Cosa rimane

 

Cosa rimane quando non rimane niente?

Dopo che hai dato tutto, cosa rimane?

Dopo che hai detto tutto cosa rimane?

Rimane qualcosa ?

Penso di no. Penso che a un certo punto,  in un giorno qualunque, in un momento a caso che può essere ora o prima o dopo oggi o ieri ti accorgi che non c’è più niente. Non c’è più niente da dire o da fare. Hai fatto tutto. Cosa rimane quando non rimane niente?  C’è un pezzetto che avanza? Magari lo hai dimenticato, cerchi bene, magari c’è un pezzetto di qualcosa al quale aggrapparsi e dire ecco questo c’è ecco cosa è rimasto, ecco. Invece non c’è. Non è rimasto niente.

Dove va tutto? Dove va a finire? Perché se qui non rimane nulla, da qualche parte il tutto detto e il tutto fatto si sarà infilato,no?!

Io non lo so. Dove è finito o quando è finito, ma so che è finito, che ho finito, che sono sfinita.

Se qualcuno trova dove è finita la mia concentrazione, per esempio, ne faccia buon uso. La conservi e la utilizzi per tutti  quei lavori di precisione, che sembrano noiosi ma non è vero, sono la base per realizzare i dettagli, quelli preziosi, quelli che fanno la differenza, quelli che poi fanno l’insieme.

Oppure, se qualcuno trova cosa è rimasto della mia capacità di resistere alle emozioni, per favore che ne abbia cura  perché non sarà utile come il mantello dell’Invisibilità di Harry Potter ma è comunque un ottimo scudo a protezione dei nervi, che quando li hai tutti scoperti come i fili del’alta tensione non è il massimo, posso assicurare.

Invece, se qualcuno trova dove è finita la mia attitudine a dissimulare per quieto vivere, ecco può buttarla nel cesso, grazie.

Se qualcuno trova i brandelli del lavoro che ho svolto per dieci anni non me lo dica neppure, ci ricavi quel poco che può, lo usi come volano per grandi imprese future ma non mi dica nulla. Mi ci sono buttata, ho creduto quando ancora credevo, ho studiato, ho provato, ho vinto, ho perso, ho perso, ho perso ancora , ho smesso di crederci e di credere, ho dato tutto contro voglia anche quando ero senza voglia, ho pensato di essere quello che facevo, ho smesso di fare e non sono più niente. Perché quando hai dato tutto non rimane più niente.

Ma se qualcuno per caso trova le mie parole, alcune delle mie parole, giocando con i sassi nel letto di qualche fiume dopo la piena durante un picnic estivo o mentre cerca le conchiglie in spiaggia dopo l’alta marea, o differenziando la spazzatura correttamente mentre si ferisce con una lattina di tonno e impreca vedendo le mani sporche di sangue, ecco può farne ciò che vuole. Non mi importa se finiscono in buone mani o se vengono modificate e usate per commettere qualche reato, se perdono peso o al contrario se diventano grandi, grosse, grasse, se vengono usate e poi subito dimenticate oppure  gettate via senza essere state nemmeno spacchettate. Perché quando hai detto tutto non rimane più niente.

Senza tante storie

 

 

Benedetta detta Pepe ha quasi 9 anni.

Benedetta è detta Pepe in famiglia perché è il soprannome che la sorella, di due anni più grande, le ha dato mentre provava a chiamarla, un pomeriggio nel lettone, tra una poppata e una colica.

Benedetta detta Pepe a scuola è Benedetta detta Benni.

Benedetta detta Pepe è del segno zodiacale del Leone .

Benedetta detta Pepe gioca a tennis da quando ha 5 anni, scia pigramente, nuota senza infamia e senza lode, gioca anche a golf,più per dare fastidio a sua sorella che per passione ma in fondo  ciascuno trova le proprie motivazioni  come può.

Benedetta detta Pepe ama il rosa e i brillantini, i gioielli e le scarpe con il tacco, ride per niente e piange per molto meno.

Benedetta detta Pepe mangia tantissima frutta, ma tanta davvero che bisogna dirle basta.

Benedetta detta Pepe è brava a scuola, buoni voti, ottimo comportamento, fedele all’insegnamento materno per il quale diamo il peggio di noi solo tra pochi intimi per favore e possibilmente all’interno delle mura domestiche grazie.

Benedetta detta Pepe non è un fenomeno come tanti altri  bambini di cui sento parlare. Dalle loro madri. È bella di quella bellezza novenne, con gli occhiali dalla montatura colorata, i dentoni  definitivi che dalla bocca carnosa  affacciano su una faccetta provvisoria, i capelli lunghi e mal spazzolati.

Benedetta detta Pepe scrive.

Scrive. Scrive bene. Prende dalla sua pancia un gomitolo di emozioni  e lo srotola tutto usando la penna Pilot blu, ricamando lettere perfette sulle righe di terza elementare. Fa il punto croce sui quaderni.

Benedetta detta Pepe ha una maestra che mi fa venire voglia di tornare a scuola e io a scuola andavo con il mal di pancia per l’ansia da prestazione. Ha una maestra che se hai il mal di pancia per l’ansia da prestazione ti abbraccia, si mette alla tua altezza chinandosi e puntando gli occhi azzurri nei tuoi e ti dice che lei è lì per te, per aiutarti e che puoi disegnare quello che provi se non riesci a spiegarlo diversamente. Ha una maestra che dice ai suoi bambini che loro sono tutti, tutti, 28 geni. Ciascuno di loro ha un talento e in quello li sostiene e li valorizza. Io mi commuovo, perché sono così ormai, le emozioni mi idratano. Ma se hai fatto le elementari negli anni ottanta tutta questa intensità non può lasciarti indifferente. Noi eravamo in 25 in classe e c’erano i bravi, i medi  e gli asini. Senza tante storie. Le poesie si imparavano a memoria, non si componevano. I disegni servivano a chiudere una pagina e si chiamavano cornicette. Senza tante storie. Il mal di pancia,  senza vomito e/o diarrea, era una scusa e se anche si apriva uno spiraglio sulla paura come causa scatenante veniva, alla fine, liquidata come fenomeno privo di motivazione e fondamento. Senza tante storie.

La maestra di Benedetta detta Pepe ha iniziato, quest’anno, un laboratorio di scrittura creativa con la classe. Un’esperienza meravigliosa durante la quale i bambini sono portati per mano nel fantastico mondo della lettura e della scrittura. Un percorso che consente ai bambini di esprimersi e indagarsi. Di arrivare al nocciolino profondo che hanno tra le pieghe di qualche viscere e portarlo alla luce, attraverso l’uso giocoso di metafore e  similitudini.

Benedetta detta Pepe  prende la sua Pilot blu e ricama, in camera sua, in silenzio. Io mi sporgo a guardarla, resto un passo dietro l’uscio, con la porta socchiusa, e lei è alla scrivania che dondola mentre scrive e scrive mentre dondola, oscilla con la testa per scuotere le parole da estrarre, che siano quelle giuste. Non vuole essere guardata, non vuole essere aiutata. Ricama quello che sente per poi portare in classe il suo lavoro, durante l’ora di laboratorio, il punto è la descrizione attenta, la croce è la storia che si compie .

Due settimane fa, Benedetta detta Pepe mi ha raccontato di aver descritto un suo sogno, utilizzando tre metafore. Benedetta detta Pepe sogna di avere sempre amici veri nella sua vita, perché “gli amici sono raggi di sole che sciolgono il ghiaccio dentro di me”(cit.), sono il supporto e l’amore che si augura di non perdere mai nella vita e il ghiaccio è quella pallina di dolore che la abita da qualche parte, nonostante l’aspetto svampito, e che di tanto in tanto affiora in quello sguardo di carbone che ti indaga e ti svela. Ti svela sempre. Forse è proprio quello il cubetto di ghiaccio doloroso, forse è tutto quel vedere a fondo, in fondo, il fondo. Forse se avesse preso gli occhi verdi di suo padre avrebbe avuto il filtro della speranza  nello sguardo. Invece. Invece ti punta addosso quei pozzi scuri e ti ritrovi nudo  mentre lei ricama come si sente quando ti sente e non c’è possibilità di scampo, né per te né per lei.

Benedetta detta Pepe ha portato a casa il libro dei 28 sogni dei bambini della Terza B. Una raccolta meravigliosa di tutto quello che i 28 geni hanno scritto e descritto, sogni grandi, grandissimi, semplici, normali, buffi, fantasiosi, poco ispirati. C’è di tutto. La prima pagina riporta una frase tratta da quello che è un punto di riferimento indiscusso per tutti quelli che, come me, sono andati alle elementari negli anni ottanta, La Storia Infinta:    “Tutto ciò che accade tu lo scrivi‘, disse. ‘Tutto ciò che io scrivo accade‘, fu la risposta. Tutte le 28 famiglie ne hanno ricevuto una copia.

Benedetta detta Pepe scrive. Scrive. Scrive bene. Cazzo. Scrive tanto, scrive tutto, scrive troppo. Il suo sogno di una vita piena di amici è diventato un racconto vibrante di quello che lei sente quando è accanto ad alcune persone, con una scrittura lucida, consapevole, ha descritto le emozioni che prova in modo pulito e sincero. Ha parlato di sé e dei comportamenti che non le piacciono, di cosa l’ha delusa, di come si sente davanti ad alcuni atteggiamenti dei suoi amici più cari. Di cui ha fatto i nomi. Veri.  Punto. E croce. Senza tante storie.

Che cosa c’è

 

C’è troppo rumore e non riesco a sentire, c’è  sparso del  dolore che mi fa imbestialire, c’è il tempo trascorso e tutto quello che mi ha morso, c’è stata una guerra  e chi ne ha avuto l’idea,  c’è chi è rimasto a terra e chi vive in apnea, ci sono soldati andati in  battaglia e dispersi sul campo al centro del petto hanno un  cuore  di paglia e  ci sono io come pietra di inciampo fredda e dorata perché  la storia non va dimenticata. Ci  sono parole  come frecce scagliate, non tornano indietro e sono ingombranti, ci sono  imprecazioni verso tutti i santi ,per quelle un po’ mi dispiace ma è la mia natura di esser pugnace.

C’è il tempo futuro e  niente di sicuro se non che c’è un amore profondo dal mio ombelico messo per sempre nel mondo.  C’è un lavoro da cambiare fra le scelte più amare e come un uomo da niente mi faccio lasciare lentamente.  C’è il tempo del cambiamento ed è questo che vivo ma c’è tanto  spavento  ed è per questo che scrivo. C’è un corpo da curare perché  ricorda che è vietato invecchiare, mangiare bene, fare ginnastica,il segreto  per una pelle elastica,combattere la ritenzione, fare tanta pipì contro la cellulite è l’abbicì.

C’è il ritmo incessante per fare ogni cosa, c’è la stanchezza  pesante di chi non riposa. C’è un cuore che batte a cui dar retta dice che regna sovrano e se ne sbatte della fretta . C’è un cervello in movimento che del cuore non capisce il tormento. C’è chi a ogni domanda dà una risposta, ci sono io che mi interrogo senza sosta. C’è grande rabbia, c’è chi la scambia per  livore beh è un’idea sbagliata nata dalla pigrizia di chi non ha capito il mio senso di giustizia,di chi non conosce il sapore della bile vomitata e anche se non posso più ché la cistifellea mi hanno levata il retrogusto ancora lo sento e del mio rigore non mi pento perché è scudo contro chi mi ha avvelenata, tranquilli ora sono mitridatizzata.

C’è chi vive a Londra e chi sta a Roma, c’è la distanza che fa male come un ematoma, con uno ho abitato l’infanzia nella stessa stanza, con l’altra più di mezza vita ed ogni speranza. C’è un bimbo mai nato che forse ho solo sognato, per gli anniversari ancora ci penso ma in fondo la vita ha avuto il suo senso, e poi ci siamo noi ordinari come due supereroi, c’è un amore adolescente che compie 17 anni e non se li sente .

Ci sono  lacrime versate, alcune inutili altre giustificate, ciascuna con il suo peso, le più leggere in fretta si sono asciugate,per  le più pesanti il cuore non si è mai arreso.  Ci sono due orecchi e una sola bocca c’è  che sentire più che parlare mi tocca, ci sono parole antiche  che custodisco come si fa a non usarle non capisco, è vero hanno un suono desueto , ma scherzo il mio  è un rimprovero tra il serio e il faceto.

C’è il silenzio della notte, il cuscino con cui fare a botte, c’è una giornata da ricominciare, c’è il cane che deve pisciare. C’è la neve e poi  la pioggia, c’è la commozione che scende in  goccia, come una flebo attaccata al braccio attenua i sintomi del caratteraccio, è una novità tutta colpa dell’età che basta poco o  niente per amplificare ciò che si sente.

C’è una risata che tutto scompiglia e come con il  vento e c’è chi vi si impiglia, sparge  le foglie nel cortile e  innervosisce la gente  ostile, è una risata portentosa,c’è chi giura sia medicamentosa, c’è chi sa che è una vittoria, perché conosce tutta la storia, c’è chi ancora non ha capito che il vento non può essere impedito.

Sospeso

 

Ho lasciato in sospeso un libro sul comodino perche non aveva più senso cercare tra quelle pagine chi me lo aveva regalato e  che un giorno se n’è andato senza grandi spiegazioni. Quel libro non era un granché, nemmeno il giovanotto forse, di sicuro non lo erano i suoi gusti perché aveva scelto un libro mediocre e lasciato me…

Ho lasciato in sospeso un progetto, più di uno in realtà, ma questo mi brucia più di tutti e più di tutto sulla pelle e per punirmi l’ho messo in una cartella sul desktop così leggo il suo nome tutti i giorni. Quando la riaprirò e se la riaprirò sarà trascorso così tanto tempo che il progetto  si sarà trasformato in un sogno ed allora ci farò pace. Mica puoi incazzarti se i sogni non si avverano, no?

Ho lasciato in sospeso un caffè, in un bar in Piazza del Plebiscito a Napoli.

Ho lasciato in sospeso il compito in classe di matematica al liceo perché, filosoficamente, le incognite non andavano indagate secondo me. La x doveva restare tale.

Ho lasciato in sospeso un amore, sono uscita di scena tra il primo e il secondo tempo lasciandolo in sala ad aspettare. Non gli ho detto vado via perché sei noioso e io giovane e stronza. Così, mentre mi aspettava ha incontrato una che aspettava uno che l’aveva lasciata in sospeso. E lei lo ha trovato divertente e grandioso. O forse no, ma andava bene lo stesso.

Ho lasciato in sospeso  la fede politica, la fede religiosa e la fede sportiva. Ho messo la fede all’anulare e tutti i giorni mi occupo del buon funzionamento della società composta dalle mie devote ragazze che si rivolgono a me come alla divinità con una serie di “ti prego, ti prego” e come un arbitro decido cosa è regolare e cosa no.

Ho lasciato in sospeso un bacio stamattina, sulla porta. Mi sono girata di sghembo, ho fatto la bocca a culo di gallina e niente. Ero arrabbiata.

Ho lasciato in sospeso un vaffanculo.  E non mi va giù. Il vaffanculo è un verbo che ha solo il tempo presente. Vaffanculo ora, ora vai vai su. Mica si può dire al passato, all’imperfetto. O al futuro. Vaffanculerai. No, non si può. Quando è ora bisogna dirlo altrimenti succede come a me adesso. Che mi si è attorcigliato nelle corde vocali e ha fatto un nodo spesso. Io lo so che è lui che tira così, che mi sembra di soffocare a volte.  E so anche che la persona a cui era destinato pensa di essersela cavata. Ma su questo mi sa che si sbaglia.

Ho lasciato in sospeso un saluto. E per quello è davvero troppo tardi.

Ho lasciato in sospeso un grazie. Per il vestito di Carnevale da Fatina. Tutto celeste con gli strass. Interamente cucito a mano, la sera per tante sere, dopo aver riassettato la cucina. Per consolarmi, per coccolarmi, perché fare era il suo modo di dire. Io quel grazie non l’ho mai detto e non l’ho mai fatto. E quel vestito l’ho odiato. Perché mi avevano appena messo un cerotto enorme e marrone sull’occhio destro, l’unico con cui vedevo. E allora ho pianto e ho detto “non si è mai vista una fatina con la benda sull’occhio” ed era vero. Non si era mai vista. Fino a quel momento, mi aveva risposto lei. Ed era così profondamente vero anche quello.

Lei che è rimasta in sospeso un giorno, un po’ ogni giorno, giorno dopo giorno, dimenticanza dietro dimenticanza. La macchina dove l’hai lasciata? Il sugo lo hai salato? No, non devi telefonare a tua madre stasera, perché è morta da vent’anni. Dai, non piangere, scusa se ti ho detto che è morta. C’è ma non c’è. Ha spento la luce ma senza andare via. Si è nascosta, dispettosa fino alla fine. Dietro un’espressione sospesa, in un corpo ogni giorno più simile a un panno sospeso, attaccato a dei fili invisibili. Un giorno sparirà e sarà come una magia, non capirò il trucco, sarà veloce, e resterò in attesa del suo ritorno, con la faccia in su, incredula se guardare il cielo, con uno sguardo sospeso.