Sulla soglia

 

Quando ero piccola i miei genitori mi chiamavano “madre coraggio”.

Da ragazzina pure. Dicevano che non sopportavo il male, che avevo la soglia del dolore bassissima. Sono cresciuta con questa etichetta appiccicata addosso. Sembrava che il male, quello vero, fosse solo degli altri, perché tanto io avevo la soglia del dolore bassissima. Non credo che sia mai venuto il dubbio che il dolore altrui parli sempre a un volume più basso del nostro, che il dolore altrui essendo altrui in realtà non ci tocca e quindi non lo sentiamo e allora non possiamo mettere una tacca su una qualche scala graduata per determinare quanto è doloroso il dolore di un altro.

Io, però, per onore di cronaca e amor di verità, ammetto che facevo delle scene niente male. È epica quella del dentista: era l’estate dei miei 11 anni, eravamo in Sicilia. Posto meraviglioso. Mi fa male un dente, non ricordo quale. Talmente tanto male che smetto di mangiare e mi portano in fretta da un dentista, in un tempo senza internet e senza recensioni e stelline anche per i medici, un dentista con la targa di ottone fuori dallo studio e basta, senza pagina facebook. Il dottore mi fa aprire la bocca, tocca il dente dolente e puf, quello cade. Il mio ultimo dente da latte. Caduto. Il resto della bocca era in perfette condizione, non una carie, tutto bene grazie. Parcella. Cari saluti e buone vacanze nella nostra terra baciata da ogni dio.

Mio padre ancora ricorda la cifra. Non per il dato economico ma perché fa da corollario alla storia, che ormai è diventata  parte della miscellanea che porta il mio nome, tirata fuori e rivenduta per più di quel che vale durante le feste comandate, le cene di famiglia o, peggio, per raccontare alle mie figlie le imprese materne, sulla spinta di quel desiderio insano che coglie i genitori quando diventano nonni di sputtanare i propri figli.

Allora, si, confesso: mi lamentavo. Ma sentivo il male, eccome. Solo che veniva frainteso, confuso, misconosciuto.

Perché poi ci ho pensato e ripensato come solo io so fare che prendo un aspetto microscopico e ne tiro fuori un pippone  infinito e scavo, indago, analizzo, smonto e rimonto, ricomincio, ci penso, ci ripenso, scrivo e cancello, avvito e svito, insomma da un niente tiro su una teoria che vacci a capire come si fa a vivere male così, comunque, si io ci ho pensato e ricordo, cavolo se ricordo, ricordo bene ogni volta che avevo male. Ogni volta che raccontavo il dolore che sentivo. Ogni dolore che sentivo. Come lo sentivo. Attraverso la pelle che tirava e prudeva anche senza ferite e lacerazioni, quel bruciore diffuso di chi è ferito e non sa spiegare come è successo, non sa nemmeno dove è ferito, ma sa di esserlo. Attraverso gli occhi, deboli, infermi, impotenti, con una benda feroce sul solo occhio funzionante, lo chiamano occhio dominante e lo rieducano tacitandolo. Chiuso quello per stimolare l’altro, quello che chiamano pigro. Dalla benda marrone non filtrava la luce, ma il dolore passava senza resistenze e si depositava subito dietro, nel canale che dagli occhi va alla gola. E lì il dolore faceva male. E le parole non uscivano con il suono che avrebbero dovuto avere. Incespicavano. Ridicole, stupide, imbarazzanti parole balbettate che nella testa sono chiarissime e poi vengono fuori  in quel modo che fa male. Stupidi occhi, stupide parole, stupida balbuzie, stupido mio zio ragazzino che mi prende in giro, stupida mia nonna che non lo sgrida, stupida mia madre che non si incazza e non mi protegge. Stupidi tutti. Stupida io che dopo 35 anni ancora sento quel male se chiudo gli occhi. Senza benda. Stupida io che quando devo dare la parola a quella bambina ancora balbetto. Stupidi tutti.  Tutti quelli che misurano il dolore altrui. Tutti quelli che credono che il male sia un male, sia una questione fisica, misurabile e valutabile o, peggio ancora, ridimensionabile.

Crescendo ho imparato a non dire quando fa male quanto fa male. È come se avessi imparato a prendere le misure anche con il dolore. Non  a misurarlo, ma a prendere le misure. Un passo indietro e metto a fuoco . Un passo avanti, sulla soglia a guardare che fa, se entra o se esce. Il più delle volte ancora entra ma adesso ho imparato ad accoglierlo, tanto a respingerlo gli si dà solo forza.  Allora lascio che faccia. Che attraversi quello che trova, la testa, la pancia, gli occhi o un ricordo, un soffio nelle orecchie come un pensiero che sbuffa per uscire. Poi lo accompagno di nuovo lì, sulla soglia e se ne va. Magicamente è caduta l’etichetta di madre coraggio. Come dimenticata, come qualcosa di lontano, tanto lontano, riferita a un tempo che non esiste più nel quale ho imparato che ciò che senti non può essere spiegato. Mi aprono la pancia con un bisturi e dopo una settimana sono in piedi senza lamentele.  Mi si scuce un pezzo di cuore, come il golfino con gli inserti di lamè quando si è tirato un filo e stava male a vederlo, e lo sistemo. Il cuore, il golfino è ancora così. Fa male rammendare il cuore. Ma non si dice. Non si dice quanto. E allora nessuno si preoccupa della tua soglia del dolore.  E va bene così, in fondo. Perché anche le etichette fanno male e da staccare sono fastidiose, rimane sempre un residuo di colla che appiccica le dita quando le ripassi su per sentire come va o anche solo per una carezza, che prima o poi arriva, lì, dove fa più male, dove ha fatto più male, quando finalmente chiudi la porta e quel che non serve rimane fuori. Dalla tua soglia.

Una storia inventata

 

Questa è una storia inventata di sana pianta

Di una bimba triste che tra i libri si incanta

Ha sottili capelli color dell’oro

Occhiali spessi per trovare un tesoro

È bassa , piccolina e magrolina

Ma con un portamento da regina

Osserva il mondo ed è curiosa

Eppur non fa domande, è timorosa

Perché se parla e poi balbetta

Non lo sa che è colpa della fretta

Del suo pensare così veloce

Fiume che corre in cerca della foce

Scorre potente tra la testa e la gola

Così lei impara a stare  sola

Questa è una storia inventata di sana pianta

Di una bimba triste che tra i libri si incanta

Con l’occhio bendato come un pirata

Quanta  fatica sentirsi osservata

Lei che voleva fare la principessa

Solo da un lato si guarda riflessa

E le parole che non vuole  dire

Tutte su un foglio vanno a finire

Uno sull’altro per farne un racconto

Che puoi leggere quando sei pronto

Qualcuno però  non lo sarà mai

Poco male, non sono questi i guai

Scrive e solo così si sente bella

Scrive e non inciampa la favella

Scrive e dimentica la tristezza

Scrive con il pugno e con la carezza

Scrive una storia inventata di sana pianta

Di una bimba grande che tra i libri si incanta.

Quel che accade, per necessità.

 

 

È accaduto il tempo come tutto il resto, è accaduto il bene e il male per necessità che non si è mai visto il bene viaggiare da solo. E’ accaduto  il tempo e gli annessi e i connessi, è accaduto il rumore e il silenzio per necessità, che non si è mai visto il rumore viaggiare da solo. E’ accaduto il mio viso nuovo, gli occhi neri sempre loro, la bocca è ancora lì ma pronuncia parole diverse, parole che cambiano i lineamenti.

È accaduto il tempo e chi è andato via come tutto il resto, si va e si torna per necessità che non si è mai vista l’andata senza il ritorno perché allora non è andare via ma nascondersi un attimo e restare comunque. È accaduto il pensiero ed era un pensiero buono ed è accaduto un pensiero che era cattivo per necessità che non si è mai visto il buono viaggiare da solo.

È accaduto il tempo come tutto il resto, è accaduto lo strappo e il filo da cucito per necessità, che non si è mai visto un brandello viaggiare da solo, nemmeno un brandello di carne o di cuore o di anima perché tutto viene rabberciato almeno una volta e se regge regge altrimenti è accaduto il peggio e solo dopo accade il meglio per necessità perché non si è mai visto il peggio viaggiare da solo.

È accaduto il tempo e chi è arrivato come tutto il resto, si arriva per ripartire che non si è mai visto l’arrivo senza la partenza, è accaduto un sorriso e le lacrime per necessità, che non si è mai visto un sorriso viaggiare da solo. E’ accaduto il mio corpo nuovo, le ossa strette sempre loro, il seno piccolo è ancora lì, ma ha nutrito di speranze, speranze che cambiano le forme.

E’ accaduto il tempo e quel che resta, i ricordi e la nostalgia per necessità che non si è mai visto un ricordo viaggiare da solo. E’ accaduto  l’incanto e il disincanto per necessità, che non si è mai visto l’incanto viaggiare da solo. E’ accaduto l’incomprensibile e lui, si, lui si, viaggia da solo.

Non ti scrivo

 

Non ti scrivo perché ecco sarebbe banale farlo nel giorno del tuo compleanno. Non ti scrivo perché tanto ogni parola è una parola per te, anche quelle che non lo sarebbero poi lo diventano e quindi cosa altro potrei dirti ?

No, non ti scrivo perché ho la scrivania  in una situazione penosa e tutto posso permettermi tranne la distrazione di scovare altre parole per te. C’è questa scadenza maledetta da rispettare e, sai, non ce la farò, come non ce la faccio io che poi ce la faccio e mai mai che mi dico brava.

E non ti scrivo perché Pepe deve andare a tennis e siamo di corsa e Cri torna dalla gita alle 18.30 e devo farmi trovare sotto il pullman perché si aspetta che io l’aspetti e poi perchè  davvero la sto aspettando  per scoprire il pezzetto di lei dove è avvenuto il cambiamento in questi pochi giorni di lontananza in cui ha fatto ogni cosa da sé e si è staccata di un altro po’ da me, da te, da noi. Anche Pepe finisce alle 18.30, quindi non ti scrivo perché dovrò  essere in due posti contemporaneamente. Sai, non ce la farò, come non ce la faccio io che poi ce la faccio e mai mai che mi dico brava.

Poi, il cane deve fare la pipì, povero, la tiene da questa mattina, è qui bravo in ufficio ma adesso devo proprio fargliela fare, quindi  non posso scriverti nulla, porta pazienza.

Non posso scriverti, perché è scoppiato l’ennesimo temporale e lo sai che quando c’è il temporale a me sale l’ansia dell’abbandono e se scrivo ora scrivo triste e allora no, posso mica rovinarti il compleanno perché una volta, un giorno che però era sera o tardo pomeriggio, mi hai lasciata sotto un temporale?

Aggiungici pure che devo svuotare la macchina del caffè, buttare la plastica e lasciare una parvenza di ordine in ufficio, altrimenti lunedì  mi deprimo  e che abbiamo finito il detersivo della lavastoviglie, che i colloqui a scuola sono sospesi, che non ho ritirato le tue camicie in tintoria e sai, non ce la farò, come non ce la faccio io che poi ce la faccio e mai mai che mi dico brava.

Abbi pazienza, allora. Lo capisci da solo che non posso scriverti. Per aggiungere cosa, poi? È tutto così già detto e già sentito, è tutto così normale, io, te, le ragazze, la vita, i cani, le vacanze, il lavoro. Non c’è niente da aggiungere. Vorrei solo togliere, in realtà.

Vorrei togliere le persone, quelle nocive, quelle che parlano e non sanno niente. Di niente. E vorrei togliere i pensieri notturni, quelli dalle 3 alle 5 che francamente hanno rotto le palle. E vorrei togliere le scarpe e camminare a piedi scalzi anche senza un tramonto, anche senza il mare ma con te. E vorrei togliere i bisogni e restare senza, vorrei togliere il velo di stanchezza nel tuo sguardo da ragazzino cresciuto e dirti che puoi riposare.

Vorrei togliere giorni al conto finale, barare e non cederli tutti, metterli da parte per quel viaggio ancora da fare, per quel libro che dobbiamo leggere, per quelle parole che anche se non sono per te poi lo diventano,per te per me per noi, perché se resta qualcosa sia questo, solo questo. Solo noi.

Ma non te lo scriverò, non posso. Non ora.

Ringrazio, come la canzone di Fabri Fibra…

 

 

C’è la mamma del compagno di Cri, suo figlio ha la faccia di un porcellino e lei anche. Si somigliano. Lei lo giustifica sempre, lui è insopportabile. Lei gli fornisce continuamente degli alibi, lui si sente intoccabile. Lei lo trova bellissimo. Lui non lo è, per niente.  Ma si somigliano. Mio nonno diceva “chi si somiglia si piglia”, chissà se vale anche tra genitori e figli, perché che un figlio ti somigli è probabile e allora mi chiedo, così, per perdere tempo, se questo detto è applicabile anche a una relazione così stretta con uno che, in fondo, non hai scelto  e che , capita, ti assomiglia. E quindi, se per caso assomiglia a tua suocera, che fai? Non ti pigli? Non lo so. Mio nonno diceva così, diceva un sacco di altre cose, non so mica con i figli come funziona.

Però, questi due si somigliano e si pigliano. Mamma Pig e il suo porcellino, solo meno simpatici. Io la ringrazio. Perché la guardo, la ascolto, la osservo, la studio e capisco da dove arrivano certi esemplari che da adulti non si spiegano come mai non gli dai sempre ragione. Ogni volta che capisco qualcosa sono grata.

C’è quella mamma che sembra un giunco. È rimasta sola con i suoi figli. Lui è andato altrove all’improvviso, non ha litigato, sbattuto a porta, preso i vestiti dall’armadio, chiamato un avvocato, raccontato a parenti e amici la sua versione della disfatta. No, niente di tutto questo che è ancora vita, urla, pianti, facce da prendere a schiaffi, è vita viva. No. In questo caso le camicie sono in fila nell’armadio, una dopo l’altra, inamidate e con le iniziali ricamante. L’orologio è sul comodino, solo che è fermo. Non c’è più il polso che gli dà la carica con il movimento. Fermo. Come il suo respiro quando le hanno detto cosa era successo. Lei, che è un giunco, si è intrecciata intorno ai bambini in una trama indistricabile e capita di vederli insieme e adesso capita di vederli sorridere insieme. Questa mamma non riesco a guardarla a lungo. Come con il sole. Qualcosa del genere. Devo togliere lo sguardo, rivolgerlo da un’altra parte. Non per pena, non fa pena, è una donna bellissima e sorridente, non cerca compassione, non si tira indietro davanti alla possibilità di una risata. Non riesco a guardarla per paura che capiti a me. Ma la ringrazio, perché guardandola ho capito che la vita è sempre più forte. Ogni volta che capisco qualcosa sono grata.

C’è mia mamma.  Che non mi ha mai dato ragione, nemmeno quando ce l’avevo. Che mi ha avuta a ventidue anni e anche se mi dicono tutti che negli anni settanta era diverso io penso che vent’anni sono sempre vent’anni,anche nel 1978. Mia madre è sempre stata tanto figlia e quando l’ho capito non ho ringraziato perché mi sono arrabbiata. Solo che devo averlo capito molto presto e devo essermi portata dentro questa rabbia molto a lungo. Ha cercato per tutta la vita il consenso di suo padre, ha cercato di emularlo, forse di conquistarlo, non so. Ma di sicuro è stata tanto girata indietro, con la faccia rivolta verso i suoi genitori, a fare la figlia e la mamma contemporaneamente.  C’è mia mamma, che è stata una maestra elementare per più di quarant’anni e non smetteva nemmeno in casa di correggere e riprendere. C’è mia mamma e, no,  non ci somigliamo, allora non so se è per quello che non ci pigliamo mai fino in fondo a volte nemmeno di poco. C’è mia mamma e c’è sua mamma in un letto da anni in balia di quella malattia che mi fa rabbrividire ogni volta che, come ieri  giro a vuoto prima di ricordare dove ho parcheggiato,non lo racconto a nessuno, poi lo scrivo qui perché qui non vale e penso che forse colpirà anche me e mi dimenticherò anche di me. C’è mia madre che,oggi, è una nonna amata, è una nonna compresa. C’è una nonna che sta smettendo di essere figlia, è una quasi orfana. Anche questo non so se può dire. O si è orfani o non si è orfani. Invece non è sempre così chiaro. Invece esiste il limbo in cui ti muovi sul filo di una perifrastica attiva e stai smettendo di essere o fare e stai per per diventare altro. Anche solo te stesso, finalmente. Tanto, girala come vuoi, la vita ti porta da te. Al centro del nucleo e lo fa quando inizia a togliere invece di dare, perché noi siamo quello che siamo per sottrazione. C’è mia mamma, una sessantenne maestra nonna quasi orfana che con me non si piglia. C’è mia mamma e ci sono io, che non ho la faccia girata indietro, e per questo la ringrazio.

C’è la mamma di un figlio maschio adulto. È una mamma che non mi piace. Pensa di essere la sola e unica depositaria dell’amore giusto, del metodo educativo corretto, della cura e della dedizione. C’è una mamma che non tollera le altre madri perché tutte sono sempre meno madri di lei. C’è una mamma che vuole fare la mamma anche dei nipoti, per sentirsi insostituibile e indispensabile, per insegnare sempre agli altri come fare, perché non si fida nemmeno dei figli che ha educato lei… C’è una mamma che  è solo un coccodrillo che fagocita i suoi piccoli per inglobarli,tenerli con sé e non perdere mai il loro controllo. A me quelle lacrime non hanno mai convinta. E non la ringrazio. Nemmeno per quell’uomo adulto che ha messo al mondo, perché dentro un adulto che non è capace di dire cosa pensa, dentro un adulto che crede che la resa sia la migliore difesa, dentro un adulto che non contraddice mai, ecco lì dentro c’è un bambino a cui nessuno ha mai dato voce, c’è un bambino a cui hanno insegnato cosa pensare e non a pensare. E dietro quel bambino c’è una mamma coccodrillo e la sua smania di essere insostituibile. Quindi, no. Non la ringrazio. perché un adulto così fa il triplo della fatica a sentire che può sentire, a pensare che è libero di parlare, che può fare il bene o il male, purché sia una sua scelta. E chi vive accanto a lui non ha sempre voglia di capire.

Ci sono io. Una mamma, la mamma, che mamma, mamma mia…

E i miei libri, i miei appunti, le giornate infinite,le mie teorie, la mia infelicità e la mia felicità mischiate e centrifugate, la mia ansia di fare bene, la mia voglia di non fare. E i miei silenzi. E le mie urla.

Ci sono io. E ci sono loro, le mie figlie e le ringrazio, perché loro crescono e io mi scopro, mi conosco, esco fuori. Ogni anno in più per loro è un pezzo in meno per me, una sottrazione che mi lascia essenziale, mi lascia essere ciò che sono. Non so se è vero che chi si somiglia si piglia, perché Pepe mi somiglia ma ci scontriamo come due animali e allo stesso modo ci lecchiamo subito dopo, ci respingiamo e ci coccoliamo. Perché Cri assomiglia a suo padre (ma è molto più bella con buona pace dei coccodrilli) eppure io e lei ci pigliamo, abbiamo quella roba di sguardi che sappiamo solo noi e boh, tutto è detto e fatto, che poi è la stessa storia con suo padre, anche io e lui abbiamo quegli sguardi e forse ci somigliamo più di quanto pensiamo, allora.

Ci sono le mamme. Le mamme sono. Sono persone che diventano madri e in quest’esperienza sconvolgente mettono la sola cosa che possono: loro stesse. Che siano figlie, coccodrilli, maiali o mezze matte come me. E comunque i coccodrilli mi fanno schifo.

 

cari

Giovane e innamorata

 

 

Sai, ero giovane e innamorata. Come capita di essere quando si è giovani e innamorati, poi, ero illusa e presuntuosa. Non vedevo il tuo amore. Lo sentivo sulla pelle, lo respiravo nell’intesa che abbiamo avuto dal primo sguardo, da quella prima frase quando hai detto “diamoci il tu, sono degli anni settanta anch’io” e avevo pensato alla canzone di Daniele Silvestri, avevo sorriso, quella che dice le cose che abbiamo in comune e le elenca ma poi quando lui piange lei ride e insomma, mi avevi ricordato quella canzone con quel tuo riferimento che ci collocava vicini nonostante gli otto anni di differenza.

Non pensavo al tuo amore. Ero concentrata sul mio. Per te. A fiumi, a cascata, fino al mare, il mare, l’oceano, il pianeta intero,enorme, volevo solo dirtelo, urlartelo, gettartelo addosso come un guanto di sfida, ecco il mio amore, allora sei capace di averlo, di gestirlo, di viverlo o sei uno che scappa? Allora cosa fai? Resti o scappi? Ti spaventi anche tu, come tutti gli altri?

Mi curavo poco del tuo vissuto, ormai era passato, come se questo bastasse a risolverlo. Ridendo  ti dicevo che arrivavi dall’Africa dei sentimenti. Ridevo ma non scherzavo, nel dirtelo.  Avevi nei movimenti del corpo tutti i segni di penuria di amore, eri malnutrito e perciò affamato. Ma viziato nei gusti. Ripetitivo, di quelli che non assaggiano un cibo nuovo perché da piccoli la nonna o la mamma gli hanno detto che tanto non sarebbe piaciuto. E non si danno una possibilità.  Di sorprendersi, di sfatare un luogo comune che per me resta, ancora e sempre, una delle sensazioni più belle da provare.

Insomma, ero giovane, innamorata, di difficile gestione, pure dispettosa.  E ho commesso tanti errori.  Adesso, quegli errori mi danzano intorno, come spettri. Lo sai che non ho paura dei fantasmi, anzi, sono i miei interlocutori preferiti. Lo sai che ho più paura di quello che si tocca e che ti tocca. Ma sai anche che non è in gioco la paura. Non sto parlando di paura.

Sto parlando d errori. Di orrori. Di come, per amore e gioventù si possa arrivare a tacere, a sminuire fatti e parole che andavano censurati subito, nell’attimo stesso in cui venivano posti in essere. Di come non sono stata capace di dire che a me nessuno dice cosa piace mangiare e cosa no, a me nessuno toglie la possibilità di essere quel che sono. Di avere un muso duro davanti all’ignoranza, perché tanto io l’ho sempre detestata l’ignoranza, lo sai. Quell’ignoranza colpevole, brutta, strisciante di chi non fa nulla , mai nulla per migliorarsi, e pretende di appiattire gli altri verso il basso. Di trattare ciascuno per come merita di essere trattato, senza concedere favoritismi in nome tuo, per te, come se fossi tu.

Perché non eri tu.

Ero io. Che indietreggiavo invece di avanzare e travolgere e mettere in chiaro. Subito. Io.

Io. Che sono intransigente ma leale, cocciuta ma non cerco mai una scorciatoia. Pignola, vergine rompipalle, che non chiedo a nessuno come sta per evitare di sentire la risposta, perché in fondo non mi interessa, che mi faccio i fatti miei ma non dico a nessuno cosa fare.

Hai presente quel fiume, quella cascata, quell’oceano di amore? Io.  Che resto in macchina ad aspettare il mio turno sotto il temporale mentre seppellisci il passato, che ho misurato ogni giorno il livello d’amore con la tacca, come fa mio padre con il gasolio per l’inverno, e sai, ci sono stati giorni in cui ho rabboccato. Non bastava. Non te l’ho detto, a volte forse, ma altre volte no, non ti ho detto niente. Ho rabboccato. Io.

Perché non si è sempre giovani e innamorati. Perché nel frattempo sono cresciuta. E allora ho iniziato a pensare al tuo amore. A curarmi del tuo vissuto come della tua biancheria, a non dirti cosa ti piace senza avertelo fatto assaggiare. E ho iniziato a pensare a me con più generosità. Con più tenerezza. Ho accolto la bambina con l’occhio bendato da un cerotto marrone e le ho chiesto scusa per quel mondo degli adulti che era inadeguato alle sue istanze, che ha lasciato che si arrangiasse sempre. Con i fantasmi. Con i vivi. Con se stessa.

Ho lavorato in questa direzione, un po’ a te, un po’ a me.  E allora, capisci, non può più esserci spazio e tempo per tacere ancora, di fronte all’ignoranza, alla stupidità, a tutto quanto mi offende come persona, come donna, come madre e offende il mio sentire, il mio pensare che è stato preso, giudicato da gente assurda e folle, non c’è più tempo e spazio per questo esercito scalzo che mi combatte  e che combatte proprio solo me, lo sai anche tu. Sulla base di nulla.

Non c’è lo spazio e il tempo per il nulla.

Perché non sono più giovane. Perché non ti guardo più pensando che forse non merito la vita insieme a te, che chi ci avrebbe scommesso, perché oggi so che siamo la possibilità l’uno dell’altra. E allora, a questa  combriccola sprovveduta che combatte sotto il vessillo dell’ignoranza più cupa, a questi campioni del passato che vantano successi di cui non è rimasta traccia, a questi esperti della vita, della mia vita, posso chiaramente dire che io non farò mai più alcuno sconto. Sarò il segno rosso della maestra. Sarò il contraddittorio estenuante che non sanno sostenere.

Perché non sono più innamorata ma più felicemente amo. Amo con pienezza, amo la tua fragilità, amo senza il guanto di sfida. Amo il tuo talento. Amo quando ti vedo smarrito.  Amo le tue soluzioni, amo come mi ami. Perché ora lo vedo il tuo amore. Adulto che non scappa, che non si fa confondere, che resta saldo. Il tuo amore un po’ ragazzo, impacciato e affamato.  Perché amo me. Vergine, pignola e rompipalle. Intransigente e cocciuta. Ironica. Tagliente. Curiosa. Amo ogni mio dubbio che mi fa continuare a pensare. Amo la paura della malattia, di quella malattia, che mi fa continuare a studiare per non far morire il cervello. Amo tutti i problemi che pongo e tutti quelli che risolvo, amo come ti amo. Ecco, guarda il mio amore. Adulto che non scappa, che non si fa confondere, che resta saldo. Il mio amore un po’ ragazzo, impacciato e affamato.

 

Pensieri sulla pancia

 

 

A cosa serve tutto questo sentire

Se di notte ho paura di morire

Se di giorno è tutto un lavoro

E il silenzio non è sempre d’oro

A volte è un silenzio d’argento

Arrivo seconda e me ne pento

E poi c’è il tacere di bronzo

Quando non ho detto  “sei stronzo”

Di tutto questo sentire cosa faccio?

Ci annodo i pensieri, tipo laccio?

Ma i pensieri sono cicatrici

Non ci hai mai pensato, che ne dici?

I miei li ho tutti sulla pancia

È la vita, mi ha lasciato la mancia

Si la vita, come quella che ho data

È una pancia vissuta, abitata

L’ombelico ha i segni del passaggio

Lo rifarei ma con più coraggio

È passato da lì tutto il sentire

Dalla pancia che non mi va di esibire

Con i suoi segni e le geometrie

Forme che cambiano e pur sempre mie

Anche la rabbia ha fatto capolino

Ha lasciato come segno un uncino

Con cui ho agganciato i dispiaceri

Per poi trasformarli in desideri

E ci ho pescato del dolore

Prima che salisse su al cuore

A cosa serve tutto questo sentire

A scacciare la paura di morire

A farne per loro racconti felici

A lenire il segno delle cicatrici

Tutto il sentire che si abbatte

Forte come una finestra che sbatte

Quando c’è vento e poi corrente

Quando è forte quello che si sente

Serve raccontarlo,si, per forza

È il momento di togliere la scorza

Strato dopo strato arriva il buono

Chiudi la finestra, arriva il  tuono.

 

 

Che senso ha?

 

 

Sotto la pioggia torinese di un maggio con il sapore di maggio di scuola che sta per finire e di vacanze che fanno l’occhiolino,  di verifiche su verifiche e interrogazioni e gite e recite e di festa della mamma, oh, si maggio sa di festa della mamma, non come ai tempi della scuola materna quando la maestra Manu aveva istituito la giornata del “mamma gioca in classe con me” e ci si preparava per settimane intere per trascorrere quelle due ore insieme, seduta sulle sedioline al tavolino con le canzoncine e tanti gridolini, ecco non è più così ma maggio sa comunque di festa della mamma e a pensarci un po’ mi sa che passo a salutare la maestra Manu, quest’anno, appena prima dei festeggiamenti, prima che parta la canzone della gallina Cesarina che poi si scatena e non mi caga più…

Sotto la pioggia torinese dentro un’auto rossa con la musica ad alto volume a percorrere strade torinesi che nemmeno immaginavo esistessero per arrivare poi dove?! In palestra, sul tatami, sempre e solo sul tatami, su e giù per queste strade che attraversano Torino come vene varicose di questa bella signora di una certa età, che intravedi e respiri quanto è stata bella e ancora ti sorprendi di ritrovarla affascinante anche se affaticata, in alcuni punti forse un po’ sciatta, ma comunque una gran signora, che quante ne ha sopportate e viste, quante ancora ne vede eppure è sempre in piedi e ancora ci prova a restare abbottonata, a non sbilanciarsi, a volte ti fa incazzare con quel suo dire si per dire no come mi ha fatto notare una mia amica, che se non sei di qui, come me, non lo capisci perché deve fare così , perché non si espone e non dice chiaramente cosa pensa, ma poi tanto è così, Torino è così, che se piove non si scompone, che se piove si ripara sotto i portici.

Sotto la pioggia torinese, nella macchina rossa che attraversa la città con la musica ad alto volume con la voglia di arrivare sul tatami e tutto quello che significa: per lei l’amore, la passione, il futuro, la forza motrice, per me il piedistallo. Il podio. Mica quello delle gare. Chissenefrega delle gare, delle medaglie.

Io sono il piedistallo. Io sono  il podio. Dove lei poggia i piedi, a volte pesanti di sconfitta e fatica e sporchi di pavimenti di palestre assurde, altre volte leggeri, freschi, salterini, felici di vittoria e appagamento. Io sono la base solida quando va male, io sono l’appoggio leggero quando tutto va bene, quando salta talmente in alto e calcia talmente forte che non le servo ma resto lì, ci sono, perché tanto lo so, che appena torna a terra si volta a cercarmi. Solo con lo sguardo. E basta così. Il mio sguardo, il suo sguardo. Appoggiati. Con tutti gli accenti che vuoi. Appoggiati tu a me. Appoggiati tra loro i nostri sguardi.

Per l’altra significa stare con me che è ancora il suo modo di amare la vita, amare me, amare se stessa  come  si amano le cose grandi, il mare, i vulcani, i viaggi verso le vacanze, le domeniche mattina. Per lei che mi ha detto “se potessi scegliere tra 100 mamme immortali e te mortale, io sceglierei te mortale, sempre”, mettendo in conto il dolore in questo amore così grande che come fai a dirlo o a misurarlo non puoi e allora stiamo vicine ora che per stare lontane avremo tempo, poi.

Sotto la pioggia torinese, in questa macchina rossa con la musica ad alto volume e la scelta di una canzone a testa c’è questo trio un po’ comico un po’ tragico, a volte melodrammatico, a volte ridanciano: “ferma la canzone che devo raccontare una cosa”-“non puoi parlare adesso che sto ascoltando io” ”ma porca miseria ‘sto semaforo dura niente” , un trio innamorato che viaggia per la città scambiandosi opinioni, facendo battute, creando e alimentando un linguaggio segreto e iniziatico, un trio canterino che poi sceglie sempre una canzone che piace a tutte e tre così si canta insieme.

Sotto la pioggia torinese c’è una macchina rossa con dentro un trio buffo che canta a squarciagola “una vita in vacanza”-Statosociale-  e Pepe, lei, a un certo punto la canta così:

 

Una vita in vacanza
Una vecchia che balla

Niente uovo che avanza
Ma tutta la banda che suona e che canta
Per un mondo diverso
Libertà e tempo perso
E nessuno che rompe i coglioni
Nessuno che dice se sbagli sei fuori

 

E Cristina la corregge “ma cosa dici niente uovo che avanza, è niente nuovo che avanza”

E lei si arrabbia, perché Pepe se la correggi si arrabbia, regolare.

E io rido.

E Pepe si arrabbia, perché se ridi di lei si arrabbia, regolare.

E io le dico “dai, non fa niente, la canzone dice niente nuovo che avanza, è vero. Non ci sono uova.”E rido ancora . E lei si incazza proprio.

Poi ride anche Cristina.

Alla fine ride anche Pepe, regolare.

“però scusa, che senso ha dire niente nuovo che avanza? Ha più senso dire niente uovo che avanza,vero mamma?! E tu non ridere, scemaaaaa!”

Sotto la pioggia torinese in una macchina rossa si cerca il senso degli avanzi,si parla di un uovo, del nuovo, si canta, si ride. Fuori piove. Dentro no.

E nessuno che rompe i coglioniiiiiiiiiii

 

Con dieci dita noi contiamo

 

 

Siamo quel che siamo, con dieci dita noi contiamo

Abbiamo occhi per parlare e bocche che san scrutare

Ogni centimetro del collo appiccicate come un francobollo e giù

Tra le pieghe della pancia ma è la tua mano la misura della mia guancia

Abbiamo corpi stanchi di giornate una sull’altra ammonticchiate

Come i panni sporchi di lavoro,noi siamo noi e gli altri io li ignoro

Siamo quel che sentiamo ed allora io sono il tuo petto ed ogni suo suono

Il tuo respiro che di notte nel silenzio è  un bicchiere di assenzio

Per digerire  i giorni quelli sbagliati e quelli  strani, malcapitati

Siamo quel che amiamo ed allora io sono il tuo sorriso come un dono

Che mi chiedo come l’ho meritato,ci penso e no, che cavolo,l’ho guadagnato

Siamo quel che siamo, con dieci dita noi contiamo

Abbiamo mani per sentire i bisogni e orecchi per raccogliere i pensieri di cui ti vergogni

Come contenitori da cucina con il tappo colorato, so cosa ti ha addolorato

Siamo quello che vogliamo e allora io sono tutto quel frastuono

Che ti abita la testa e del Pelide Achille l’ira funesta

E sono la foga di spogliarsi e il desiderio poi solo di addormentarsi

E sono la regina sul trono tua devota sposa e una mamma che mai mai si riposa

Siamo quel che siamo e con dieci  dita noi contiamo

Siamo ciò che raccontiamo e allora io sono il “c’era una volta” di questa vita che ti ho stravolta

E sono ogni nuovo capitolo, anche quelli senza un titolo

Che tu disegni tutte le figure e con le parole io scaccio le paure

La più brutta è quella di dimenticare tutto questo grande amare

La vita, le nostre figlie come mare dentro le conchiglie

Ogni nome, ogni voce e il tuo sguardo questo sarebbe atroce

Siamo quel che siamo, con dieci dita noi contiamo

Siamo ciò che stringiamo e allora io sono ogni ti amo

Anche quelli che non ti dirò più, disegnali per me puoi farlo solo tu.