Io non le so raccontare le storie, non le so inventare partendo da niente e lavorando di sola fantasia, ho bisogno di iniziare, sempre, da qualcosa di vero, di già accaduto e poi da lì magari tiro fuori un racconto, un finale, sporco, un particolare, dolce.
Non ce l’ho una storia. Una volta ne ho avuta una, la storia del cucciolo Audrey . Il cucciolo Audrey esisteva veramente. Era un buffo bellissimo sgraziato cucciolo di dalmata . Cristina aveva due anni, Pepe era nel mio pancione che aspettava di nascere di lì a poche settimane. Le serate erano calde, al mare, io e Cri trascorrevamo tutto il giorno insieme, accarezzando la pancia, nell’attesa che tutto cambiasse senza sapere come, lei aveva gli occhi e la bocca che, ancora, facevano la stessa cosa. Se piangeva anche la bocca diventava triste, seria, un tratto di penna sbavato verso il basso. Se rideva gli occhi diventavano fessure strette da dove passava tutta la sua luce, da dentro a fuori verso di me, ancora, non come avviene di solito con le fessure che fanno entrare la luce, con lei la luce usciva. Ho capito che stava crescendo quando gli occhi e la bocca hanno iniziato a fare cose diverse.
Il cucciolo Audrey era di una mia amica, anzi di sua figlia “la Carlotta”. La storia cominciava con la Carlotta che piangeva, piangeva, piangeva disperata. Si alzava il mattino e piangeva. Andava a scuola e piangeva. Tornava a casa e piangeva. Cenava e piangeva. Non voleva più giocare, andare al mare, guardare i cartoni. Piangeva disperata.
Perché era sola. Non c’erano bambini con cui giocare, non aveva fratelli o sorelle, non aveva amici. Allora piangeva. E la sua mamma che l’amava più di tutto, più del sole che scalda e della pioggia che lava via tutte le cose brutte, più del silenzio che culla la notte, più del mare che bagna i piedi anche se scappi, allora la sua mamma che l’amava più di tutto e non sopportava più di vederla piangere un giorno tornò a casa con una sorpresa.
Quale sorpresa?
“Guarda, guarda fuori in giardino” disse la mamma alla Carlotta. La bambina scese di corsa le scale, si precipitò fuori e trovò un cagnolino piccolo piccolo tutto bianco con tante macchie nere, il naso rosa e la coda dritta come un’antenna. La Carlotta iniziò a ridere e a urlare di gioia, a saltare e fare capovolte, “davvero?davvero?davvero?” riusciva solo a dire, incredula e felice. Abbracciò il cucciolo, scoprì che si trattava di una femmina e decise di chiamarla Audrey. La Carlotta e Audrey stavano sempre insieme, anche di notte. La cucciola però combinava anche tanti disastri, faceva pipì e cacca sui tappeti del salotto, rosicchiava i mobili e i cuscini, scavava le buche in giardino e mangiava le ciabatte del papà. La mamma della Carlotta si arrabbiava moltissimo.
Un giorno, brutto, non potendone più, la mamma decise di affidare Audrey a un’altra famiglia.
La Carlotta ne soffrì moltissimo. Non pianse, non pianse più. Ma da quel giorno, brutto, la sua faccia non sorrise più. Magari la bocca andava in su, verso le orecchie, che sembrava un sorriso ma non era un sorriso era solo una bocca che sale.
Quell’estate, dieci anni fa, ho raccontato questa storia a Cristina tutte le sere. La voleva così, non doveva cambiare mai, mai una parola diversa, mai un’intonazione della voce diversa, quando la Carlotta diceva “davvero?davvero?davvero?” la mia voce doveva risuonare in un dato modo e solo in quello, quando dicevo che la mamma amava la sua bimba più del sole le mie mani dovevano allargarsi e formare un cerchio in aria, sempre uguale sempre così. Anche il finale non poteva essere diverso. Audrey veniva data via ogni sera, ogni volta.
La storia del cucciolo Audrey ci ha accompagnate fino all’autunno inoltrato, quando ormai Pepe era nata e l’estate era sbiadita, non più vicina e ancora lontana. E della vera Audrey non sapevamo più niente, del suo autunno dopo la sua estate, ogni tanto dicevamo “il prossimo anno vedremo quanto è cresciuta”.
L’anno dopo, arrivati al mare, la mia amica mi raccontò che Audrey l’avevano dovuta dare via, a un’altra famiglia. Era ingestibile, loro stavano troppo tempo fuori casa, la Carlotta portava ancora i segni di quel dispiacere.
La storia di Audrey era finita così come l’avevo immaginata, era finita per il solo fatto di averla immaginata. Cristina aveva ascoltato la mia amica e sapeva già, l’intonazione era diversa dalla mia, ma la storia era quella, proprio quella.

Non ce l’ho una storia nuova, originale. Una volta ne ho avuta una. Era la storia di un ragazzone grande e grosso con tanti capelli, un principe senza calzamaglia e senza principessa ma innamorato di una fanciulla dalla pelle bianca come la neve e i capelli neri come l’ebano che, però, no, non era Biancaneve. Il principe lavorava Lontano, ogni mattina prendeva la macchina, non aveva il cavallo, e partiva per andare a lavoro. Ogni sera tornava a casa dalla fanciulla che aveva scelto. Tutti i giorni. Alcuni giorni, brutti, si fermava a dormire a Lontano. Il principe e la fanciulla vivevano in un villaggio dove abitava anche una strega con sottili capelli biondi e occhi neri come il carbone, una strega che non sapeva più niente. Non era una strega cattiva, non con tutti, non sempre. Era una strega che non faceva magie, incantesimi o fatture. Era una strega perché diceva le cose che dicono le streghe, ineluttabili. Era una strega che raccontava ai bambini storie che non finivano bene ma che erano vere perché, pensava, è inutile proteggersi dalla verità.
Un giorno, brutto, la strega puntò lo sguardo annerito sul principe e gli disse “sei tornato? La tua fidanzata di Lontano ti ha lasciato tornare?” Tutti risero nel villaggio, era una battuta divertente, perché tutti sapevano che il principe grande e grosso amava solo la fanciulla con la pelle bianca come la neve. Ed ogni volta quella frase, ripetuta dalla strega, cadeva tra gli abitanti del villaggio e si perdeva così, nella distrazione. Fino a quando non tornò più, restò a Lontano, con la sua nuova fidanzata. La strega non gli parlò più, nemmeno per svelargli il finale, scritto, di questo amore appena iniziato. Solo gli augurò di essere felice non perché davvero volesse la sua felicità ma perché , pensava, le persone infelici rompono i coglioni.

Non ce l’ho una storia, una storia con riferimenti a fatti e persone puramente casuale. Ce l’ho con riferimenti puramente causali. Ve bene lo stesso?
È la storia di una ragazza che indossa i braccialetti della fortuna, quelli che regalano gli ambulanti in spiaggia o sotto i portici in centro. Esprime i tre desideri ogni volta, anzi esprime lo stesso desiderio per tre volte, una per ogni nodo. Sono spesso desideri d’amore. La ragazza è sensibile all’argomento amore. Molte volte si tratta di desideri universitari. Passare Diritto Privato al primo tentativo, per esempio. È una ragazza molto carina, bella. Bionda, ha gli occhi scuri, occhi malinconici mentre la bocca ride anche un po’ sguaiata, ride che ti giri a guardare da dove arriva quella risata. Ha un ex fidanzato, ha sempre un ex, ma questo ex è un peso, un macigno, una specie di fardello, un uomo infelice. Forse lo ha tradito. Lei che sa sempre tutto questa cosa non la sa. Erano in pausa, pausa di riflessione diceva lui, figurati se rifletti rispondeva lei. Lei odia il tradimento. E non sa se ha tradito. Sa che è seduta sul pavimento di una casa milanese, ha indosso una camicia con un profumo da uomo sul colletto, una camicia bianca con le maniche arrotolate. C’è un uomo che entra nella stanza, ha una Marlboro light in bocca, non ha la camicia ma la sua pelle ha lo stesso profumo di quella che indossa lei. Le porge il cellulare che suona. Il nome sul display è quello dell’ex. Stiamo riflettendo. Da mesi. Da maggio, adesso è settembre, tra dieci giorni compirà gli anni, ventidue. Stiamo riflettendo, dice lei, ma non lo dice per davvero. Si guarda riflessa nel vetro, con quella camicia e basta indosso, con quel profumo che le è salito ormai fino al cervello. Si guarda nello sguardo dell’uomo con la Marlboro light in bocca e pensa a dove erano appoggiate le loro bocche qualche minuto prima. Si guardano, mezzi nudi, lontani da ogni cosa definibile e allora lei che sa sempre tutto ora non sa. Lui le dà il telefono ed esce dalla stanza. Lei risponde. Non è un tradimento. È la vita che accade, è il riflesso delle scelte che facciamo. Ogni scelta è una decisione alla quale rinunciamo, ogni scelta è una strada che tentiamo. I braccialetti sono tutti al polso, non se n’è rotto nemmeno uno. Non è lui, lei lo sa, questo lo sa. Non è l’uomo con la Marlboro light in bocca ma va bene che non sia lui, è bello essere su quel pavimento sapendo che non è lui. Il braccialetto si romperà. Capiterà.
Un giorno, bello, la ragazza apre la porta dell’ufficio dove lavora, la porta di ingresso. La ragazza studia, si, ma intanto lavora, ha iniziato alla fine del primo anno di Università, non frequenta più le lezioni, studia il sabato e la domenica e di sera e va solo a sostenere gli esami. Le piace così, ha uno stipendio e si compra le scarpe, un paio a settimana, ha l’automobile, le sue amiche non ce l’hanno ancora, devono chiederla in prestito alle madri, lei no, lei ha una Panda rossa di seconda mano con l’autoradio sempre accesa.
Sulla porta vede due uomini. Uno dietro l’altro, sembrava uno di quei balletti delle prime serate di rai uno quando era piccola, con i ballerini che alzano braccia e gambe uno dopo l’altro a fare la coreografia. L’uomo davanti non lo conosce ma lui sorride e gli occhi gli si fanno a fessura. Quello dietro lo conosce, è Luca, un fornitore. Li accompagna nella stanza del titolare, hanno un appuntamento. Lei torna nel suo ufficio ma è irrequieta, deve uscire a prendere aria, si sente soffocare. È settembre, la settimana precedente ha compiuto ventidue anni, li ha festeggiati con l’uomo di Milano, sotto la Mole, lui ha smesso di fumare, ci sta provando, non aveva più la Marlboro light in bocca. Dal corridoio si affaccia sulla soglia dell’ufficio accanto, Luca è in piedi, l’uomo che non conosce invece è seduto, anche il titolare. La ragazza dice solo “esco un attimo per due commissioni veloci”. L’uomo che non conosce alza lo sguardo e sorride con gli occhi a fessura e lei ci vede una luce che esce e pensa che in genere la luce entra, annota il pensiero tra le cose da capire e va.
Non ha commissioni veloci, non deve nemmeno prendere il caffè. Fa il giro dell’isolato, lentamente, respira, passa davanti a una panetteria. Entra. Compra della focaccia. La parte con anche la crosta. Morbida ma anche dura. Di lei dicono che è solo dura, la raccontano così. Dura, stronza, antipatica, una che racconta storie che finiscono male solo perché sono vere. Quelli che hanno un racconto la raccontano così. Strega, le dicono. Senza pensare che ciascuno di noi è qualcosa di più del racconto che se ne fa. Mangia la sua focaccia e forse è la prima volta nella vita. Sicuramente è la prima volta che entra in una panetteria e si compra della focaccia e la mangia mentre cammina per tornare in ufficio pensando che qualcuno, un ex, sempre un ex, la racconta così, dura, come la crosta. Che quanto è buona poi questa crosta dura? È la parte vicina al bordo, quella più esterna, per forza deve essere dura, se fosse morbida si romperebbe subito . La ragazza si sente come la focaccia.
Rientra in ufficio, i due uomini se ne vanno. L’uomo che sorride è il nuovo fornitore, prende il posto di Luca che chiude e cede i clienti, si rivedranno nei prossimi mesi, lui e la ragazza. Si rivedranno anche fuori da quell’ufficio, sul marciapiede subito fuori dopo aver preso un caffè, in aprile quando tutto è possibile, la sessione estiva degli esami è prossima, il sole e la pioggia sono uguali, contano allo stesso modo e a nessuno verrebbe in mente di non aspettarseli. L’uomo di Milano un po’ distante, sullo sfondo di alcuni periodi.
Lui è in piedi davanti a lei e sta per chiederle di uscire una sera della settimana successiva. Lei lo sa da come lui si rigira le chiavi della macchina tra le mani, da come la guarda, come se lei fosse buona, lui ancora no, non sa cosa sta per fare ma lo fa. Chiede, lei risponde. Si, con la bocca e gli occhi che dicono la stessa cosa dopo tanto tempo o forse per la prima volta. Si.
Quanto tempo ci vuole perché ti piaccia qualcuno? Qual è il lasso di tempo minimo che deve passare perché ti possa piacere qualcuno? Poco, pochissimo, tipo che adesso non vorrei indossare la tua camicia e annusare il tuo profumo, tipo che adesso vorrei essere la tua camicia. A questo pensa mentre lo ascolta parlare. L’uomo che sorride parla ma non si racconta. Ha ordinato della focaccia, lui adora la focaccia, le dice
Quanto tempo ci vuole perché non ti piaccia più qualcuno? Non lo so. A questo pensa la ragazza con i braccialetti mentre si racconta, lei si, si racconta. Spiattella tutto lì, sul tavolo del locale dove l’ha portata e mentre racconta lei che sa sempre tutto si accorge che non sa più niente e che il braccialetto, quello, si è rotto. Sa solo che il tempo non basterà ecco perché sono ancora lì. Non hanno finito di parlare, di raccontare. Lei ha scritto il finale di questa storia, lui non vuole leggerlo perché, sa, poi diventa vero e a questo non sono ancora pronti. Non lo saranno mai. Capiterà un giorno, brutto.

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2 pensieri su “C’era una volta

  1. Già sai come la penso sulla tua scrittura e sulle tue storie.
    Io credo dovresti cominciare a fare sul serio, con la scrittura. Poi, vedi tu: la prima cosa, e forse l’unica, è che ti faccia stare bene, poi viene il resto. A noi ci piace.

    Piace a 1 persona

    1. Ho cominciato a fare sul serio con l’idea di stare bene. Grazie e lo so che sembra solo un grazie ma ti assicuro che dentro c’è tanto stupore, la rilettura-ossessiva-del tuo commento per essere certa di aver capito, la felicità, così almeno non rompo… Grazie.

      Piace a 1 persona

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