Ammetto, ma non concedo.

 

Ammetto di non capire tante cose alcune delle quali sono il mio zoccolo duro di stupidità. Per esempio il discorso dell’ora legale e dell’ora solare, dell’ora di sonno in più o in meno e delle lancette dell’orologio da spostare. Niente, non lo capisco, non c’è verso, mi faccio regolare l’orologio, controllo su Sky tg 24 che ore sono e sistemo l’orologio dell’auto. Basta, non vado oltre, le ore di sonno, tanto, sono sempre meno di quelle che vorrei e mangio quando ho fame, quindi non mi importa che sarebbero le tredici. Invece sono le dodici? o sono le quattordici? Che ora è?

E ancora, non capisco le costellazioni, il piccolo carro, il grande carro, e quelli che te li indicano sicuri e certi e che li vedono e allora annuisco e dico “ già, si, si”, si si niente. Non è vero, lo ammetto. Io non li vedo, vedo luci fisse nel cielo che so che sono le stelle e se capita di vederne una che casca spero non si sfracelli con il suo carico di desideri che sarebbe un peccato. Ecco, il massimo livello astronomico della mia comprensione: luce luminosa non cadere, per favore, scivola solo un po’ che sia più facile affidarti un segreto.

Non capisco nemmeno le bugie. Non nel senso che sono una paladina della Verità, figuriamoci. Io non capisco la bugia quella tecnicamente detta “del cazzo”:  quella del “sono per strada” e invece sei ancora in ciabatte, quella del “sono arrivato in ufficio alle sette, stamattina” e invece avevi ancora le caccole negli occhi e ti rigiravi nel letto, tutte quelle piccole alterazioni della realtà che a molti non sembrano bugie, sembrano innocue e, forse, lo sono, ma io ammetto di non capire come si faccia a vivere in una rappresentazione perenne di qualcosa che non è. Se non sei per strada non mi dire che sei per strada perché io sono limitata, ottusa, ancorata alla realtà fattuale e così stupida da dire di essere per strada quando sono davvero per strada con tutte e due le gambe e il sedere in macchina e il motore acceso, e allora si, allora posso dirti che la realtà è quella e che puoi aspettarmi, sto arrivando.

Ammetto di avere delle caratteristiche particolari, da alcuni definite fissazioni o manie, ma da quelli  che magari annusano la biancheria pulita prima di riporla nel cassetto o tolgono la buccia alle albicocche che per me sei quasi malato di mente a fare una cosa del genere. Io, nel mio piccolo, non bevo nei bicchieri bagnati, mi fa schifo. Devo asciugarli, altrimenti vomito. Mi fa stare male, malissimo, un quadro storto. Dio, solo scriverlo mi scatena agitazione. Ho raddrizzato quadri ovunque, nelle sale d’attesa dei medici, nelle sale riunioni di mezza Torino, dai parenti, nei corridoio della scuola delle ragazze.  Non so il perché, me lo chiedono spesso, taglio corto e dico che è una questione di ordine. Che senso avrebbe  dilungarsi e dire che un quadro storto è in bilico, è dimenticato, è sul punto di cadere o forse no, ma sta male, è una ferita aperta su  un muro e le ferite sono dolorose. Faccio prima a raddrizzare il quadro. Ancora, leggo i libri seguendo l’ordine cronologico di acquisto. Quindi, se voglio assolutamente leggere un libro non lo compro finchè non si è esaurita la coda sul comodino. Non posso fare favoritismi e far saltare la fila, ciascuno secondo il proprio turno e pazienza.

Ammetto di avere delle intolleranze. Non alimentari ma personali. Sono intollerante ad alcune categorie e puntualmente mi ci imbatto, mi ci scontro in una lotta karmica per la mia evoluzione ed è sempre molto faticoso perché, ammetto, che mi si scatena dentro una furia, robe da Erinni, e non riesco, spesso, a controllarmi, a fermarmi, a lasciare che ciascuno si schianti lungo la propria strada, ammesso che sia già per strada. Quindi, oltre a quelli che sputano la buccia delle albicocche  e che appendono i quadri storti come se, questo, fosse normale, ecco, non tollero i mistificatori professionisti, gli specialisti degli alibi, i laureati all’ università della vita perché non esiste e bisogna dirlo, quelli che hanno un qualche cazzo di passato glorioso ma che, guarda caso, si è perso definitivamente e non è accertabile, che tu pensa la sfortuna nell’era di internet cerco e non trovo i prodigi e le imprese fenomenali  sugli sci, su un campo da calcio, sulle passerelle di Versace, alla  Nasa e così via.  Non tollero quelli che dicono di un altro “è buono”. Da mangiare? Buono per fare cosa? Per montare una mensola, per fare un trasloco, per parlare della vita, per raddrizzare un quadro, per operarti in laparoscopia? Buono per cosa?  siamo tutti buoni e siamo tutti capaci e siamo tutti cattivi e siamo tutti imbecilli. Sentire  “è buono” come se fosse “è alto” è biondo” mi dà fastidio, non lo tollero.

Ammetto di avere amato moltissimo pochissime persone. Ammetto di amarle ancora un po’, tutte. Nel ricordo che con gli anni è sempre più tollerante, lui si, non come me. Nel racconto, che con gli anni si è perfezionato e ha restituito a ciascuno la propria parte con grande onestà e gratitudine, perché anche lasciarsi è una conquista  e a volte ci si arriva solo dopo anni di attesa e assedio, alla fine però c’è la resa da una parte e la conquista dall’altra. In questo caso sia la resa che la conquista sono mie. Ho amato molto, molto forte, molto intensamente, molto a lungo, ho amato con rabbia e ottusamente, ho amato disperatamente e non ho mai finto che fosse altro. Ho amato con ogni forza e con lealtà. Sono diventata una ex ingombrante, sono stata una ex impegnativa, ho fatto anche la ex rompipalle, si. La ex alla quale si dovevano dare spiegazioni. La ex alla quale nascondere una nuova relazione. E sono stata la ex che scappa, che non vuole parlare, la ex che non vuole più sentire il tono della voce perché è come un graffio con la forchetta sul piatto, Dio, quella voce che fastidio, che orrore, sono stata una ex che ha incenerito e distrutto e maledetto. Ma tutte quelle x sono il cromosoma dove c’è il mio dna mitocondriale, sono io nella versione antica, profonda e inalterata di me stessa. Tutte quelle ex sono la donna di oggi che ha firmato l’armistizio con ogni amore e lo ha lasciato andare, tendendone solo un pezzo, un brandello di ricordo.

Ammetto di trovare rassicuranti alcune situazioni, come mio padre che mi aspetta. Io, se so che dove sto andando c’è mio padre, ci vado più sicura. Nessun complesso irrisolto, nessuna proiezione, solo mio padre e il suo sguardo, che ci siamo capiti. Gli uomini che sanno parcheggiare, mi rassicurano. Al contrario, gli uomini che sono impacciati nelle manovre di parcheggio li assimilo agli eunuchi. Io guido, non bene, lo ammetto. Guido da 21 anni e vado, vado, vado, ma il parcheggio mi mette in crisi, spesso. L’uomo che sa parcheggiare è l’esemplare che, per me, ha le caratteristiche per mandare avanti la specie. Ha vinto nella lotta per l’evoluzione.

E poi.

In fondo.

Ammetto di non poterne più di sentirmi descritta come una stronza, una pessima madre, una moglie dispotica e arrogante. No, basta. Ecco perché lo dico lo scrivo. Se volete leggerlo eccolo qui, spiattellato per voi. Sono un mostro,si. Ma nella vox media, sono un “monstrum” . Guardatemi, meravigliatevi e soprattutto cercate cosa vuol dire vox media su internet, che a differenza delle gesta eroiche di molti dei miei narratori è una ricerca che dà risultati.  Basta, davvero. Facciamo che chi sono, adesso, lo dico io. Lo scrivo io. Come mi pare, come so, dal mio personalissimo e parzialissimo punto di vista, facciamo che basta.  Facciamo che sono la madre che voglio essere ogni giorno, la sola madre delle mie figlie, comunque. Facciamo che sono la moglie che è stata scelta, a differenza di un sacco di altre persone che ci capitano nella vita e ce le dobbiamo tenere. Facciamo che il mostro ha smesso di tacere e , ammetto, questo non era stato previsto. Ma mi diverte molto, moltissimo. E allora, ammetto che ogni volta che lascio un pezzetto della mia insofferenza, del mio dolore, del mio disgusto, insieme  a un po’ della mia vita, della mia storia che è sempre e solo una storia di amore e di rabbia, del mio spogliarmi sulla carta a dire “eccomi, sono questo, solo questo eppure tutto questo”, ogni volta che io mi mischio con le mie parole, mi faccio a pezzi da sola  e mi butto sparpagliata e mi scappa di dire che è finito il tempo e la credibilità per molti, ogni volta, lo ammetto, ogni volta che questo avviene io sento il carico che si alleggerisce e sento che posso viaggiare meglio, che mi basta una borsa sempre più piccola, che il quadro è dritto, il bicchiere è asciutto, l’ora è sempre giusta, io sono io, sempre più io, sempre meno qualcosa che non è mai esistito come quelli che arrivano in ufficio alle sette. E sto bene. Lo ammetto.

Solo un po’

 

C’è una settimana dell’anno che dura cinque giorni che sembrano dieci e nel ricordo solo due, alla fine. Ogni anno a luglio si verifica questo fenomeno. È la settimana durante la quale Cri e Pepe sono al mare con il loro papà e io torno a Torino per lavorare.

Il primo giorno parto, saluto le mie ragazze, le annuso sul collo mentre le bacio, cado nel luogo comune delle raccomandazioni- mettete in ordine, comportatevi bene, non litigate, date una mano a papà, fate i compiti, lavatevi i denti, non litigate, occupatevi di scaricare la lavastoviglie, stendete i costumi subito dopo la doccia, rifatevi i letti, non litigate- loro annuiscono, io parto, ultima annusata, treno, ciao, viaggio. Ciao. Il primo giorno è una falsa partenza, è un giorno di spostamenti, di valigia in bilico che tiro su in qualche modo e tiro giù confidando nel buon cuore di qualche giovanotto, ormai, di un libro letto pigramente, di paesaggi ignorati dal finestrino, di pensieri lenti su un treno ad alta velocità. Scendo a Porta Susa, più comodo di Porta Nuova, metro fino alla fermata  Racconigi dove c’è l’auto che mio marito ha lasciato posteggiata vicino al mio ufficio quando ha fatto il mio stesso viaggio, all’incontrario. Come il treno dei desideri dei miei pensieri che all’incontrario va, che poi Azzurro è pure la prima canzone che ho imparato da bambina, era il 1983 credo e la strada delle vacanze era verso la Puglia, con zii e cugini e cene chiassose e chi vuole la pasta in bianco e chi con il sugo e tutto che sembra fermo invece no. Macchina recuperata, verso casa. Musica, sensazione di essere una turista nella mia città, lungo le strade che percorro ogni giorno. Cancello di casa, il mio pastore tedesco che mi guarda come se fossi proprio la persona che stava aspettando.  Porta, sono dentro. Cerco quello che lui ha lasciato uscendo, nel suo viaggio all’incontrario, un segno, non so qualcosa che mi dica “ero qui un attimo fa” . Entro in camera da letto, poi vado nella camera di Cri, che casino eppure lei sta bene qui, è la sua tana, tra i libri di Harry Potter e gli attestati degli esami di Karate, la foto del suo istruttore, la coppa di quando ha vinto l’oro e la sacca delle protezioni che usa in combattimento vicino al letto, come se dovesse essere pronta per la fuga in piena notte , poi entro in quella di Pepe , con le tende rosa e il copriletto bianco, la foto dei suoi migliori amici sulla scrivania ordinata e i libri sulle mensole,la casa di Barbie e la targa “La Principessa dorme qui”, piccola bambolina tenace, caparbia, leale, profonda, piccolo essere misterioso ironico e spietato.

La cucina, la tazza della sua colazione del giorno in cui è partito, i nostri posti a tavola. Per una settimana non mi siederò. Non cucinerò. Non c’è nessuno per cui farlo. Il bagno, il dentifricio senza il tappo. Ovviamente. Il segno. Doccia, scatoletta di tonno per me, croccantini per i  cani, denti, dentifricio tappato, pigiama, occhiali, libro, telefono- tutto bene, si fa caldo, tanto, è l’afa che ti uccide qui lo sai, voi? Bene, il mare oggi? Si, si il treno puntuale, niente, si, leggo, adesso dormo, domani vado in ufficio. Ok. Bacio.

Il letto, mi metto in obliquo e occupo lo spazio, annuso il cuscino come se fosse un collo, sento dove non c’è e dovrebbe esserci, sento dove non c’è e vorrei che ci fosse. Tutto spento. Il primo giorno mi serve per mettere distanza, per pensare al singolare. C’è un libro appoggiato sul mobile dell’ingresso. Un libro nuovo, ma che ho già letto, ne ho una copia nella libreria. È un libro che parla di felicità e di malinconia. Solo chi mi conosce bene può comprarlo e poggiarlo lì, come se fosse una dimenticanza e invece è un segno.

I giorni che seguono sono giorni di silenzio, arrivano in silenzio, trascorrono silenziosi e scivolano nella notte in silenzio. Sono giorni senza orologi, lavoro senza pensare fino a quando potrò farlo ma solo fino a quando voglio. Vado avanti ancora un po’, vado a prendere il caffè, non ho fretta, non devo fare altro se non  quello che sto facendo, non c’è nessuna scuola che chiude alle 16, non c’è il karate, non c’è il tennis, non c’è il dentista, la festa del compagno, la cartuccia della penna scarica e i ricambi a quadretti di terza con margine che sono finiti, la cena da preparare, la stanchezza da mascherare ancora un po’, solo un po’. Ci sono io che mi alzo il mattino in silenzio, faccio colazione in silenzio, parlo così, a caso, parlo da sola, con i cani, con lo specchio che mi rimanda la mia immagine riflessa e basta, nessuno che deve farsi la coda alta che più alta non si può proprio  nel mio bagno- ma perché non vai nel vostro? Avete il vostro bagno, usatelo- Perché qui ci sei tu, mamma-, nessuno a cui dire di prepararsi, di muoversi, di accelerare.

I giorni che seguono sono i giorni in cui un po’ perdo le mie ragazze, un po’ le dimentico, un po’ lascio il telefono in un’altra stanza perché non ho premura di sentirle, di aspettarle, sono i giorni in cui mi cerco un po’ e un po’ mi immagino, se fosse andato diversamente, così tanto per pensare, mica sul serio. Sono i giorni durante i quali penso che mi basterebbe una casa molto più piccola, se fossi sola, che spenderei poco per mangiare se fossi sola, che userei la lavatrice solo due volte alla settimana invece di due volte al giorno se fossi sola.

Verso il terzo o il quarto giorno, smaltito il grosso del lavoro in ufficio, organizzo una cena con le amiche per parlare di niente, dei saldi, delle vacanze, di quella che parcheggia sempre il suv come se la strada fosse sua, dei mariti, degli ex mariti , di quella con il suv dell’ex marito, di noi  ex ragazze sedute allo stesso tavolo che un po’ è strano e un po’ invece che figo, che leggerezza- i tuoi quando tornano? E i tuoi non sono più i genitori per noi ex ragazze che quando diciamo i tuoi, adesso, ci riferiamo ai figli.  I miei tornano sabato- anche i miei- ah- eh- pensa come saranno contenti- eh, si pensa, però in fondo loro stanno bene al mare, che qui cosa fanno? poi è l’afa che ti uccide, a Torino, no?

I giorni che seguono il primo sono i giorni in cui un po’ mi ritrovo. Mi ritrovo ventenne ma meno arrabbiata, mi ritrovo ad ascoltare la radio ad alto volume ma le canzoni sono diverse, mi ritrovo a camminare senza nessuno da cui andare e adesso non mi fa paura. Solo un po’, solo per poco, mi cerco, mi trovo, mi ritrovo. Mi vedo riflessa nelle vetrine e so che sono io ma a volte è come se mi guardassi per la prima volta, un po’ mi stupisco, un po’ mi incupisco. L’immagine è quella di una donna, una ex ragazza, che ha avuto il tempo di mettersi lo smalto sulle unghie dei piedi ieri sera davanti alla tv mentre guardava senza vedere un programma che non sa che diavolo fosse e ha usato il solvente in salotto senza nessuno che si sia lamentato dell’odore insopportabile, a parte i cani. L’immagine è quella di una donna che sa che quel che vede non è tutto lì, una ex ragazza che sa che manca un pezzo, un pezzo che non trova, se si cerca troppo indietro, per questo lo fa solo un po’, di cercarsi, di trovarsi, di ritrovarsi, solo un po’, solo una settimana, solo una volta l’anno, solo un po’indietro.

Dal quinto giorno, da oggi quindi, comincia il conto alla rovescia. È solo una settimana, è una settimana di appena cinque giorni veri, effettivi, è una settimana durante la quale ogni ora vale il doppio, il triplo perché non c’è nessuno che ne occupa una parte, ogni ora è solo mia. È una settimana che dura solo un po’, come la carrozza di Cenerentola, come un bagno con tanta schiuma, come un massaggio dalla punta dei capelli alle dita dei piedi, come una parentesi in un’ espressione che serve per andare avanti e risolvere l’esercizio.

Domani è l’ultimo giorno, l’ultima notte in obliquo. Andrò a lavorare, farò tutto come oggi, come ieri, con calma, in silenzio. Mi guarderò ancora, solo un po’, in una vetrina, in uno specchio al volo, mentre passo per andare da nessuno e da nessuna parte, leggera e incompleta ma comunque io, intera ma senza un pezzo, qualcosa che sfugge a un osservatore esterno, a uno che non sa che il giorno dopo tornano i miei, a uno che non cerca il segno.

Sabato mattina guarderò l’ora. Aprirò la porta del corridoio che porta alle stanze delle ragazze, farò entrare luce, aria e afa assassina nelle camere, il sole illuminerà le foto, la polvere danzerà in controluce, entrerò in cucina , aprirò il frigo e il panico avrà la meglio. Uscirò a fare la spesa, solo un po’, però. Tanto poi si riparte. E aspetterò. I messaggi saranno il metronomo della mia attesa e del loro viaggio. Saluterò la ventenne che mi ha tenuto compagnia in questi pochi giorni, senza rimpianti, è una brava ex ragazza, ma la sua compagnia va bene solo un po’. Guarderò l’ora, ancora, fino a quando non si aprirà il cancello, i cani correranno verso l’auto, le ragazze scenderanno e sarà tutto un annusare, i cani tra di loro e ciascuno Cri e poi Pepe e io nei loro colli, nei capelli e  l’odore sarà quello di casa, per tutti. Poi guarderò lui che lascerà la portiera aperta, come il tubetto del dentifricio, avrà la mano destra sul fianco e passerà la mano sinistra sul viso stanco di guida , sollevandosi gli occhiali- Ciao- Ciao- collo, testa, eccoci. Nel finestrino, finalmente,  riflessa l’immagine completa.

Lieto fine

 

Non ti è piaciuto il riferimento a Orfeo perché “non ha un lieto fine la storia” mi hai detto. Anzi, mi hai scritto, io ero al mare con le ragazze e tu a casa, in ufficio, al lavoro. Insomma lontano da me, dove sono io adesso, lontana da te che sei al mare con le ragazze, arrivato per darmi il cambio come due giocatori che si battono il cinque durante una partita, dentro uno, fuori l’altro, conta solo il risultato.

Non ha un lieto fine la storia, vero. Perché è una storia che finisce e non un amore che finisce,che sarebbe meglio. Perché lei muore per essere fedele, lui si dispera e sfida qualunque logica, qualunque limite umano e persino gli dei per riaverla con sé perché quell’amore che sopravvive alla storia lo distrugge. Lei non c’è più e lui la rivuole. Canta, questo sa fare, canta il suo amore e ottiene di riaverla, nessun canto aveva mai potuto tanto, il suo si, il canto dedicato a quell’amore così vivo riesce a fare quello che nessuno, niente, è mai riuscito. Può riaverla e va a prendersela. Ha sfidato, ha vinto. C’è solo una condizione: non deve voltarsi finché non saranno, entrambi, completamente fuori dalle tenebre. Va bene, si può fare. Anzi no, non si può. Desiderio, tracotanza, stupidità, fallibilità, destino, necessità. Quel che è. Ma lui si gira prima, presto, troppo presto, mancava poco ma no, niente, non  potrà riaverla perché non è stato in grado di riaverla, perché si è girato e ha deciso, così, di amarla per sempre, di cantarla, di perderla  perché, dai, nessuno torna dal regno dei morti, lei non sarebbe stata più lei, e lui cosa non doveva vedere, perché quel divieto di voltarsi, chi era, adesso, la sua Euridice?  E lui, lui chi era adesso? Senza di lei? Con lei?  Lei la sola capace di fargli toccare tutti i suoi limiti per superarli, lei la sola per la quale affrontare la vita e la morte, gli inferi e la propria paura, lei che lo aveva portato ad essere il meglio di se stesso, a creare qualcosa che non si era mai sentito. Per lei aveva affrontato tutto, per lei perdeva di nuovo tutto. Dai, nessuno vince con gli dei.

Non ha un lieto fine la storia, vero.

Quale storia ce l’ha?

Tu conosci storie che hanno un finale felice? Io no. Io conosco amori che finiscono. Male, molti. Bene, alcuni. Con il tempo anche il male diventa bene, però. Gli amori che finiscono si spengono, si consumano, si sfilacciano e più o meno lentamente  si rimpiccioliscono, affievoliti, sgonfi, incerti, fino al punto che diventano piccoli, invisibili, lontani e sai che ci sono stati e sai che non ci sono più. Gli amori che finiscono, alla fine, finiscono bene. Perché, intanto, si è entrambi vivi e già è molto. Perché gli amori che finiscono vanno a stare in angoli disadorni della mente e lasciano il segno, dopo un po’ come i quadri sulle pareti. Gli amori che finiscono ci consegnano le chiavi di casa, ci sbattono fuori di casa, si riprendono i regali, si dividono le foto e si addossano le colpe. Gli amori che finiscono danno fastidio, come il  rumore della masticazione all’improvviso, insopportabile, come un tubetto del dentifricio lasciato aperto, sempre, sempre, sul lavandino e poi si secca e non esce più. Gli amori che finiscono assomigliano a quelle espressioni di tua madre, della mia, di una madre, che non si riesce più a sopportare. Gli amori che finiscono si spiegano agli amici e fanno pulizia, chi sta con chi, schieramenti e coalizioni. Gli amori che finiscono a volte li cerchiamo per conferma, incertezza, debolezza, riconoscenza, paura, perché si sa già come si fa, tutto, e dopo si piange perché gli amori che finiscono non sono più amore.

I miei amori finiti sono, alla fine, finiti bene. Si. Anche i tuoi, penso. Ammesso che tu abbia amato prima di me… so che stai pensando alla risposta e si, puoi dirmi che hai amato. Ma meno. Meno bene. Meno amore, meno di tutto, prima di me.

Le storie, invece, quelle no, quelle sono un’altra cosa. Un’altra storia. Io di storie che finiscono bene non ne conosco.  Perché il lieto fine sta nel fatto che non finiscono ma, non possiamo sfidare gli dei, tutte le storie finiscono perché sono esperienze umane. Iniziano, vivono, muoiono. Ecco, le storie muoiono. E resta sempre un superstite. Un sopravvissuto. Uno che vaga a cantare di un amore vivo e di una storia morta che è stata viva, che è stata una storia di ogni giorno per tutti i giorni, la storia di una vita come i miei nonni, sai. Se devo immaginare LA  storia d’amore, ecco è quella. La favola, l’amore, i figli e i nipoti, nessuno che valga quanto il bacio sulla porta tutti i giorni, la mattina e la sera con la cadenza della posologia di un farmaco e con la stessa dedizione come se fosse la cura e verrebbe da dire si, lo è, lo è stata, invece no. Invece senti quanta sofferenza , senti quanto dolore, senti quanto poco è lieto il finale di lei che un giorno lo guarda e gli dice “signore, deve andare via da casa mia prima che arrivi mio marito, che è molto geloso”.  E lui non va via. Cerca di tenerla stretta. La cura, la accudisce, la ama. E lei si dimentica di lui. E lui ricorda per due, ogni giorno, debole, malandato, chissà per quanto potrà provare a trattenerla, a non lasciarla scivolare ma lei è già andata e si è già perduta nella nebbia e non sa più di averlo amato più di se stessa, penso, credo, l’ho visto che l’ha amato così, sempre, e quell’amore non finisce, lui lo porta avanti, è la storia che finisce e non è lieto, il finale. E quell’amore è ancora in giro, sai, è come se ci galleggiasse sulla testa invece la storia è spezzata, morta con lui e perduta con lei che non sa di essere stata Euridice, in grado di portare Orfeo a fare l’impossibile.

E io non penso che il nostro amore finirà bene. Penso che la nostra storia non avrà un lieto fine. Anche se non posso averne la certezza, mica sfido gli dei o il fato. No, nessuna certezza.  Ma se ti chiamo Orfeo è perché penso che tu per me saresti disposto a superare i tuoi limiti. Che tu verresti a riprendermi anche giù negli inferi, che faresti di tutto per rivedermi una sola, ultima volta. E si, penso che ti gireresti, un attimo prima. Per perdermi. Per lasciarmi andare. Per non accanirti. Per avermi per sempre. Perché sai che ti resterei fedele, ovunque. Perché è il solo modo di non dimenticarsi.

17

 

Mancano giusti due mesi, in fila sessanta giorni sospesi, sessanta come i secondi e saranno 40 tondi tondi, chè in fondo manca un minuto o il tempo di uno starnuto e quel giorno sarà arrivato, indietro solo il tempo passato e non si può dire che sia poco o che sia trascorso come un gioco eppure, si, mi sono divertita, che vicenda buffa la vita, sempre più simile a una valigia con all’interno stipate le mie vestigia, segni , impronte e tracce, momenti di gloria e figuracce, amori solo immaginati, amori che si sono fermati per un attimo o per un momento che domani è un altro giorno e via col vento, tutto l’amore che ho vissuto e se solo ciascuno avesse saputo… lui che è stato il primo , quello che solo al pensiero mi deprimo, c’è stato uno che non sapeva se poi davvero era me che voleva e il fenomeno che invece era sicuro, uomo adulto forte e maturo, se lo vedete potete dirgli che mi sono sposata e ho due figli, quante cazzate in 40 anni, dette sentite con e senza danni, ma per tutto quanto che ogni volta ho sbagliato, giuro, il conto ho pagato.

Porto in giro a testa alta questa faccia e ogni sua traccia , il dolore e la speranza sempre insieme come in una danza, a volte conduce lui e allora i momenti si fanno bui altre volte guida lei e non si vedono nemmeno i nei e uso sempre queste mani per gesticolare come i napoletani, per me niente di nuovo, arrivo da Castel dell’Ovo e di quella stirpe mi porto appresso: che non mi fai fesso, il sorriso detto a scucchia, la pienezza e la nostalgia che è nello sguardo, non va mai via. E con me ci sono ancora gli anni di corsa a fare tutto e i momenti tristi di lutto con i polpastrelli a sfiorare rapidi baci lenti affidati alle lapidi, saluti a tempo determinato, ci ritroveremo e niente sarà cambiato, l’amore sarà sempre il filo che unisce, nessuno va via finchè il ricordo non finisce. 40 anni tra pochi giorni e si contano le andate e i ritorni, gli anni di studio e la banalità, non sono il voto dell’università ma sono la vita che ho impiegato fino al colmo della bottiglia e il messaggio che li ho infilato da affidare al mare e alla corrente, sono tutto quello che il cuore sente, sono le mani che ho teso e lo sguardo offeso, sono il fondo più fondo e la terra che casca nel girotondo, sono Cassandra che sa e dice e sono Euridice che a lui si affida ma sono 40 anni che vivo la sfida di essere esattamente ciò che sono, scusate se non chiedo perdono e anzi adesso, lo dico, fieramente me ne sbatto, come il cappellaio matto, del giudizio, del rumore, del brusio, di tutto quanto è lontano dall’animo mio, dentro al quale c’è ciò per cui vivo, le mie figlie, Orfeo e ciò che scrivo.

Io parlo da sola

 

Mia madre parlava da sola, in casa, mentre faceva da mangiare, mentre divideva i panni del bucato, gli scuri di là e i bianchi  qui, i delicati accanto ai bianchi, i colorati accanto agli scuri.  Anche mentre stirava o smontava le tende della sala dopo essersi arrampicata e io sotto a tenerle la scala. Mentre correggeva i compiti, i temi, i problemi, gli esercizi con le frazioni dei bambini, scuotendo la testa seduta al tavolo della cucina ricoperto da tutti quei fogli, la sigaretta sempre tra le dita della mano sinistra e la penna rossa tra quelle della mano destra. Bastava seguire il suono, basso, appena percettibile come una litania o un rosario per trovarla, in casa, da una stanza all’altra. Mio padre la prendeva in giro per questo, un po’ anche io e mio fratello. Non so se lo fa ancora, forse si, adesso è molto più sola in casa di una volta e quando vado da lei a volte mi sembra di sentirla parlare nella stanza accanto a quella dove sono io, allora le dico a voce alta, senza muovermi, “cosa hai detto, mamma?” e lei mi risponde “no, niente”. Perché non sta parlando con me, né con nessun altro. Parla da  sola. Non l’ha più fatto per un  periodo, tantissimi anni fa, oltre trenta, quando non è stata bene. Penso, oggi, che avesse la testa troppo piena di echi e rimbombi per far uscire dei suoni, per articolare frasi di senso compiuto rivolte a nessuno o solo a se stessa. Le teneva tutte dentro, le parole, le sentiva ma non le diceva, chiudeva gli occhi come a seguire un discorso senza interlocutore, che poi non sapevi se ascoltava davvero o no, come il preside della scuola delle mie figlie, che tu gi parli, lui chiude gli occhi, incrocia le braccia sulla pancia e sorride. E non saprai mai se è estasiato dai tuoi commenti o se sta pensando che tra pochi minuti finisce il colloquio e ti toglierai dai coglioni.

Quando è stata meglio, mia madre, il preside fa tutt’ora così, ha ricominciato a parlare da sola. Mio padre ha smesso di prenderla in giro.

L’anno scorso, un giorno qualunque, ero da sola in casa, sono entrata in lavanderia per avviare la lavatrice, ho acceso la luce e mi sono diretta al cesto della biancheria. Parlando da sola. Dicevo cose, proprio cose, non parole e basta. Dicevo parole che le toccavi, parole che erano cose con una forma, una dimensione, un colore, un peso. Enorme.

E il giorno dopo, un giorno qualunque, mentre rifacevo i letti nelle camere delle ragazze, ho parlato ancora. E ancora il giorno dopo, altro giorno qualunque, in ufficio, al computer mentre i numeri correvano sullo schermo. E così via. Da sola. Non me ne sono accorta subito, no. Non ho pensato alla storia di mia madre, figuriamoci. Non ho pensato che parlavo da sola. Non ho pensato. Stavo parlando. Niente di più naturale, come un cane che abbaia, che quanto mi fanno incazzare quelli che al cane in giro dicono “e non abbaiare”,già, miagola magari. Come si fa a dire a un cane di non abbaiare? Come si fa a dire a una persona di non parlare?

Poi, un giorno qualunque, davanti al mare, lontana dal lavoro e dai numeri sullo schermo e dalle scadenze da ricordare, tutte sempre, lontana da casa, lontana mesi e mesi nello spazio da quel giorno in cui ho sentito che parlavo da sola, lontana decenni nello spazio da mia madre che parla da sola e che poi non parla più, dal suo silenzio e dal rumore che aveva nella testa, lontana anni dall’uomo con la barba, la voce dietro la testa del venerdì all’ora di pranzo, l’uomo con la barba che dopo la nascita di Pepe mi ha tenuta per mano aiutandomi a vedere a fondo, il fondo, il gorgo scuro che spaventa e invece no, bisogna vederlo perché esiste e si deve saper accogliere e gestire, dopo la psicanalisi che è stata il mio autan contro le zanzare, il mio antistaminico contro le punture di insetti,  la ricetta per cucinare sulla base delle mie intolleranze,lontana da tutto questo ma consapevole della sua esistenza, consapevole di ogni giorno qualunque, quel giorno seduta davanti al mare che oltre con lo sguardo non potevo andare e allora restavo a guardare laggiù il mare calmo e quaggiù il mio gorgo agitato ho capito di aver iniziato a parlare da sola dopo l’ultimo incidente, l’ultimo in ordine di tempo, quello dello scorso anno. Quando sono rimasta a terra. E ho pensato che non avrei trovato il modo di alzarmi di nuovo, ho pensato che sarei morta, ho riso perché nessuno muore per questo, ho pianto perché una parte di me sarebbe morta di questo. E mentre lo pensavo lo dicevo. A nessuno. A me. Alle mie orecchie, perché le parole erano rimaste incastrate in gola e faticavo, mancava il respiro. Ero a terra, dopo l’incidente. Dopo la mandria di bovini che mi aveva investita. Scappati dal recinto, mio marito non lo aveva elettrificato o non lo aveva chiuso bene, lui entrava nel recinto, le bestie erano le sue, ne era responsabile lui. Doveva fermarli ma non ha pensato che dei bovini fossero pericolosi, infatti non lo sono, ma sono grossi, ingombranti, quando si muovono sono pesanti e poi cagano dappertutto, vanno tenuti nella stalla e bisogna mandare qualcuno a pulire. Quando la mucca più vecchia e ormai inutile, non buona per il latte e troppo anziana per il macello aveva dato segni di instabilità e malessere nei mie confronti gli avevo detto che bisognava fare qualcosa, ma lui aveva sottovalutato. Così è avvenuto l’incidente. La mucca vecchia e gli altri bovini, mucca figlia, nipote vacca e altri capi di bestiame, cornuti e meno, sono usciti. Rumorosi, sporchi e maleodoranti. Li ho visti con la coda dell’occhio, ero troppo vicina per evitare l’impatto, ho fatto in tempo a buttare di lato le mie figlie, una da una parte, una dall’altra e dentro di me dicevo “lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo “ e poi non lo dicevo più dentro ma fuori, a voce bassa, e poi sempre più alta, e poi basta perché mi sono passati sopra e ho protetto il viso che non mi facessero male agli occhi e ho protetto la testa che non mi facessero danni alla scatola cranica che lì dentro ho tutto, tutto e mi sono ritrovata a terra. In attesa dei soccorsi. Non sentivo più le gambe e avevo freddo. Piangevo, perché avevo letto che sono i sintomi di quando ti rompi la colonna, non senti dolore ma torpore alle gambe e freddo. E pensavo che non avrei più camminato. Per colpa dei bovini. Ho pensato che dovevo verificare in letteratura medica quanti casi di paralisi sono riconducibili a investimento da bestiame. Ho pensato che dovevano, lui doveva, catturarli tutti e macellarli tutti.

Ho guardato il cielo, gli occhi erano a posto, ho sentito le ragazze dire che stavano bene e ho sorriso perché loro mi fanno sorridere, loro mi fanno felice, ho pianto ancora un pianto acido e dicevo a bassa voce, a me, dicevo  adesso le lacrime mi corrodono, mi divorano, mi lasciano segni permanenti. E attendevo i soccorsi. Rimanendo ferma perché, avevo letto, che non bisogna muoversi finchè non è accertato il danno. Sapevo di averlo subito, sapevo di essermi rotta, avevo paura che i bovini tornassero indietro ma poi mi sono detta no, non lo faranno, sono stupide mucche non sanno nemmeno cosa hanno fatto, vanno dritte, mica sanno, mica sanno niente. Allora stavo ferma, con gli occhi aperti per lo spavento, con le lacrime inarrestabili, con i pensieri che diventavano suoni gutturali e profondi, ma non era vero, non parlavo, non ancora, sentivo le mie parole ma non le dicevo, credevo di dirle, ho creduto di dirle per tanto tempo e invece le avevo sempre e solo pensate e ora avevo un grumo in gola e speravo che fossero le parole e non il mio stesso sangue che poteva soffocarmi e non potevo nemmeno mettermi in posizione laterale per cercare di vomitare ma poi mi dicevo , o pensavo, non so, pensavo a voce alta con la voce solo nella mia testa che anche le parole mi avrebbero soffocata se non fossero uscite e che sarebbe stato meglio usarle per annegare gli altri che non tenerle per soffocarmi da sola. Ecco il gorgo, che tornava ad agitarsi e non era il momento, ma il tempismo non è il mio forte, ecco le Gorgoni che arrivano, eccole, una dopo l’altra che risalivano dal mulinello con il loro sguardo di pietra e ho pensato, oppure ho detto, che erano i soccorsi. I primi. Arrivati per dirmi che non ero fuori pericolo, che i bovini potevano tornare, anche non volutamente, ma potevano. E che avrei dovuto guardarli. E pietrificarli. Tutti. E sono arrivati i fantasmi, i miei fantasmi, subito dopo e mi hanno detto che era tutto sbagliato e che potevo aggiustarmi. Io, senza preoccuparmi del bestiame altrui, e mi hanno detto che era finito il tempo di farmi piccola piccola per non dare noia o fastidio o chissà che altro, per tararmi sulle mucche, per non far sentire ai bovini di essere bovini, che ipocrisia, come dire a un cane che non è un  cane, come quelli che trattano i cani come bambini, dai insomma, le mucche vanno trattate da mucche, io non sono una mucca e non dovevo far credere alla mandria di appartenere alla stessa specie . Ed è arrivato mio padre che mi ha sollevata e messa su una barella e aveva le mani calde sulla mia testa e sapevo che era la sola cosa giusta. Poi sono arrivati  dei sorrisi inaspettati, parole buone da persone che non dovevano dirmi nulla ma che volevano farlo, anime belle, di quelle che hanno graffi anche loro, e segni e dolori misti a momenti di felicità e non mi hanno mai chiesto perché zoppicassi, da quale incidente mi stessi riprendendo o quanto sarebbe stata lunga la mia convalescenza, no, ma non hanno fatto finta che non zoppicassi, che non ci fosse stato alcun incidente. Che non fossi convalescente.

Poi sono arrivate le parole, come alla fine di un sogno o come all’inizio di un sogno, quando tutto ti è chiaro e sai dove sei e cosa fai e chi sei. Ed erano parole nella testa che non bastava più a contenerle, ed erano le poesie imparate e dimenticate ma non scordate, ed erano versi, suoni, lamenti, ed erano la ninna nanna lontana e la cantilena contro il mal di pancia e la filastrocca per trovare parcheggio, suoni nuovi e giochi ritrovati sul fondo di un baule e uscivano e basta e il fiato asciugava le lacrime, tutte, e restavano i segni ma non i solchi come avevo temuto, e i segni andavano bene lo stesso, un memento sul volto a dire che non dovevo farmi piccola piccola mai più, ed era l’ elegia funebre di quel pezzo di me che era morto sotto gli zoccoli bovini  e canto di vita nuova per quel che di me rinasceva a ogni parola detta a voce, con la voce, a nessuno, a me, al mare, al gorgo, alle Gorgoni custodi della mia integrità e del mio rigore.

Infine sono arrivate le mie ragazze, mi hanno abbracciata e rimessa in piedi. Sempre loro, sempre per loro. Mi sentono parlare e sanno che parlo da sola.

 

La formula dei ricordi

 

Avevo scritto una poestrocchia per questo giorno, una cosa carina con le rime azzeccate a disegnare un pensiero di gioco e amore per i tuoi undici anni. A un certo punto faceva così : “hai già tanti tuoi ricordi, eppure se li pesi sono ancora lordi, non sai più bene  la formula vero? Te lo dico con un tono più severo che però dura un momento, vieni qui senti cosa mi invento, io sono la tara e tu il peso netto, mettimi toglimi e vedi se è corretto.

E qui, niente, qui mi si è aperto la ferita dei ricordi, quella che ha la crosta sottile e che non guarisce mai. Davanti al foglio bianco ho visto la mia pancia enorme, smisurata, sopra a cosce piene come due boccioni dell’acqua nel corridoio aziendale su due piedi irriconoscibili, privi di una forma umana. Io la tara. Tu il peso netto.

Undici anni sono abbastanza: non li conti più su due mani, devi astrarre per vederli, o farti prestare una mano. La mia è ancora disponibile. Sono più dei comandamenti e meno delle vertebre della colonna che ti sorregge. Sono certamente pochi per avere rimorsi e pentimenti, sono abbastanza per  le incertezze e per sentire il cuore battere sotto l’incipit di seno che hai e che delinea la donna che sarai, quella che si sta affacciando con passo lieve, come quando fuori c’è la prima nevicata e non sai se i fiocchi si fermano o si sciolgono e la nonna dice sempre “speriamo non attacchi” e tu dici sempre “speriamo che attacchi”. Io spero che attacchi.

Sono abbastanza per attraversare la strada da sola, per organizzarti i compiti, per scegliere dal menu al ristorante, per nuotare oltre la boa. Per farti dare il resto e controllarlo prima di uscire, ma forse è meglio non approfondire, altrimenti è come con la formula del peso lordo, scopro che hai dimenticato tutto, mi arrabbio, parto con la predica e ti incupisci poi ti giri e mi fai il verso.

Io me li ricordo tutti, sai, questi undici anni. Ogni giorno, anche quelli uguali a tanti altri e quelli che hanno segnato dei passaggi o dei cambiamenti dai quali nessuno di noi è tornato lo stesso di prima. Ricordo chi c’è stato, chi è solo passato, chi non si è mai visto. Ricordo chi ha detto cosa e quando e se mi è piaciuto o no. Ricordo la tua faccia viola e schiacciata e gli occhi di tuo padre sgranati talmente tanto che ci vedevo tutte le foglie che ha lì dentro e che fanno quel verde,le foglie che sono la mia ombra ristoratrice e che poi si agitano forti per il vento e i temporali e allora arrivo io che se li sgrano ci vedi solo un nero senza uscita come un impermeabile di cerata spessa e copro le foglie, tutte, anche quelle che cadono, perché nessuno osi calpestarle. Tu hai gli occhi con una corteccia forte e una chioma verde che quando li sgrani ci vedo lui e quando li serri fino a farli sparire ci vedo un impermeabile, verde, ma di cerata spessa. Mi dispiace. Perché so cosa vuol dire avere quello sguardo lì e poggiarlo addosso agli altri.

Undici anni sono abbastanza per lasciare stare qualche raccomandazione, per decidere se indossare la felpa, se tagliare i capelli o lasciarli crescere ancora. Per avere dei segreti. Per stare nella tua stanza. Non sono troppi per l’altalena, come ieri sera. Per farti sbucciare la frutta dal nonno, io ancora lo faccio fare a lui.

Sono abbastanza per alzare lo sguardo impermeabile di foglie sul mondo e alzarti anche sulle punte dei piedi se non vedi dove vuoi vedere, senza sgomitare ma non sono troppi per farti prendere in braccio, magari da papà, che io non riesco più. A volte anch’io, sai, vado dal mio papà, non per farmi prendere in braccio ma per un abbraccio che mi rimette nel mondo con la giusta sensazione dello spazio che occupo e magari non serve per vedere davanti cosa c’è ma per sentire dietro cosa c’è stato. Lui la tara, io il peso netto.

Undici anni, Cri, undici anni di te e ieri sera ho mandato la tua foto a papà e gli ho scritto che ti abbiamo fatta noi insieme, che a me sembra sempre una cosa incredibile, ti guardo, ti guardavo undici anni fa oggi che era sempre un sabato, e  mi sembra di compiere i miracoli, di averti creata, fatta, fabbricata, costruita, cellula dopo cellula, in settimane passate a letto, ferma immobile che non scivolassi via dalla ferita nella placenta, aperta , e lo spavento, il sangue, le telefonate, le giornate a guardare il soffitto crescendoti con il pensiero che altro non si poteva fare che non fosse sperare e giocarsi il 50% di possibilità che tu, lieve come la nevicata, decidessi in quel mese di dicembre di attaccarti e restare.

E papà mi ha risposto, sai, al messaggio. Mi ha scritto “ è lei che ha fatto noi”. Tu la tara, noi il peso netto. Come sarà, un giorno. Quando la somma di tutti i giorni diventerà una matassa indistinguibile toccherà a te ricordare. Per noi e soprattutto per te. Per sapere di te che arrivi da un amore libero, ma libero davvero, libero di testa e nel corpo, un amore che ha avuto paura e l’ha superata, un amore che si è sollevato sulle punte e ha guardato oltre, ogni giorno, anche quando sembrava seduto a piangere. E arrivi da giorni di attesa e speranze, da un inverno con la neve, e hai visto il mondo un sabato pomeriggio di afa torinese dopo esserti girata a faccia in su rendendo necessario il bisturi e scatenando un temporale negli occhi di papà, che tutte le foglie hanno preso il volo e io ero occupata non potevo coprire e lui si è arrangiato lì fuori, sai, ha pianto e ha lasciato fare al temporale e poi ti ha vista e si è visto, se lo conosco un po’, si è visto intero per la prima volta. Lui la tara, tu il peso netto.

Il medico che ti ha fatta nascere nell’urgenza, sua,  e nella concitazione, mia, quando ti ha  tirata fuori ha detto “allora sei tu, che sorridevi sotto la linea del taglio”

Undici anni sono abbastanza per sapere che sei nata a faccia in su,con gli occhi aperti, affamata, strapazzata e sgualcita, con i pugni chiusi pieni di futuro. Sono abbastanza per sapere che quel futuro è tutto tuo, che vorrei che tu scivolassi e ti rialzassi restando sempre una persona per bene.

Io ti prometto che non interferirò, che non dirò cose tipo “da te questo non me lo sarei mai aspettato” , che aspetterò sempre te, ma non mi aspetterò mai qualcosa da te che non sia la tua libertà e la tua felicità. Ti aspetterò, Cri, ancora e sempre, e quando scenderà la neve spererò sempre che attacchi.

Buona vita, Koala.

Accorgimenti

 

Mi sono accorta che il silenzio è d’oro. Infatti non tutti possono permetterselo, non tutti sanno indossarlo. Li riconosci, sono quelli che parlano. Sempre. Male. Di ciò che non sanno. Sono quelli che non sanno. Niente.

Mi sono accorta che il mare mi fa bruciare tutte le ferite. Soprattutto quelle vecchie. E mi lascia le cicatrici bianche, come nei albini sulla pelle che ci indovini cosa è capitato se hai voglia di guardare. Il mare mi rompe, da qualche parte, e poi mi restituisce un pezzo levigato, con gli angoli arrotondati, un pezzo che non incastro più, un pezzo che sembra smeraldo e magari è solo vetro. Lo fa sempre, succede sempre. Mi rompe, mi smussa, mi cambia, mi costringe a guardare la distesa di acqua e a sentirmi a un volume diverso, più basso, più lento e mi agita in un punto dietro lo sterno.

Soprattutto un mare che non è il mio mare, quello con cui sono cresciuta e che sa come mi deve parlare, sa il pezzo che può prendere e come restituirlo. E allora mi sono accorta che non ci si dovrebbe mai scambiare i luoghi del cuore, dell’adolescenza, del tempo perduto. I luoghi che ci parlano secondo una familiarità e una consuetudine che non si può dire a nessun altro, non si può portare uno nel tuo mare e dirgli guardalo come lo vedo io. Non si può andare nel mare di un altro e cercare di vederlo come lo guarda lui. Questo non si può fare, non si può condividere. Nel tuo mare io vedo alghe e turisti con calzini bianchi nei sandali. Nel mio mare tu vedi silenzio e distanza.

Mi sono accorta che la montagna mi aggiusta. Così pragmatica, forte , raccatta i pezzi e li rimette insieme, sa come fare e non si lascia distrarre dai sentimentalismi del passato, perché io e lei passato non ne abbiamo. Perché io e lei ci siamo appena conosciute e abbiamo un rapporto maturo, di chi si è piaciuto a un’età in cui non devi stare tanto a pensarci e a rimuginarci e ad aspettare per vedere se funziona o come va. Finché  va ce la viviamo, io e la montagna.

Mi sono accora che ci sono persone a cui stanno male certe parole addosso, come abiti sbagliati,  quelli che indossano il colletto della polo alzato per far vedere la marca e che sono tarchiati, con la pancia, con le gambe storte accentuate volutamente per ostentare un passato calcistico senza futuro, senza talenti, nemmeno in quello. O peggio, si, c’è un peggio, quelli che cercano di rivendersi per più di quel che sono, per sembrare quello che non sono. Quelli che lo vedi che portano a spasso parole che non sono loro. E ti dicono “non è una scelta da fare repentinamente “oppure che hanno avuto difficoltà ma “Niente di trascendentale”, che si sente da come gli scivolano in bocca le lettere che non sono parole che sanno usare, che hanno anche guardato su google il significato, che se le sono ripetute tante volte, ma lo vedi che non è roba loro. Mi sono accorta che sono dispettosa e alzo la posta con sesquipedale accanimento.

Mi sono accorta che soffro per la lontananza, di tanto in tanto. Non soffro mai per l’assenza. Io l’assenza non la vivo, non l’avverto, non la sento. L’assenza non è il contrario della presenza ma una sua diversa forma. Sono contorta, lo so: me ne sono accorta da un pezzo. Ma la lontananza io la misuro, la sento, lo so che se io sono qui e tu sei lì allora c’è uno spazio che ci separa. E questo, talvolta, pesa. Affatica. Ma l’assenza non mi crea difficoltà, l’assenza è solo che non ti vedo non che non ci sei. L’assenza non c’entra con lo spazio, magari c’entra con il tempo ma comunque ci sei, anche in un tempo passato, ci sei, ci sono, siamo insieme e io questo lo sento e allora non mi pesa mai, l’assenza.

Mi sono accorta che non mi “sto più accorta”. Non faccio più attenzione. Così mi dicevano, da piccola, in dialetto suona così” statt’accuort”. Non lo faccio, più. Scusate. Soprattutto non mi sto accorta alle emozioni e, grazie Mara per il suggerimento, non mi sento più in colpa per quelle che provo, quando le provo, e no, non sto accorta a non mostrarle, nemmeno quelle più fastidiose. Per gli altri. Mi sono accorta che quello che non mostro poi si mostra, a me,  di notte, nei sogni ed è impossibile ignorarlo. E no, non mi sto accorta, accolgo tutto, respingo, mi incazzo, mi illumino, rido, amo, sogno leggerezza, mi incupisco, piango, sorrido, sbuffo, amo, odio, rido e ricomincio e sogno ancora leggerezza, occhi, incanto e assenze che non sono mai diventate lontananza.

Mi sono accorta della buccia d’arancia. Balorda. Nonostante la palestra. Nonostante i beveroni alla betulla che poi faresti la pipì in ogni angolo come un pincher incazzato. Nonostante la frutta, la verdura, le scale a piedi, le camminate. Maledetta. Me ne sono accorta e mi sono corrucciata. E mi è venuta la faccia da limone. Il culo da arancia e la faccia da limone. Un tantino acida, la situazione. Niente, via la faccia da limone, chè quella è proprio a vista. Per il resto, il frutto è buono, forse più dolce che in passato. E ho cambiato nome alla buccia, tanto è mia, posso farlo e la chiamo scorza. Scorza di arancia. Se la metti nella pastiera viene fuori una meraviglia. Mia nonna lo faceva. Ma statti accorto, che poi gli altri dolci non ti piacciono più.

C’è posta per te

 

Benedetta scrive lettere al suo migliore amico Edo ed Edo scrive lettere alla sua migliore amica Benedetta, Benni, a scuola e per i suoi compagni è Benni. È una novità di questa estate, si sono scambiati gli indirizzi l’ultimo giorno di scuola e hanno deciso di raccontarsi il tempo trascorso lontani in questo modo, che ha un retrogusto bellissimo e poetico, secondo me, di tempo dedicato, di attenzione leggera e delicata, di ricerca e attesa. Benedetta ha imparato a scrivere l’indirizzo sulla busta, ad affrancare (i francobolli sono adesivi, non si leccano più, ho scoperto) a cercare una buca delle lettere e a sperare. Che il postino legga bene l’indirizzo, che non piova proprio sopra la sua lettera e si sbiadiscano le parole, che arrivi sana e salva dal suo amico che sta aspettando.

 

Cristina sta aspettando la lettera da Hogwarts. Fa sorridere, lo so. Ma questa è l’estate dei suoi undici anni (mancano otto giorni) e lei è certa di non essere una Babbana. Lei si aspetta la lettera di ammissione alla prestigiosa scuola di magia frequentata da Harry Potter. Anche se nel frattempo ha preso una cotta per un ragazzino austriaco biondo e con il caschetto, porta il reggiseno, dice che la Baby Dance è da sfigati, dice proprio “ma ti pare che a undici anni vado a fare quelle robe che non le facevo nemmeno a quattrooooo?”, proprio così, è da sfigati. Praticamente vive, viviamo, vivo sulle montagne russe dei suoi ormoni, e passa, passiamo, passo dal giocare con la sabbia al ridacchiare giuliva se il giovane prussiano è nei paraggi, dal mangiare un cono gelato con due gusti seduta su un muretto al guardare il cellulare senza spiccicare parola con nessuno. Speriamo parta per Hogwarts.

 

Io ho mandato una mail, lunedì scorso. Con un allegato. Una mail con un allegato a tutti i miei clienti. Non ho fatto un invio generale, mettendo me come destinataria principale e tutti gli altri in ccn. No. Ho preso ciascun indirizzo di ciascun cliente e ho scritto. Ho allegato il documento. Ho cliccato su invio con un attimo di esitazione, breve, brevissimo, meno di una frazione di secondo e via. Proprio via. Nell’allegato c’è scritto che dal 9 luglio sarò sostituita da un collega, ottimo professionista e bla bla bla. In ciascuna mail inviata a ciascun cliente c’è scritto qualcosa di unico. Un riferimento, un ricordo, un pensiero. Unico. Un ringraziamento. Dopo dodici anni. Di giornate trascorse nelle aziende degli altri a sentire cosa non va, cosa va, cosa servirebbe, cosa proprio no, a sentire che la fattura la pagano subito, che non l’hanno ricevuta, che non la pagheranno prima di non si sa e bla bla bla.

Mi hanno risposto quasi tutti, solo oggi ho trovato il coraggio di guardare le mail. Ho scoperto alcune cose di me che mi hanno fatto piacere. Altre le conoscevo già, ma è stato comunque piacevole leggerle  per mano di altri. Nessuno mi ha chiesto cosa farò adesso eppure tutti si sono detti certi che avrei raggiunto la mia soddisfazione professionale. L’ho trovato strano. Interessante, curioso. Come dire non importa cosa farai, quello che scegli andrà bene. Credo sia l’augurio più bello, in fondo, in fondo importa cosa fai o come lo fai? Importa cosa fai o chi sei mentre fai qualcosa? Io non ero più chi sono in quel lavoro. E molti lo avevano già capito e io, ormai, non facevo niente per nasconderlo e quindi doveva accadere questa lettera, l’esitazione prima dell’invio, il clic, il magone in gola, la notte di lunedì con una dormita di filata come non succedeva da anni e non esagero, doveva accadere adesso o sarei rimasta intrappolata ancora, doveva accadere adesso che ci ho infilato il mare di mezzo per sentirmi lontana e inespugnabile, per sentire che non c’era spazio per cambiare idea e ripensarci ancora una volta ma che lo spazio era solo questo, qui, ora di fronte al mare, io e le ragazze e il cane e nessuno a cui spiegare cosa faccio, chi sono, cosa facevo e perché ho deciso di mandare una lettera e dire basta. Adesso che sono solo una mamma al mare con le sue figlie, una mamma come tante mamme a luglio, la telefonata della sera, ragazze vi passo papà, il gelato, il caffè al bar, dove lo fanno buono e nessuno, nemmeno qui che chiede cosa fai, mica importa, anzi se sei qui è perché sei anche tu di quelle che non lavorano, fortunate, che stanno al mare, fortunate. Adesso che va bene così, nessuno che chiede. Perché così ho il tempo di cercare una risposta. Per quando tornerò e qualcuno vorrà sapere, adesso, cosa faccio.

Che poi, in realtà, un altro lavoro l’ho sempre avuto. Un lavoro di scorta. Dai, su, sono una donna concreta, sono mamma, mica lascio il lavoro così? Ovvio che c’è già dell’altro che diventerà la mia attività principale, adesso. Non proprio adesso. Perché io qualche giorno, qualche settimana così, me la prendo. Qualche settimana che non so. Che non so cosa faccio, che resto sospesa che adesso ci penso, che faccio un anno sabbatico e poi decido, che non so cosa mi piace,che alla vigilia dei quarant’anni sarebbe la prima volta in cui tra me e quello che va fatto ci infilo del tempo come conchiglie dentro il filo per fare una collanina. Solo un po’ di tempo, solo un po’, quel tanto che basta per decidere cosa fare o per decidere cosa rispondere a chi lo chiederà, perché tanto tra poco qualcuno che me lo chiederà lo troverò davanti a me, anche solo così, per buttare lì un argomento, per non chiedere il segno zodiacale che alla mia età fa ridere, per sapere.

Quel po’ di tempo che mi è necessario per guardare il mio interlocutore e dargli la risposta giusta. Per lui, per rassicurarlo che il mondo va come pensa lui e non accade che uno poi non ce la fa più a fare quello che fa e smette. Perché negli altri  cerchiamo solo noi stessi e le conferme di cosa siamo, che siamo giusti, che andiamo bene. Negli altri, nelle risposte che ci danno non cerchiamo una soluzione ma un’assoluzione a noi stessi. Vogliamo essere bravi. Ecco perché devo avere il tempo di trovare le risposte adatte, perché, di mio, di istinto, di pancia, io do sempre e solo le risposte scomode. Quelle che nessuno vuole sentire. Non so dare l’assoluzione, mai.  Per esempio, se mi dovesse porre la fatidica domanda una mamma, una di quelle brave, di quelle che sanno il numero di compagni di classe e quale posto sul registro occupa il proprio pargolo, una di quelle che sanno sempre come i propri figli si comporterebbero in qualunque circostanza e giurerebbero che mai, mai, mai, i propri eredi possano essere capaci di usare il turpiloquio, ecco a quelle mamme brave, capaci, attente, sicure,io direi che faccio la mamma. Che le mie figlie sono le ultime del registro, mangiano le verdure, hanno buoni voti e praticano sport. Facile. Tutti contenti. Nessuno con dei dubbi, nessuno che pensa che fare la mamma sia qualcosa che si può, anche, a volte, certi giorni, avere voglia di smettere e mandare una lettera per dire che si verrà sostituiti da un ottimo professionista e bla bla bla ringraziando per il tempo trascorso insieme. Eppure, eppure certi momenti così ci sono.

Può capitare che la domanda me la faccia una di quelle che lasciano la scia di profumo in ascensore. Una di quelle con la valigetta di pelle un po’ vissuta, sformata di fascicoli inseriti da riguardare a casa, dopo il sushi in centro, una di quelle con  il braccialetto tintinnante di  Tiffany, regalo di tanti anni fa, una di quelle che indossano la giacca del tailleur con il jeans e i hanno capelli con lo shatush uguale a un’ altra con la giacca del tailleur con il jeans e con lo shatush che ha una valigetta di pelle sformata e siede accanto a lei e ordina lo stesso mix royal di sashimi e pensa che l’uniforme è quella del cameriere che gli serve il Bellini nell’attesa perché non si è guardata, non si è guardata intorno, così uguale a chiunque altro compri quel profumo e lasci la scia . A lei direi con aria professionale, un po’ annoiata e un po’ da secchiona, da una che ha studiato e quindi ti dai una regolata, l’aria di una che dopo la laurea ha fatto anche due figli tornando a lavorare dopo venti giorni e a fatturare dalla sala parto, quindi dai su cosa mi vuoi raccontare, gioia mia ,che mi sorprenda, ecco a lei direi che mi occupo di amministrazione, finanza e controllo di due aziende. Ti basta?! Gestisco soldi, l’argomento che piace a tutti, tutti quelli con una valigetta sformata. Un lavoro di altissima responsabilità e pieno di gratificazioni. E che si può conciliare benissimo la professione e la maternità, esperienze vitali, entrambe per una donna. Per me una tartare di tonno, grazie. Facile, tutti contenti. Sia mai di dire che la conciliazione è una pratica utopica, tanto in sede giudiziale quanto in sede stragiudiziale. Soprattutto in sede familiare. Concilia tu la febbre con broncospasmo della domenica notte con l’appuntamento del lunedì mattino presso l’azienda cliente.

Vorrei, però, che la domanda me la facesse  qualcuno che ha l’aria stanca e voglia di sedersi un momento. Una donna come tante, una che non sembra. Non sembra che sia niente di che, non sembra che abbia pensieri, non sembra abbia anche lei i suoi temporali e le sue schiarite, i suoi drammi e le sue pretese. Una che non lascia la scia. Una che non segue la scia. Le direi che sono un’operatrice shiatsu, che studio medicina cinese, che amo osservare le persone. Amo guardare come si muovono nello spazio che occupano, da che parte piegano la testa mentre parlano, con quale mano portano il cane al guinzaglio, il tono di voce che hanno se sembra una lama, come quella di un coltello o se sembra un ramo quando si spezza. Se si arrabbiano o se sono più inclini alla tristezza. Se preferiscono un gusto dolce o un gusto aspro, magari amaro. Qual è la stagione preferita e se hanno male, perché tanto tutti abbiamo male. Io amo l’autunno. E amo le voci che sembra di infilarti un guanto morbido. E i cibi salati. Che hanno a che fare con l’acqua e con la paura, in medicina cinese. E si, ho male. Sempre piano, sempre di sottofondo.

Però. se questa domanda dovesse farmela una di quelle classiche vecchie rompipalle (non sono politicamente corretta, le anziane le chiamo vecchie, ripeto non sono politicamente corretta ma soprattutto le vecchie rompipalle sono una categoria che, tendenzialmente, detesto) e con questo intendo il seguente fenotipo: dato che sono anziana so tutto, tu non sai niente e se dici il contrario non hai rispetto, fine della descrizione, ecco, io a una così direi che faccio quella che prende tutte le certezze delle vecchie rompipalle e le trasforma in compost. Io a una così non la do la soddisfazione di sentirsi dire quello che vorrebbe. Io a quelle così parlo di pancia. E con il pugno alzato.

Se potessi scegliere vorrei che questa domanda me la facesse una bambina. E vorrei che mi chiedesse cosa voglio fare da grande, che secondo me è una domanda molto più interessante e allora,ecco, non dovrei nemmeno pensarci.

Farò il patologo legale, come Quincy. Ah, già, cara bambina che ignori gli anni ottanta e il fatto che ci lasciassero guardare telefilm americani dove si usavano parole come “negro”, tu non sai che Quincy era un  anatomopatologo fenomenale che risolveva dei casi di omicidio difficilissimi e io lo adoravo. E volevo risolvere qualcosa anch’io.

Farò la giornalista, non di quelle della televisione, no, la giornalista con la macchina da scrivere, ah, già cara bambina che ignori gli anni ottanta, tu non sai che cosa sono le macchine da scrivere e il rumore dei tasti che sembrano tanti piccoli petardi che esplodono uno dopo l’altro, ma io scriverò di cronaca per un grande quotidiano e vedrai, risolverò qualcosa, qualche mistero, qualche caso senza spiegazione.

Farò la scrittrice, scriverò il romanzo più bello che si sia mai letto, ma non di quelli che vincono i premi più di quelli che tutti lo leggono e lo capiscono e la gente mi dirà che il mio libro li ha aiutati a capire, a vedere, a risolvere qualcosa.

Farò la libraia, in un negozio tutto mio, con la boiserie in legno che scricchiola quando prendi un volume e ci sarà un angolo dedicato ai bambini, con laboratori di lettura e scrittura, e una sezione dedicata ai gialli, ah, già bambina che ignori gli anni ottanta, non sai che i thriller si chiamavano gialli. In italiano. Gialli. E avevano anche la copertina gialla. Adoravo i gialli, perché riuscivo sempre a risolvere qualcosa, capivo sempre chi era stato, perché ho questa abilità di mettermi sempre dalla parte del torto, perché chi abita la ragione è sempre così sicuro di sé che mi mette a disagio, perché chi abita la ragione occupa tutto lo spazio, perché il torto non è mai facile e a me piace così.

E invece chissà da chi arriverà la domanda, chissà se sarò pronta a rispondere nel modo adeguato.

Non penso perché io ho già parlato con ognuna di quelle donne più volte, senza muovermi, da ferma, davanti allo specchio. Ho parlato con la mamma devota, con la stronza professionista angosciata dal fatturato, con la donna sfinita che non lascia traccia di sè, con la bambina che, si, li ha abitati gli anni ottanta, e a volte, persino con la vecchia rompipalle in un gioco di specchi deformanti che accelerano il tempo e proiettano quello che non vuoi vedere. Di te. Perché vedere è sempre vedere di se stessi. Anche quando guardi gli altri, vedi te stesso.

E non ho mai detto loro niente di adeguato,niente di consolatorio, niente che volessero sentirsi dire. Dovrei cominciare a farlo, a prenderne una per una e a dedicare a ciascuna di loro un pensiero, un immagine, un ricordo. Tranne che con la vecchia, però.

Adesso gli scrivo. Magari risolvo qualcosa.

Tranne che alla vecchia, però.