby,amiche nuove eppure amiche della vita. Quella vera, che se ne frega del lavoro che fai , della religione, della politica, la vita quella vera che importa come stai.

Atterrare in Sicilia e non essere più un’apolide, guardare il cielo all’orizzonte e sentire. Parole lontane, filo che unisce, odore di noccioline tostate, un bacio che pizzica di barba, guardare quel mare e ritrovare occhi verdi con lo stesso sguardo solitario  dei miei occhi neri, neri come quella sabbia vulcanica.

Tutte le mie parole.

Tutti i miei demoni.

Spotify.

La luce della Sardegna e quell’aereo da prendere da sola.

La paura di morire.

Non essere morta.

Il  walking.

Angelica in braccio a suo padre,la mia idea di forza e protezione. Perché un neonato in braccio a sua madre,a sua nonna, a una donna è immagine di vita, di natura, di madonna adorante. Ma un neonato in braccio a suo padre per me è la forza, è lo scheletro, la struttura, la solidità.

La montagna generosa e libera, pericolosa e semplice.

Il Cristo del Mantegna, una madre che piange il figlio morto. Carne, lacrime, terra,e niente anime, solo robe di corpi che solo così può essere una madre che piange  suo figlio.

Le porte chiuse per sempre. Per rispetto a me stessa.

Le colpe degli altri lasciate agli altri.

Le responsabilità degli altri lasciate agli altri.

I dolori degli altri lasciati agli altri.

Io.

Piacere di conoscermi, finalmente.

I numeri di telefono cancellati dalla rubrica del cellulare.

I gruppi whatsapp abbandonati senza che mi freghi se sembra brutto.

Il numero dei nonni che non userò mai più perché nessuno risponderà mai più. Ma che non cancello.

Le mie figlie che vanno alle feste di compleanno da sole,le vado solo a riprendere, non devo più accompagnarle e stare lì a guardarle con i calzini antiscivolo rotolare tra cento palloncini colorati che scoppiano come il pluriball provocando i pianti dei più fifoni, chiacchierando con qualche mamma, ascoltando con autentico interesse delle prodezze sugli sci- fa già la nera, adora lo sci club, è tanto felice il sabato mattina quando lo sveglio alle 8 per infilarsi gli scarponi-, del nuoto- ha una gara domenica alle 7 del mattino, sapessi quanto è felice di farlo- , del pianoforte- ha un orecchio musicale raro, si eserciterebbe per ore- … eppure la maestra lamentava la scarsa autonomia nello spogliatoio di ginnastica, pare che non sappiano qual è il dietro e il davanti dei pantaloncini, ma si vede che parlava di altri, non di questi…fino al momento in cui si aprono i regali e tutti dobbiamo intonare scarta la carta scarta la carta scarta la carta diretti in questa orchestra assurda dall’animatore, animale mitologico con le gote dipinte,  triste rimasuglio, ultimo anello della catena alimentare in un villaggio dei viaggi del ventaglio stagione 1996.

Il mio nuovo parrucchiere, un genio.

Il colloquio con il preside perchè la supplente scrive “qual’è”.

Mara.

La crosta sulle ferite.

Progettare di andare via.

Scegliere di restare.

Tirare su il tavolo e  apparecchiare di nuovo.

Non dimenticare.

Pulire il cesso.

Ogni mia risata, schiaffo in faccia a chi si è fatto delle idee.

La consapevolezza che non c’è soluzione di continuità.

Non ricomincia il contatore, non si parte da zero.

Si continua e si aggiungono pezzi, se ne perdono altri ed ogni tanto ci si ferma a fare la conta, come in quel  gioco  “celo manca”.

Da qui continuo.

Dalle mie parole ritrovate. Celo.

Dalle mie bambine. Celo.

Da me. Celo, finalmente.

Piacere di conoscermi.

 

 

 

Credimi

 

 

Io non credo.

Ai buoni propositi per l’anno nuovo

A quelli che mangiano l’uvetta del panettone

Agli hashtag in inglese

Alle citazioni di Pavese.

Io non credo.

Che i gatti siano affettuosi

Che invecchiando ci si intenerisca

Che i bambini siano tutti belli

Che se li tagli li rinforzi, i capelli.

Io non credo.

Ai tatuaggi “dove non si vede”

A chi mi tocca quando parla

Ai vestiti da sposa semplici

A chi ha alibi e non ha complici.

Io non credo.

Che Dio si sia fatto uomo

Che il mare sia meglio

Che chi nasce tondo non muore quadrato

Che il destino sia già stato assegnato.

Io non credo.

A chi ripete il mio nome mentre mi parla

A chi fa i backup periodici del computer

A chi è troppo orgoglioso

A chi non è mai permaloso.

Io non credo.

Che ride bene chi ride ultimo

Che parità e uguaglianza siano sinonimi

Che dopo il gelato non si possa bere

Che tanto stiamo a vedere.

Io non credo,

Che se sei grasso il nero sfina

Che l’importante è partecipare

Che il silenzio è assenso

Che ti importa cosa penso.

Io non credo.

Ma penso.

Che i quaranta sono vicini

Che Dio sia in ogni uomo

Che io sono una

Che non mi importa della luna.

Io penso e ripenso.

A me bambina timida e impacciata

A me ragazza triste e arrabbiata

A me giovane donna bella e sfrontata

A me sempre e comunque incazzata.

Io penso e ripenso.

Alle scarpe in vetrina

Al lavoro da fare

A perchè ho sbagliato

A dove ho parcheggiato.

Io non credo.

Ma penso.

Che il Natale non sia magico

Che i cani siano meravigliosi

Che i fiori marciscono nei vasi

Che ci si può baciare strofinando i nasi.

Io non credo.

Ma penso.

Che non sono stata felice

Che chissà chi lo è per davvero

Che non si vedono i miei anni

Che dimostro tutti i miei danni.

Io non credo.

Ma penso.

Ai miei nonni che sono altrove

Agli affari miei che è meglio

Agli amici

Ai nemici.

Io non credo.

Ma penso.

Alla donna felice di oggi

Alla luce sul comodino

Alla tempesta

A ciò che resta.

Io non credo.

Ma penso.

Che l’onestà sia un valore

Che come tale non vada esibita

Che il gelato al puffo non sia buono

Che dopo il lampo arriva il tuono.

Io non credo.

Ma penso.

Che il tempo non guarisce ogni ferita

Che in amore ci si trova solo se si è disposti a perdersi

Che scordare e dimenticare non siano sinonimi

Perchè cuore e mente non sono uguali negli uomini

Che se anche vedo io non credo.

Ecco perchè penso.

 

 

 

Bene Dicta

 

 

Benedetta detta Pepe

Luce che passa dalle crepe

Arrivata nel caldo di agosto

Per mettermi al mio posto

Tu con gli occhi di nocciola

Mi hai portata ancora a scuola

Ad imparare la pazienza

Perchè sono nata senza

Con i tuoi capelli biondi

Nelle foto mi confondi

Così simile a me

Sono io o sei te?

Dal nonno hai preso il naso

E questo non è un caso

Come lui hai anche il fiuto

Quando ho bisogno di aiuto

Tuo papà lo hai ignorato

Tutto a Cri aveva già dato

Da piccina con le coliche

Invenzioni così  diaboliche

Mi hai tolto sonno e respiro

Dandomi più di un capogiro

 

Benedetta detta Pepe

La mia luce tra le crepe

Con la copertina rosa

Per la nanna assai preziosa

Con le tue  lacrime in tasca

Tante da farne burrasca

Che poi basta poco o  niente

Una parola divertente

Perché tu rida di gusto

Grazie a te io mi aggiusto

Per te la vita è tutta fuoco

So che ti brucerai non poco

Amerai con tutta la pancia

Chissà se porgerai l’altra guancia

Tu che senti forte il rumore

Perché lo senti con il cuore

E vedi di più l’ingiustizia

Perche non conosci la furbizia

Agisci sempre d’istinto

E riconosci un sorriso finto

 

Benedetta detta Pepe

La luce tra le mie crepe

Sei la polvere dorata

Sigillante che mi ha riparata

Noi ci siamo scelte altrove

Forti di un amore che commuove

Sei stata capace di sfidare Dio

“da lei ci vado solo io!”

Con il dito puntato su di Lui

“non darci momenti bui”

Pronta a chiedergli anche i danni

Se non ci darà quanti più anni

Ma quando verrà l’ora del saluto

E il mio tempo sarà compiuto

Avrò un solo e unico rimpianto

Di non poter consolare io il tuo pianto

Allora, qui e ora, ti dico che la vita

Non è una vicenda infinita

Che la vita è solo un contenitore

Insufficiente per tutto il mio amore

E dall’altrove dove io sarò

Sempre e per sempre ti amerò

Perché non il tempo che ci è consentito

Ma siamo io e te ad essere infinito.

 

 

Aritmia

 

 

Io non sento il ritmo.

È tutta la vita che mi sento dire che sono aritmica: non ho imparato a suonare uno strumento perché sono aritmica, non so ballare perché sono aritmica, sono stonata perché sono aritmica, non capisco la metrica perché sono aritmica.

Ho cercato il significato della parola, oltre quello ovvio dato dall’ alfa privativo. E ho visto che l’ambito naturale dell’aritmia è quello medico. Si dice aritmia del polso, aritmia del cuore  e non è che non hai il ritmo del polso o del cuore.  Hai un ritmo diverso. Irregolare rispetto agli altri.

Mi sono sentita meno aritmica. Di essere irregolare lo so da sempre.

Come un verbo, come un numero primo, come una sequenza .

Sento i suoni, ma li sento a modo mio. Li sento da irregolare. Li sento con il tatto e non con le orecchie. Li sento con l’olfatto e non con le orecchie. A volte li sento con gli occhi, non sempre. Ma non li sento con le orecchie.

La musica mi arriva  come uno schiaffo o come una carezza.

Le parole hanno un suono che sento sulla pelle. Le parole sono taglienti o affilate, roventi o congelate, scavano o sfiorano, lenitive o urticanti.

Le parole profumano o puzzano.

Le parole sono il mio mondo, il mio tutto e risuonano per me, di me, di come sono io. Non saranno mai metricamente corrette. Impossibile. Non saranno mai formalmente corrette. Impossibile. Non saranno mai un gran componimento. Impossibile.

Sono le mie. Sono io in qualche modo, in tanti modi a dire il vero in ogni modo.

E quindi sono e saranno aritmiche, irregolari, istintive eppure ragionate, calcolate, pesate, vomitate,rimaneggiate mai rigirate, indagate, cercate e non ricercate, deboli, potenti, cattive, intense, buone, oneste, spietate,vere.

E sono e saranno messe in una rima azzardata perché sono il mio gioco, perché il mattino mi alzo e sveglio le mie figlie e le preparo alla giornata che sarà canticchiando in rima, inventando il tempo e i suoni, recitando in modo improvviso e improvvisato , perché possano iniziare con un sorriso, con una risata, per una parola sbilenca nella frase, per una parolaccia che ci sta proprio bene, per una mamma che infila in una rima tutto il gioco che può, tutto l’amore che può finché può.

Non chiamiamole filastrocche, per carità. Sono cresciuta nel mito di Rodari, lo so cos’è una filastrocca.

Non chiamiamole poesie, per favore.  Ho passato troppi  anni in compagnia della letteratura  greca, latina e italiana per non saper riconoscere una poesia. Ma questo è il motivo per il quale so anche che la parola poesia arriva dalla parola che significa fabbricare, costruire materialmente qualcosa.

Io faccio, costruisco poestrocchie. Pasticci di parole con una rima che anche uno stupido può leggere. Magari non può capire, ma leggere si.

Ed io sono esattamente così. Sono esattamente questo. Sono una poestrocchia.

È che sento le mie ragazze ridere tra una mutanda e una calza, mentre si pettinano o fanno colazione e so che durerà ancora poco questo nostro intrattenerci snocciolando rime improbabili. Ma io ci ho messo quasi 40 anni per imparare a giocare e non voglio smettere. Ed allora faccio rotolare giù parole come pezzetti di lego rovesciati dal cesto dei giocattoli e le sparpaglio tutte e non so quali userò o cosa costruirò ma mi servono tutte  e fate attenzione a non pestarle quando passate, potreste farvi male, il lego sotto il piede nudo è doloroso…

Io mi sono fatta male con alcune parole, adesso le maneggio con cura, non le tengo vicine, le osservo con circospezione, mi ci avvicino a piccoli passi.  Per altre ho un vero e proprio rifiuto.

Convenienza. Mi fa rabbrividire.  È una parola che striscia e sibila come un serpente, sa di profumo preso dal cestone delle offerte nel reparto bagno e detergenti del supermercato. Cela gli odori naturali, copre le intenzioni reali, maschera, nasconde, inganna, spinge ad accontentarsi.

Perdono. Non la capisco. Non so usarla. Ha il suono dei cocci rotti. È verde, non come la speranza ma più come la bile. Odora di sigaretta bagnata lasciata per giorni nel posacenere. Qualcosa di dolciastro, inutile, macerato.

Ad altre parole ho tenuto il muso a lungo, le ho coperte per non sentirle direttamente sulla pelle, adesso le sto scoprendo per capire se fa ancora male.

Famiglia. Famiglia è una parola dolorosa, per me odora di spazio chiuso, di corridoio della scuola. Suona monocorde come un elenco numerato di cose da fare. Obbliga a una mimica bellica, con il dito puntato come un’arma: “è la MIA famiglia” “sai cosa ha fatto la TUA famiglia?”.

Ha un colore grigio come la parete della sala d’aspetto dal medico di famiglia. Appunto.

L’ho coperta tanto tempo fa, ho smesso di sentirla e ho cercato di usarla il meno possibile. Mi dà ancora fastidio doverla maneggiare.  Allora l’ho sostituita con Noi. Noi profuma di alberi dopo il temporale. Noi  suona di risata improvvisa, di pianto nella notte, di piumone scricchioloso la domenica mattina, di “prendi sotto braccio la felicità, basta aver coraggio, all’arrembaggio”. Noi ha tutti i colori, alcuni anche sui muri con il pennarello o sul divano.

Noi fa rima con poi. E la storia è ancora tutta da inventare.

 

MEDITA AZIONE

 

 

Quando guido e sono da sola in macchina.

Quando torno a casa da un posto che è al di fuori dei tragitti quotidiani.

Quando google non si aspetta il percorso, non me lo suggerisce, non lo conosce.

Quando stupisco google maps.

Quelle volte in cui torno a casa dopo una giornata ad un qualche corso di aggiornamento , nel fine settimana.

Salgo in auto e le dico che dobbiamo tornare a casa. Lei mi ci porta. Io sono da sola, scelgo la musica che voglio, cambio la stazione radio ogni volta che c’è pubblicità, interrompo la canzone del cd e salto a quella che mi va, cerco su spotify il pezzo che non passano più per radio perché è talmente vecchio che nemmeno l’autore si ricorda di averlo cantato.Nei tragitti quotidiani questo è impensabile. Io sono addetta alla console  dj ma senza potere di scelta. Smisto le richieste ed evito liti e alzate di mani nei sedili posteriore, come insetti con il solo uso delle zampette anteriori che si agitano per colpirsi.

Nei tragitti quotidiani da scuola a casa-tennis-cartoleria-scendo e prendo solo il latte-casa-karate-casa-tennis  sono sempre in modalità conversazione. Tutta la giornata o parte di essa riversata tra i sedili come patatine fuori dal sacchetto, lo sguardo nello specchietto retrovisore ad incrociare l’espressione del racconto, chè mica vuoi ascoltare senza guardare, chissene se devi anche guidare. La mamma ascolta con gli occhi.

Anche  quando rientro a casa da sola, alla fine di una giornata fuori casa da sola , sono in modalità conversazione. La musica di sottofondo a un monologo continuo, che parte sottovoce. I miei pensieri  non seguono un filo ma ci si ingarbugliano, ci saltano la corda, ci si annodano a formare una rete come quella dei tappeti elastici sul lungomare.

Tutto può tornare alla mente.

Tutto può allontanarsene.

La risposta giusta per quel cliente che ha chiesto un parere.

Il nome del ristorante che dovevo suggerire la settimana scorsa e che vigliacca miseria non ricordavo.

Il paradigma di fero.

Il registro elettronico di Cristina da firmare.

Il dialogo immaginario con quella stronza, chè appena la becco se le sente dire tutte.

La rima per la poestrocchia dedicata a Benedetta, mi devo fermare per scriverla altrimenti la dimentico.

Non è più un monologo. Sono io che mi parlo. E mi rispondo. Mi faccio una battuta e rido. Mi commmuovo e mi consolo. Allontano il pensiero  e lo ripesco come un cigno di plastica  alle giostre ma ho una pessima mira.

Rido.

Sorrido.

Vado verso casa, non ho fretta.  La macchina va da sola, anche se il tragitto è inconsueto. Non è un automatismo ma è uno scorrimento. Non sono all’erta, non temo che il pirla con l’Alfa convinto di essere, per ciò stesso, un maschio Alfa, mi tamponi violentemente.

Se sono da sola non ho paura.

La lavatrice avrà finito.

Devo andare dal parrucchiere.

I croccantini del cane.

Una doccia calda.

E se non tornassi?

Quanto ci metterebbero ad accorgersene?

Potrei spegnere il cellulare, andare a mangiare qualcosa che non so in un posto che non so, potrei parcheggiare e camminare  senza guardare dove vado e questi pensieri ingarbugliati, intrecciati eppure così liberi diventerebbero il mio bastone per non vedenti , andrei dove mi portano, mi fermerei quando si fermano, lascerei scorrere il tempo, i pensieri ingarbugliati in questa meditazione senza medita, in questa meditazione senza azione e che mi ripulisce per intero , ma no che non scendo, non parcheggio, non sparisco. Si. No. Vorrei.  Vorrei solo un po’. Solo ogni tanto. Ora.

Si preoccuperebbero.

Eppure io sto benissimo.

Se sono da sola non mi preoccupo.

Dai, va bene, verso casa, tanto ci arriverò senza sapere come. Potenza del cervello, macchina straordinaria e complessa.

Colpo di tosse, cerco le mentine in borsa con una mano sola, frugo frugo e trovo un sacchetto per raccogliere la cacca di Justin, una peppa pig di plastica, una caramella gommosa  alla ciliegia che Benedetta ha preso in un negozio e non le ho fatto mangiare, lo scontrino di zara dei pantaloni di Cristina, l’elastico arancione per la coda d’emergenza prima del tennis,la scatola delle mentine. Vuota.

Il mio cervello è come la mia borsa.

Sorrido.

Dovrei fare pulizia in entrambi.

Tirare fuori, tirare fuori e buttare gli scontrini e le scatole vuote.

Mettere un pacchetto di fazzoletti nuovo.

Controllare se il lucidalabbra è secco.

Lasciare peppa pig, che non è stata reclamata e questo mi procura un lieve dolore della crescita. Benedetta cresce e io ho male.

Togliere il paradigma di fero , che nessuno mi chiederà più.

Mettere il nome di quell’istruttice in palestra che è tanto carina ma che porca miseria potrebbe chiamarsi Adele o Noemi o Maria o che ne so…

Togliere il ricordo dello sguardo da pazza della stronza e mettere fine a quel discorso da farle.

Mangiare la caramella.

Mettere il bacio di questa mattina nella tasca interna , con la zip, quella più sicura. Il bacio ed il suo schiocco, le mani sul viso, tiepide, gli sguardi che si incrociano, tutto al sicuro nella tasca, che non possa scivolare via, che non si ingarbugli altrove.

La parte del cervello che raccoglie tutto questo sentire in un bacio si chiama Talamo, come il letto nuziale, dove le sensazioni arrivano e vengono tesaurizzate, elaborate, filtrate. E pare che il dolore talamico sia insopportabile e resistente agli analgesici. Pare che basti una minima stimolazione della cute per amplificare il dolore che rimbomba dentro quando c’è una lesione talamica, quando la zip della tasca interna si rompe e non puoi più proteggere nulla e puoi perdere tutto.

Togliere la compressa di moment che è scaduta da 1 anno.

Il cancello del giardino si apre e non so se ho premuto io il telecomando.

Richiamo a bassa voce tutto questo vagare, tornate qui, bastoni per ciechi, corde per saltare, reti da pescatori, materassini per saltare, gomene di navi da ancorare.

Aspetto che finisca la canzone

Prendo fiato. Le luci dal terrazzo della cucina profumano di cena pronta, raccontano di compiti fatti anche senza di me,  di conversazioni che non ho ascoltato, di un tempo diverso che adesso mi verrà narrato,perchè quando io sono sola loro non si preoccupano.  Perché  quando io sono sola loro non hanno paura.

La canzone è finita

Espiro.

L’ultimo pensiero è il filo del palloncino che vola via, leggero.

Cerco le chiavi di casa in borsa. Sono nella tasca con la zip.