È finita la quinta elementare. È finita anche la terza elementare. Anzi, la classe quinta e la classe terza della scuola primaria di primo grado. O quel che è. Le elementari, dai. Che poi elementari non sono per niente. Perché Cristina è entrata in quella classe a sei anni con la frangetta e la maglia dei supereroi sulla pancia tonda e aveva le mani grassocce e sempre sporche di pennarello, la bocca sdentata e ne è uscita oggi, che manca un mese a compierne undici, con la coda di cavallo,gli shorts su gambe lunghe da fenicottero, i brufoli, il top al posto della canottiera e l’apparecchio ai denti a inibirle il sorriso, tranne quando passa “lui” che comunque non ha capito di lei e sono buffi, belli, sgraziati e tutt’altro che elementari.
Pepe, lei, invece è a metà, ha appena fatto il giro di boa, ha abbracciato la maestra Monica poi mi ha preso per mano ed è uscita dal cancello, raccontandomi la giornata come sempre, con un fiume di parole. Perché quest’anno Pepe ha imparato a usare le parole per farne ciò che vuole, per farne ciò che la fa stare bene. Ha imparato a scrivere di sé, a parlare di sé senza paura, a mettere in evidenza i suoi talenti, quel bagaglio prezioso che si porta dietro dalla stella da cui arriva. Nemmeno questo è elementare.
No. Non c’è niente di elementare, nel diventare se stessi.
Quando io ho finito la quinta c’era ancora l’esame, con la prova di italiano e la prova di matematica, nessuna lingua straniera, una ricerca di storia, una di geografia e forse una di scienze ma non ricordo. Un’interrogazione orale con le maestre delle altre classi. Un esame vero, insomma. Poi avveniva il passaggio. Era netto, era chiaro.
Io non avevo il top al posto della canottiera, non avevo le gambe lunghe come un fenicottero. Ero più come Pepe adesso, una bambina con gli occhiali che scriveva di sé senza se, perchè era la sola cosa da fare, la sola strada possibile. E quel passaggio così netto, sancito da un momento formale come solo un esame può essere in realtà non lo ricordo così significativo. Ricordo la mano di mio padre appena fuori dalla porta dell’aula, per scendere giù dalle scale e andare a casa, con quel piccolo traguardo, tutt’altro che elementare, raggiunto. Ricordo che non parlavo come un fiume in piena perché, in fondo, non pensavo che potesse interessare quello che avevo nella testa.
Oggi non mi sono commossa, non ho provato un’emozione particolare, vedevo altre madri in lacrime, visibilmente scosse e, cinicamente, ho pensato che fosse dovuto al fatto che ora sono cazzi, questi sono a casa, che gli fai fare per tre mesi?! No, io oggi non mi sono commossa ma mi sono sentita fiera. E ci ho messo tutta la vita per imparare a riconoscere la sensazione e soprattutto a riconoscere che posso permettermelo. Io oggi mi sono sentita fiera delle mie due ragazze, il fenicottero con il sorriso metallico e selettivo, riservato a pochi, pochissimi, che entra a scuola veloce, senza salutarmi, con lo zaino su una spalla sola e che in questi cinque anni ha imparato tanto, ha studiato controvoglia, ha visto il male arrivarle addosso da degli insospettabili e ha imparato a tenere la guardia alta, a parare e a calciare forte senza mai dimenticare la correttezza. E la piccola, che poi piccola non è più, ma che lo resterà per sempre, la piccola che quest’anno ha imparato le operazioni con i decimali, a suonare la campana tibetana, l’analisi grammaticale e a usare la parola indistricabile.
Io oggi mi sono sentita fiera di me. Delle mattine con la sveglia alle sei da settembre a giugno. Dei pomeriggi di studio, di torte nel forno, di feste di compleanno, di allenamenti dall’altra parte della città, di musi lunghi e risate irrefrenabili. Di lavatrici da stendere e zaini del nuoto da preparare. Di cazziatoni per un voto mediocre. Di uscite anticipate per il dentista. O per l’oculista. O per il dermatologo. O per l’ortopedico. Del silenzio di sera, ciascuno a letto, le luci sul comodino per leggere. Della porta della mia camera che poi si apre, sempre, a un certo punto e fanno capolino, una alla volta, per un bacio ancora, prima di dormire alla fine di tutto, scalze con i pigiami spaiati ma i denti lavati, come adesso mentre scrivo che sono già arrivate, andate, tornate. E alla fine mi innervosisco, rispondo male, perché io sono qui che scrivo e loro mi interrompono e sembra che non sia importante e poi forse non lo è davvero ma tanto ormai è fatta e riprendere dopo non è facile, ma poi forse non ne vale nemmeno la pena, per dire cosa, in fondo? Che sono fiera di fare quello che ogni madre fa? Che sono fiera delle mie figlie che, in quanto tali, sono meglio di altri ragazzini occhialuti e con l’apparecchio? E’ questo che mi rende fiera? No, non è questo. Sono fiera di quella bambina che ha iniziato a parlare come un fiume in piena perché ha trovato una quarantenne occhialuta che l’ascolta. Ci sono voluti trent’anni. Ci sono volute loro due. E non è stato per niente elementare.