Qui ed ora

 

C’è un verbo, in dialetto, appartiene alla mia infanzia, i miei nonni, mia madre lo usavano per dire quando erano lì che perdevano tempo, che giravano per casa improduttivi. Tampasiare. Il senso è più o meno questo, difficile renderlo in italiano, l’italiano va bene per esprimere i concetti, con il dialetto si raccontano i sentimenti.
Qui è dove io tampasìo.
Ora, sto tampasiando.

Qui è dove ricordo. La professoressa di Lettere delle medie che amava la mia scrittura e quella della quinta ginnasio che la detestava. È stata la sola in tanti anni di scuola. Mi dava sei perché non c’erano errori ortografici ma proprio non le piaceva : “queste libertà te le prenderai quando sarai la Ginzburg”, diceva. Basta molto, molto meno, cara Prof., basta venire qui, senza scomodare la Ginzburg, e guarda? Mi sono presa tutte le libertà stilistiche, sintattiche, grammaticali che volevo. E adesso il tuo sei lo rovescio ed ecco che diventa un nove e me lo firmo pure da sola.
Qui è dove penso che non scriverò più, dopo questa volta, ogni volta. Basta. Ho paura di chi legge, dei commenti, dei messaggi che arrivano.
Qui è dove ho paura di leggere cosa mi scrivono quelli che leggono.
Che poi alla peggio non leggono più. Mica possono darmi sei.
Ora, sto scrivendo.

Qui è dove scrivo me, non di me. Scrivo proprio me, quasi su di me, nel senso più vivo del termine, cedendo alle parole dove prima cedevo al silenzio. Nonostante questo qualcuno si lamenta. Proprio per questo, penso, qualcuno si lamenta. Sono dispettosa. Arrivo sempre al limite del passo falso, uso ogni riferimento, voluto, possibile e poi scivolo di lato. Ti do il buffetto sulla nuca e quando ti giri ti guardo stupita. Io so chi fa finta di non venire qui a leggere e invece viene per vedere se trova l’appiglio e trova me, solo me, in fondo. Del loro giudizio non mi importa, so che non lo esprimeranno mai apertamente.
Ora, magari stanno leggendo.

Qui è dove confesso. Alla mia età non ho più nessuno a cui disobbedire se non me stessa. Mi detto le regole, le infrango, mi rimprovero, mi dispiaccio, mi chiedo scusa ma quasi mai mi perdono. Ogni tanto mi sottopongo a un interrogatorio, mi minaccio di punizioni lunghissime, raramente cerco alibi o complici. A volte faccio finta di niente, di non aver visto, mi lascio perdere, per questa volta, solo per questa volta. Capita, sempre più spesso, di testimoniare semplicemente come persona informata dei fatti.
Ora, “mi impegno a dire tutta la verità e non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza”.

Qui è dove lascio detto alle mie figlie. Come la vedo io, niente di che. Come sono io, come mi sento in quegli spazi dove loro non ci sono o non ci sono state, come è andata prima di loro. Io non so molto di mia madre senza di me, alcuni pezzetti mancano. So che mi sembrava irraggiungibile quando ero una ragazzina, come se lei avesse sempre saputo cosa fare perché anche quei nei che raccontava non erano errori, mi sembrava che non avesse sbagliato mai, fino a me. Ora so che non è vero, ma lo so in italiano, non lo saprei dire in dialetto. Ci guardiamo e ci diamo sei.
Qui è dove dico apertamente alle mie ragazze che ho sbagliato, sbaglio e sbaglierò. E spero di aver rimediato dove è stato possibile, di aver chiesto scusa dove non lo è stato, di saper comprendere i miei errori futuri. Ma loro, loro, sono state tante volte il rimedio e mai, mai la causa.
Qui è dove mostro, soprattutto a loro, i colpi e le botte prese, i lividi e le ferite. È li sopra che si poggia la felicità. È quello il terreno in cui affonda le radici.
Ora, sono felice.

C’è un verbo, un altro, sempre in dialetto e anche questo, ovviamente, appartiene alla mia infanzia. Abbanniare. Si usa per dire di quando si urla arrabbiati ma è qualcosa di diverso, di più grezzo e sottile allo stesso tempo. È quando alzi la voce in una discussione perché proprio quell’argomento ti fa saltare i nervi, ti smuove della rabbia nei visceri.
Qui è dove abbannìo.
Ma non ora.

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C’era una volta

 

Io non le so raccontare le storie, non le so inventare partendo da niente e lavorando di sola fantasia, ho bisogno di iniziare, sempre, da qualcosa di vero, di già accaduto e poi da lì magari tiro fuori un racconto, un finale, sporco, un particolare, dolce.
Non ce l’ho una storia. Una volta ne ho avuta una, la storia del cucciolo Audrey . Il cucciolo Audrey esisteva veramente. Era un buffo bellissimo sgraziato cucciolo di dalmata . Cristina aveva due anni, Pepe era nel mio pancione che aspettava di nascere di lì a poche settimane. Le serate erano calde, al mare, io e Cri trascorrevamo tutto il giorno insieme, accarezzando la pancia, nell’attesa che tutto cambiasse senza sapere come, lei aveva gli occhi e la bocca che, ancora, facevano la stessa cosa. Se piangeva anche la bocca diventava triste, seria, un tratto di penna sbavato verso il basso. Se rideva gli occhi diventavano fessure strette da dove passava tutta la sua luce, da dentro a fuori verso di me, ancora, non come avviene di solito con le fessure che fanno entrare la luce, con lei la luce usciva. Ho capito che stava crescendo quando gli occhi e la bocca hanno iniziato a fare cose diverse.
Il cucciolo Audrey era di una mia amica, anzi di sua figlia “la Carlotta”. La storia cominciava con la Carlotta che piangeva, piangeva, piangeva disperata. Si alzava il mattino e piangeva. Andava a scuola e piangeva. Tornava a casa e piangeva. Cenava e piangeva. Non voleva più giocare, andare al mare, guardare i cartoni. Piangeva disperata.
Perché era sola. Non c’erano bambini con cui giocare, non aveva fratelli o sorelle, non aveva amici. Allora piangeva. E la sua mamma che l’amava più di tutto, più del sole che scalda e della pioggia che lava via tutte le cose brutte, più del silenzio che culla la notte, più del mare che bagna i piedi anche se scappi, allora la sua mamma che l’amava più di tutto e non sopportava più di vederla piangere un giorno tornò a casa con una sorpresa.
Quale sorpresa?
“Guarda, guarda fuori in giardino” disse la mamma alla Carlotta. La bambina scese di corsa le scale, si precipitò fuori e trovò un cagnolino piccolo piccolo tutto bianco con tante macchie nere, il naso rosa e la coda dritta come un’antenna. La Carlotta iniziò a ridere e a urlare di gioia, a saltare e fare capovolte, “davvero?davvero?davvero?” riusciva solo a dire, incredula e felice. Abbracciò il cucciolo, scoprì che si trattava di una femmina e decise di chiamarla Audrey. La Carlotta e Audrey stavano sempre insieme, anche di notte. La cucciola però combinava anche tanti disastri, faceva pipì e cacca sui tappeti del salotto, rosicchiava i mobili e i cuscini, scavava le buche in giardino e mangiava le ciabatte del papà. La mamma della Carlotta si arrabbiava moltissimo.
Un giorno, brutto, non potendone più, la mamma decise di affidare Audrey a un’altra famiglia.
La Carlotta ne soffrì moltissimo. Non pianse, non pianse più. Ma da quel giorno, brutto, la sua faccia non sorrise più. Magari la bocca andava in su, verso le orecchie, che sembrava un sorriso ma non era un sorriso era solo una bocca che sale.
Quell’estate, dieci anni fa, ho raccontato questa storia a Cristina tutte le sere. La voleva così, non doveva cambiare mai, mai una parola diversa, mai un’intonazione della voce diversa, quando la Carlotta diceva “davvero?davvero?davvero?” la mia voce doveva risuonare in un dato modo e solo in quello, quando dicevo che la mamma amava la sua bimba più del sole le mie mani dovevano allargarsi e formare un cerchio in aria, sempre uguale sempre così. Anche il finale non poteva essere diverso. Audrey veniva data via ogni sera, ogni volta.
La storia del cucciolo Audrey ci ha accompagnate fino all’autunno inoltrato, quando ormai Pepe era nata e l’estate era sbiadita, non più vicina e ancora lontana. E della vera Audrey non sapevamo più niente, del suo autunno dopo la sua estate, ogni tanto dicevamo “il prossimo anno vedremo quanto è cresciuta”.
L’anno dopo, arrivati al mare, la mia amica mi raccontò che Audrey l’avevano dovuta dare via, a un’altra famiglia. Era ingestibile, loro stavano troppo tempo fuori casa, la Carlotta portava ancora i segni di quel dispiacere.
La storia di Audrey era finita così come l’avevo immaginata, era finita per il solo fatto di averla immaginata. Cristina aveva ascoltato la mia amica e sapeva già, l’intonazione era diversa dalla mia, ma la storia era quella, proprio quella.

Non ce l’ho una storia nuova, originale. Una volta ne ho avuta una. Era la storia di un ragazzone grande e grosso con tanti capelli, un principe senza calzamaglia e senza principessa ma innamorato di una fanciulla dalla pelle bianca come la neve e i capelli neri come l’ebano che, però, no, non era Biancaneve. Il principe lavorava Lontano, ogni mattina prendeva la macchina, non aveva il cavallo, e partiva per andare a lavoro. Ogni sera tornava a casa dalla fanciulla che aveva scelto. Tutti i giorni. Alcuni giorni, brutti, si fermava a dormire a Lontano. Il principe e la fanciulla vivevano in un villaggio dove abitava anche una strega con sottili capelli biondi e occhi neri come il carbone, una strega che non sapeva più niente. Non era una strega cattiva, non con tutti, non sempre. Era una strega che non faceva magie, incantesimi o fatture. Era una strega perché diceva le cose che dicono le streghe, ineluttabili. Era una strega che raccontava ai bambini storie che non finivano bene ma che erano vere perché, pensava, è inutile proteggersi dalla verità.
Un giorno, brutto, la strega puntò lo sguardo annerito sul principe e gli disse “sei tornato? La tua fidanzata di Lontano ti ha lasciato tornare?” Tutti risero nel villaggio, era una battuta divertente, perché tutti sapevano che il principe grande e grosso amava solo la fanciulla con la pelle bianca come la neve. Ed ogni volta quella frase, ripetuta dalla strega, cadeva tra gli abitanti del villaggio e si perdeva così, nella distrazione. Fino a quando non tornò più, restò a Lontano, con la sua nuova fidanzata. La strega non gli parlò più, nemmeno per svelargli il finale, scritto, di questo amore appena iniziato. Solo gli augurò di essere felice non perché davvero volesse la sua felicità ma perché , pensava, le persone infelici rompono i coglioni.

Non ce l’ho una storia, una storia con riferimenti a fatti e persone puramente casuale. Ce l’ho con riferimenti puramente causali. Ve bene lo stesso?
È la storia di una ragazza che indossa i braccialetti della fortuna, quelli che regalano gli ambulanti in spiaggia o sotto i portici in centro. Esprime i tre desideri ogni volta, anzi esprime lo stesso desiderio per tre volte, una per ogni nodo. Sono spesso desideri d’amore. La ragazza è sensibile all’argomento amore. Molte volte si tratta di desideri universitari. Passare Diritto Privato al primo tentativo, per esempio. È una ragazza molto carina, bella. Bionda, ha gli occhi scuri, occhi malinconici mentre la bocca ride anche un po’ sguaiata, ride che ti giri a guardare da dove arriva quella risata. Ha un ex fidanzato, ha sempre un ex, ma questo ex è un peso, un macigno, una specie di fardello, un uomo infelice. Forse lo ha tradito. Lei che sa sempre tutto questa cosa non la sa. Erano in pausa, pausa di riflessione diceva lui, figurati se rifletti rispondeva lei. Lei odia il tradimento. E non sa se ha tradito. Sa che è seduta sul pavimento di una casa milanese, ha indosso una camicia con un profumo da uomo sul colletto, una camicia bianca con le maniche arrotolate. C’è un uomo che entra nella stanza, ha una Marlboro light in bocca, non ha la camicia ma la sua pelle ha lo stesso profumo di quella che indossa lei. Le porge il cellulare che suona. Il nome sul display è quello dell’ex. Stiamo riflettendo. Da mesi. Da maggio, adesso è settembre, tra dieci giorni compirà gli anni, ventidue. Stiamo riflettendo, dice lei, ma non lo dice per davvero. Si guarda riflessa nel vetro, con quella camicia e basta indosso, con quel profumo che le è salito ormai fino al cervello. Si guarda nello sguardo dell’uomo con la Marlboro light in bocca e pensa a dove erano appoggiate le loro bocche qualche minuto prima. Si guardano, mezzi nudi, lontani da ogni cosa definibile e allora lei che sa sempre tutto ora non sa. Lui le dà il telefono ed esce dalla stanza. Lei risponde. Non è un tradimento. È la vita che accade, è il riflesso delle scelte che facciamo. Ogni scelta è una decisione alla quale rinunciamo, ogni scelta è una strada che tentiamo. I braccialetti sono tutti al polso, non se n’è rotto nemmeno uno. Non è lui, lei lo sa, questo lo sa. Non è l’uomo con la Marlboro light in bocca ma va bene che non sia lui, è bello essere su quel pavimento sapendo che non è lui. Il braccialetto si romperà. Capiterà.
Un giorno, bello, la ragazza apre la porta dell’ufficio dove lavora, la porta di ingresso. La ragazza studia, si, ma intanto lavora, ha iniziato alla fine del primo anno di Università, non frequenta più le lezioni, studia il sabato e la domenica e di sera e va solo a sostenere gli esami. Le piace così, ha uno stipendio e si compra le scarpe, un paio a settimana, ha l’automobile, le sue amiche non ce l’hanno ancora, devono chiederla in prestito alle madri, lei no, lei ha una Panda rossa di seconda mano con l’autoradio sempre accesa.
Sulla porta vede due uomini. Uno dietro l’altro, sembrava uno di quei balletti delle prime serate di rai uno quando era piccola, con i ballerini che alzano braccia e gambe uno dopo l’altro a fare la coreografia. L’uomo davanti non lo conosce ma lui sorride e gli occhi gli si fanno a fessura. Quello dietro lo conosce, è Luca, un fornitore. Li accompagna nella stanza del titolare, hanno un appuntamento. Lei torna nel suo ufficio ma è irrequieta, deve uscire a prendere aria, si sente soffocare. È settembre, la settimana precedente ha compiuto ventidue anni, li ha festeggiati con l’uomo di Milano, sotto la Mole, lui ha smesso di fumare, ci sta provando, non aveva più la Marlboro light in bocca. Dal corridoio si affaccia sulla soglia dell’ufficio accanto, Luca è in piedi, l’uomo che non conosce invece è seduto, anche il titolare. La ragazza dice solo “esco un attimo per due commissioni veloci”. L’uomo che non conosce alza lo sguardo e sorride con gli occhi a fessura e lei ci vede una luce che esce e pensa che in genere la luce entra, annota il pensiero tra le cose da capire e va.
Non ha commissioni veloci, non deve nemmeno prendere il caffè. Fa il giro dell’isolato, lentamente, respira, passa davanti a una panetteria. Entra. Compra della focaccia. La parte con anche la crosta. Morbida ma anche dura. Di lei dicono che è solo dura, la raccontano così. Dura, stronza, antipatica, una che racconta storie che finiscono male solo perché sono vere. Quelli che hanno un racconto la raccontano così. Strega, le dicono. Senza pensare che ciascuno di noi è qualcosa di più del racconto che se ne fa. Mangia la sua focaccia e forse è la prima volta nella vita. Sicuramente è la prima volta che entra in una panetteria e si compra della focaccia e la mangia mentre cammina per tornare in ufficio pensando che qualcuno, un ex, sempre un ex, la racconta così, dura, come la crosta. Che quanto è buona poi questa crosta dura? È la parte vicina al bordo, quella più esterna, per forza deve essere dura, se fosse morbida si romperebbe subito . La ragazza si sente come la focaccia.
Rientra in ufficio, i due uomini se ne vanno. L’uomo che sorride è il nuovo fornitore, prende il posto di Luca che chiude e cede i clienti, si rivedranno nei prossimi mesi, lui e la ragazza. Si rivedranno anche fuori da quell’ufficio, sul marciapiede subito fuori dopo aver preso un caffè, in aprile quando tutto è possibile, la sessione estiva degli esami è prossima, il sole e la pioggia sono uguali, contano allo stesso modo e a nessuno verrebbe in mente di non aspettarseli. L’uomo di Milano un po’ distante, sullo sfondo di alcuni periodi.
Lui è in piedi davanti a lei e sta per chiederle di uscire una sera della settimana successiva. Lei lo sa da come lui si rigira le chiavi della macchina tra le mani, da come la guarda, come se lei fosse buona, lui ancora no, non sa cosa sta per fare ma lo fa. Chiede, lei risponde. Si, con la bocca e gli occhi che dicono la stessa cosa dopo tanto tempo o forse per la prima volta. Si.
Quanto tempo ci vuole perché ti piaccia qualcuno? Qual è il lasso di tempo minimo che deve passare perché ti possa piacere qualcuno? Poco, pochissimo, tipo che adesso non vorrei indossare la tua camicia e annusare il tuo profumo, tipo che adesso vorrei essere la tua camicia. A questo pensa mentre lo ascolta parlare. L’uomo che sorride parla ma non si racconta. Ha ordinato della focaccia, lui adora la focaccia, le dice
Quanto tempo ci vuole perché non ti piaccia più qualcuno? Non lo so. A questo pensa la ragazza con i braccialetti mentre si racconta, lei si, si racconta. Spiattella tutto lì, sul tavolo del locale dove l’ha portata e mentre racconta lei che sa sempre tutto si accorge che non sa più niente e che il braccialetto, quello, si è rotto. Sa solo che il tempo non basterà ecco perché sono ancora lì. Non hanno finito di parlare, di raccontare. Lei ha scritto il finale di questa storia, lui non vuole leggerlo perché, sa, poi diventa vero e a questo non sono ancora pronti. Non lo saranno mai. Capiterà un giorno, brutto.

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(Non) Ci troverete (mai)

In via dei Cormorani, la casa bianca, la penultima prima della spiaggia, più giù non si può andare, finisce la via. Finisce la terra inizia il mare. Trovate la nostra auto parcheggiata fuori, è sporca di sabbia, dentro e anche fuori, qui piove sabbia. Se passate stasera trovate anche il bidone dell’indifferenziato, fuori, perché vengono domani mattina all’alba a svuotarlo. Stamattina trovate il bidone, vuoto, dell’organico. La raccolta differenziata la facciamo bene, seriamente, noi. Il tappo di plastica nella plastica, il cartoccio del succo prima leggiamo dove va e poi nella carta, gli scarti dell’anguria nell’organico, gli assorbenti nell’indifferenziata. Ci stiamo organizzando anche per alcune emozioni e diversi ricordi. Il rancore nel vetro ma non basta il bidone, non è sufficiente, me lo porto dietro in spiaggia, è già successo che le onde lo levigassero ecco perché mi siedo a riva, la storia che così faccio un idromassaggio naturale l’ho inventata per economia di spiegazioni.
La tristezza nella carta, qui da noi è sempre sottile, ogni tanto la usiamo per vedere se le penne funzionano ancora, ci facciamo uno scarabocchio sopra poi ce ne dimentichiamo e scriviamo. Un tempo per me era molto più spessa, la usavo per non far traballare il tavolo sul quale scrivevo.
Alcuni nomi, alcune facce, alcune parole- “niente di personale”-“affidate a te diventeranno schifose come te”– nell’organico e va bene, io le butterei nel wc direttamente, ma loro, le ragazze, loro non vogliono, dicono che si intaserebbe e ci ridono su-“va bene così mamma, ormai”- e via come le bucce di banana.
Non troverete la casa pulita alla perfezione. Siamo in vacanza. Passiamo la scopa il mattino e dopo ogni pasto, i sanitari vengono lavati una volta al giorno, la doccia sciacquata dall’ultimo che la fa e lo stesso vale per il pavimento del bagno.
Io sono l’ultima, sempre.
Ma questo pavimento è una pena, è di materiale tanto poroso, basta una goccia d’acqua a fare una macchia, anche a ripassarlo più volte al giorno non sembra mai pulito, i primi giorni insistevo poi ho lasciato perdere. Non sembrerà pulito ma lo è. Anche se non alla perfezione.
La voglia di perfezione l’abbiamo messa nel bidone della plastica.

Se non siamo qui, ci trovate in libreria, verso le 21,30. Quella sul lungomare, con la porta sempre aperta verso l’interno per significare “entra”e non verso l’esterno per indicare “esci”. Alla fine di questa vacanza saremo socie di capitale della libraia.
Subito dopo ci trovate alle bancarelle, nella via centrale, a cercare il braccialetto per gli amici e per noi. Perché l’estate senza braccialetti è impensabile. Come la vita senza amici. Poi prendiamo una granita o un gelato o niente dipende dalle serate.
Durante il giorno, invece, ci trovate in spiaggia, al fondo della via, dove finisce la via e finisce la terra e inizia il mare. Quando le ragazze erano piccole avevamo inventato la formula dell’amore:

– “quanto bene mi vuoi mamma?”
-“ come il mondo”
-“ma il mondo finisce!”
-“e cos’è che non finisce?”
-“il cielo e il mare, mamma”
-“allora come il cielo e come il mare”
-“che non finisce mai?”
-“che non finisce mai”

Non stiamo molto in spiaggia. Non ci troverete in uno stabilimento, non abbiamo ombrellone, lettino, sdraio. Non abbiamo, più, secchielli palette rastrelli salvagenti braccioli piscinette pale retini biglie materassini costumi di ricambio. Abbiamo una stuoia sfilacciata e due asciugamani. Un pallone. Della frutta e dell’acqua. Due creme solari, quella da 30 e quella da 50. A volte ci dimentichiamo di metterla. C’è stato il tempo in cui la crema veniva spalmata già a casa perché nel tragitto fino alla spiaggia potevano bruciarsi. E poi di nuovo in spiaggia una volta arrivati all’ombrellone nello stabilimento mettendole sui lettini per evitare che si riempissero di sabbia subito, appena unte.
Non è più quel tempo. A volte ci dimentichiamo.
Stiamo così, in acqua oppure a riva, finché ci va, ci trovate sedute tutte e tre una accanto all’altra, oppure solo loro due e io appena un passo dietro a guardarle. Mi trovate così, che guardo le mie due figlie, una che mi somiglia l’altra per niente. E questa considerazione vale per ciascuna delle due. Non troverete mai chi è chi, quella che si, quella che no. Mi riconoscete non per l’altezza, Cri è più alta. Mi riconoscete perchè sono quella delle tre che apre l’asciugamano alle altre due, allarga le braccia e le richiude strette.
Non abbiamo orari. Se abbiamo fame mangiamo, se abbiamo sete beviamo, se abbiamo sonno dormiamo. Stiamo.
Non troverete, più, le macchie di mastocitosi sulla schiena di Pepe. Sull’ addome una, una sola. Si chiama Segno di Darier. Quando gliel’hanno diagnosticata aveva 20 mesi e avevo pensato che solo lei poteva avere una malattia che risuonava così bene, una malattia con nomi così musicali.
Una malattia dermatologica ad eziologia sconosciuta paucilesionale espressa al tronco per la quale non c’è alcuna cura ma la regressione spontanea in un arco temporale di almeno dieci anni. Queste le parole della sua dermatologa. La prossima settimana Pepe compie dieci anni. E abbiamo solo un piccolo bastardo poetico segno di Darier vicino all’ombelico. E finalmente potremo buttare la mastocitosi nei rifiuti speciali.

In alcuni giorni della settimana, però, non ci trovate se venite di mattina. Siamo in un’altra spiaggia, prendiamo la macchina e andiamo a qualche chilometro, subito oltre il capo. Ci sentite arrivare, siamo quelle che ascoltano a volume alto “faccio gli occhi a mandorla e m’accatto pure a te”
-“si chiama milionario mamma”
-“si, quella”

Oppure siamo anche quelle che cantano “sei un pezzo di me, un pezzo di me” e cambiano le parole. Ultimamente andiamo forte con “ seduti verso il nulla con la croce tra le mani siamo dei cannibali travestiti da vegani, la vita è un uragano che ci strappa le vele…”
Ci trovate alla scuola di windsurf, Cri ha lezione dalle 11.30 alle 13. Io e Pepe stiamo insieme, camminiamo a riva, parliamo. Lei parla moltissimo, io ascolto. Facciamo foto. Diciamo no grazie buona giornata a chi cerca di venderci una Vuitton, un Rolex, un pallone, un anello in argento, delle perle vere, una pashmina di puro cachemire, un cappello di paglia, un bongo africano, del cocco, un massaggio, delle treccine. Un caffè a due euro.
Cri ha imparato a orzare, alla grande. Pepe ha imparato a fare la verticale e la capovolta in acqua. Io a stare.
L’ansia di fare l’abbiamo infilata nel bidone dell’indifferenziato. E comunque non so cosa significa orzare. Ma annuisco orgogliosa.

Lui, lui non lo trovate fino a mercoledì sera. Andremo a prendercelo, perché noi non andiamo mai a prenderlo e basta noi andiamo a prendercelo, con la macchina sporca di sabbia e le canzoni ad alto volume. Ma non vi accorgete mica che non c’è. Non lo trovate fino a mercoledì, ma c’è. C’è come qualcuno che adesso arriva, aspettate. Come qualcuno che ha lasciato lì le ciabatte, nell’angolo tra il letto e il comodino. Nella quarta forchetta e nel quarto bicchiere
“Cri, papà non c’è stasera, hai preso le posate anche per lui”
“ah, già è vero che non c’è”
A volte non ci dimentichiamo.

In via dei Cormorani, la penultima casa. Ci trovate in terrazzo a pranzo e a cena. Cucino io, verdure, pasta, riso, la carne per loro ogni tanto, le uova, piatti unici soprattutto, pochi “piani B” ma sempre del prosciutto in frigo. Ci penso che potrei comprare qualcosa di pronto ma poi non lo faccio, non mi va. I piatti e i bicchieri sono di ceramica, niente robe di plastica. Ci penso che potrei evitare di lavare i piatti ma poi non lo faccio, farei molta più spazzatura. Pepe ha letto il libro di Greta, la ragazzina svedese, è preoccupata che ci restino pochi anni per salvare il pianeta. Ieri ha rimproverato la sorella perché
“metti gli stessi calzini per due giorni di seguito? Che schifo”
“guarda scema che li metto un’ora al giorno, la sera quando usciamo, cosa faccio li metto a lavare dopo un’ora? Sai quanto inquina il detersivo? Chiedilo a Greta, scema.”
“mamma, Cri mi dice scema – smettila cretina di dirmi scema che gliel’ho detto a mamma adesso vedi”
Non ci troverete in silenzio. Né a pranzo né a cena. Nemmeno particolarmente composte, ma è una concessione estiva. Comunque vestite. Mai a tavola in costume.
Parliamo, parliamo, parliamo. Io racconto, vogliono sapere dei miei nonni, di quando ero piccola, di cosa facevo con mio fratello, di quanta famiglia c’era nella mia famiglia, se io ero già io- no, non lo ero, c’era tanta, troppa famiglia nella mia famiglia, così tanta famiglia da non volerne più nemmeno un pezzo, nemmeno uno zio, un cugino, grazie, basta, fino a voi, solo voi, solo noi finalmente– tutti quegli aneddoti che sono la storia di ciascuno di noi. Mettono insieme i pezzi di una storia lontana che però è anche la loro e allora si passa dalla fuitina dei miei nonni e il loro matrimonio celebrato all’alba di un giorno di dicembre e loro che non sapevano che oltre al prete servissero i testimoni e non li avevano e hanno chiesto al sagrestano ed è andata bene lo stesso per sessant’anni fino ad arrivare al loro papà che quella volta che avevamo litigato, era il 2003 figuratevi ragazze, io ero a casa che studiavo per la sessione estiva, Diritto del Lavoro e subito dopo Diritto della Previdenza Sociale,  e lui si era appostato fuori dal cancello e dal muro di cinta e mi mandava i messaggi e io non rispondevo e allora lui ha scavalcato come un ladro – “come ha scavalcato??”- si, si, ha proprio scavalcato e mi ha detto tu non apri, non rispondi e io devo parlarti o almeno vederti -“come ha scavalcato, cioè ha proprio scavalcato???”- si, si ha proprio scavalcato. “ma perché?”.
Perché chi vi vuole parlare un modo lo trova. Perché chi vi vuole, vi trova. Il resto sono scuse, non c’è posto per le scuse , non sono biodegradabili. Chiedete anche a Greta.

Ci troverete nel mezzo di una discussione che però dura poco, nel mezzo di un libro che finiremo presto, nel mezzo del lettone a fare imitazioni e versacci. Ci troverete sul retro che stendiamo i costumi, sedute per terra che mettiamo lo smalto alle unghie dei piedi. Non ci troverete spesso sedute a fare i compiti, se passate durante una discussione è facile che sia per quello. Non ci troverete in affanno, stanche, in continuo movimento. Per quello c’è l’inverno.
Ci troverete mentre esaminiamo i nostri corpi così esposti, coperti solo da un bikini, i peli sulle gambe di Pepe biondissimi, il seno di Cri che cresce forse si, forse no, gli occhi cangianti, i capelli più chiari. I loro corpi che si trasformano stagione dopo stagione, le mie braccia sempre più larghe a riva, con l’asciugamano aperto, il mio corpo sempre meno spigoloso, la conta delle cicatrici sulla pancia, la mia, quella da dove si sono affacciate loro che sporge come un gradino su cui sedersi ad aspettare, le nuove macchie sulla pelle del viso, sempre più fragile, sempre più porosa, un viso che non nasconde più nulla, basta una goccia e si macchia, sembra sporco e invece non è mai stato così pulito.
Ci troverete vicine, non tanto, non solo con i corpi abbronzati, ma con le voci, con i cenni, con quel sottofondo “mamma?”- “si”- “niente”.
Niente. Niente mamma, tranquilla, non devi fare niente, solo stare, solo essere, non fare niente. Non ci troverete altrove, non troverete niente altrove.
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