C’è un verbo, in dialetto, appartiene alla mia infanzia, i miei nonni, mia madre lo usavano per dire quando erano lì che perdevano tempo, che giravano per casa improduttivi. Tampasiare. Il senso è più o meno questo, difficile renderlo in italiano, l’italiano va bene per esprimere i concetti, con il dialetto si raccontano i sentimenti.
Qui è dove io tampasìo.
Ora, sto tampasiando.

Qui è dove ricordo. La professoressa di Lettere delle medie che amava la mia scrittura e quella della quinta ginnasio che la detestava. È stata la sola in tanti anni di scuola. Mi dava sei perché non c’erano errori ortografici ma proprio non le piaceva : “queste libertà te le prenderai quando sarai la Ginzburg”, diceva. Basta molto, molto meno, cara Prof., basta venire qui, senza scomodare la Ginzburg, e guarda? Mi sono presa tutte le libertà stilistiche, sintattiche, grammaticali che volevo. E adesso il tuo sei lo rovescio ed ecco che diventa un nove e me lo firmo pure da sola.
Qui è dove penso che non scriverò più, dopo questa volta, ogni volta. Basta. Ho paura di chi legge, dei commenti, dei messaggi che arrivano.
Qui è dove ho paura di leggere cosa mi scrivono quelli che leggono.
Che poi alla peggio non leggono più. Mica possono darmi sei.
Ora, sto scrivendo.

Qui è dove scrivo me, non di me. Scrivo proprio me, quasi su di me, nel senso più vivo del termine, cedendo alle parole dove prima cedevo al silenzio. Nonostante questo qualcuno si lamenta. Proprio per questo, penso, qualcuno si lamenta. Sono dispettosa. Arrivo sempre al limite del passo falso, uso ogni riferimento, voluto, possibile e poi scivolo di lato. Ti do il buffetto sulla nuca e quando ti giri ti guardo stupita. Io so chi fa finta di non venire qui a leggere e invece viene per vedere se trova l’appiglio e trova me, solo me, in fondo. Del loro giudizio non mi importa, so che non lo esprimeranno mai apertamente.
Ora, magari stanno leggendo.

Qui è dove confesso. Alla mia età non ho più nessuno a cui disobbedire se non me stessa. Mi detto le regole, le infrango, mi rimprovero, mi dispiaccio, mi chiedo scusa ma quasi mai mi perdono. Ogni tanto mi sottopongo a un interrogatorio, mi minaccio di punizioni lunghissime, raramente cerco alibi o complici. A volte faccio finta di niente, di non aver visto, mi lascio perdere, per questa volta, solo per questa volta. Capita, sempre più spesso, di testimoniare semplicemente come persona informata dei fatti.
Ora, “mi impegno a dire tutta la verità e non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza”.

Qui è dove lascio detto alle mie figlie. Come la vedo io, niente di che. Come sono io, come mi sento in quegli spazi dove loro non ci sono o non ci sono state, come è andata prima di loro. Io non so molto di mia madre senza di me, alcuni pezzetti mancano. So che mi sembrava irraggiungibile quando ero una ragazzina, come se lei avesse sempre saputo cosa fare perché anche quei nei che raccontava non erano errori, mi sembrava che non avesse sbagliato mai, fino a me. Ora so che non è vero, ma lo so in italiano, non lo saprei dire in dialetto. Ci guardiamo e ci diamo sei.
Qui è dove dico apertamente alle mie ragazze che ho sbagliato, sbaglio e sbaglierò. E spero di aver rimediato dove è stato possibile, di aver chiesto scusa dove non lo è stato, di saper comprendere i miei errori futuri. Ma loro, loro, sono state tante volte il rimedio e mai, mai la causa.
Qui è dove mostro, soprattutto a loro, i colpi e le botte prese, i lividi e le ferite. È li sopra che si poggia la felicità. È quello il terreno in cui affonda le radici.
Ora, sono felice.

C’è un verbo, un altro, sempre in dialetto e anche questo, ovviamente, appartiene alla mia infanzia. Abbanniare. Si usa per dire di quando si urla arrabbiati ma è qualcosa di diverso, di più grezzo e sottile allo stesso tempo. È quando alzi la voce in una discussione perché proprio quell’argomento ti fa saltare i nervi, ti smuove della rabbia nei visceri.
Qui è dove abbannìo.
Ma non ora.

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2 pensieri su “Qui ed ora

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