Ricevere. Il verbo da studiare per domani: indicativo, congiuntivo, condizionale, imperativo, infinito, participio, gerundio. Un casino, una confusione, una contestazione.
La differenza tra riceveremo e riceveremmo. Ricordati Pepe. Una emme è futuro. Semplice e pure certo. Due emme è tutto da vedere, è condizionale, mica c’è niente di sicuro, sai.
“è importante, Pepe, usi i verbi sempre, tutto il giorno, anche quando non parli, anche quando pensi e basta, nella tua testa tu usi i verbi. È facile, Pepe, dai, senza drammi.”
“ma se già li so usare perché li devo studiare?”
“perchè non è che sei nata sapendo i verbi, ogni volta che hai sbagliato qualcuno ha corretto il tuo errore, anzi, è proprio dall’uso dei verbi che ti rendi conto di chi hai di fronte, sai? Pensa a quanti sbagliano il congiuntivo. Vuoi essere una persona che sbaglia il congiuntivo?
“no, non voglio essere come Di Maio”.
Il Piemonte. La regione da studiare per domani. Tre pagine di sussidiario, la regione dove abitiamo. È montuosa, sì, è collinare, sì, c’è la pianura padana sì. Il libro pone l’attenzione sulla coltivazione del riso. Sull’allevamento dei bovini. Il Po e i suoi affluenti. L’artigianato orafo di Valenza. Che palle. Che due palle. Io da bambina andavo in edicola a comprare dei fascicoletti tematici che servivano per le ricerche, non so se esistono ancora, si ritagliavano le immagini, si scriveva la didascalia accanto con la replay o con la stilografica blu, la cartuccia da controllare a un certo punto e che finiva sempre di domenica. Che palle, che due palle la geografia.
Il cambio delle lenzuola, che potrei farlo fare alla signora in settimana e invece lo faccio io. Di domenica. Anche mia madre cambiava le lenzuola la domenica, io l’aiutavo, soprattutto per il letto matrimoniale, solo se non l’aiutava già mio padre. Perché il letto matrimoniale non si fa in tre. Porta male.
“perchè?”
“perchè si dorme in due nel letto matrimoniale, a farlo in tre significa che c’è qualcuno di troppo?”
“e a farlo da soli?”
“no, a farlo da soli non porta male”
“e ma significa che sei solo”
“mica porta male”
“e se l’altro è morto? O se n’è andato?”
“dai, tira meglio il lenzuolo sotto, che poi sembra un pagliericcio”
Io le cambio da sola. Per tutti e tre i letti, le ragazze hanno i letti da una piazza e mezzo, Cristina ha il letto che era di suo padre da ragazzo, forse l’abbiamo concepita lì, non ricordo ma mi sembra di si.
Le federe ben tese, il copripiumone colorato. Pepe vuole che non ci sia una piega, Cri forse nemmeno si accorge che c’è stato un cambio. Ci si butta sopra a leggere e mangiare. Io non potevo, ma avrei voluto. Condizionale. Ma portava male sgualcire le lenzuola appena messe, nel senso fisico dell’incazzatura di mia madre.
Il pranzo della domenica. Non esiste, mai istituito, troppo stressante. Galleggiamo, se non ci sono gare di Cri, abbiamo pigiama libero, divano, qualcuno dipinge, qualcuno legge, i compiti. Sky, repliche, registrazioni, spuntini, pane tostato, il caffè a letto. Instagram, un po’ di Facebook, le lavatrici arretrate, WordPress, le statistiche.
“sai che questa settimana mi hanno letta dal Giappone?”
“dai, chi c’è in Giappone che conosci?”
“nessuno. Perché scusa non può essere qualcuno che non mi conosce?”
“si, ma mi sembra strano”
“no, guarda, è stato più strano quando quello lì mi ha letta dal viaggio di nozze alle isole paradisiache solo per vedere se scrivevo male di lui”
“si, è vero”
Internet e quel che capita. Oggi è capitato un viaggio organizzato a New York, la Scuola Holden over 30, il registro elettronico, un sito di annunci di dammusi a Pantelleria.
Dai social ho visto che il mio primo amore di cent’anni fa ha fatto la revisione alla macchina del tempo, la Renault 4, che l’ha superata. Brava ragazza, quanto mi è battuto il cuore in quell’ auto. Quanta rabbia, quando ho scaraventato il regalo di Natale sul sedile posteriore senza nemmeno aprirlo. Mi stava lasciando, ma siccome non sapeva quanto sarebbe stato fattibile -condizionale- aveva pensato che presentarsi a mani vuote non era bello. Non so cosa fosse, quel regalo. Mi sono fatta lasciare, mi sono lasciata io, in realtà.
“vedi un’altra?”
“si”
“quella che abbiamo incontrato insieme il mese scorso nell’androne del tuo palazzo perché una coppia di suoi amici vive lì ed era un sacco che non vi incontravate e tu guarda che caso?”
“si. Come lo sai?”
“L’ho sentito”
“da chi?”
“no, Voga, non da chi. Da cosa.”
Lui adesso fa il comico. Davvero, di lavoro. A me non ha mai fatto ridere, però mi fa sorridere. Anche quella ragazza che si è lasciata perché fosse più facile e comunque faceva un male porco. Perché aveva capito e basta e quando capisci non vuoi perdere tempo. Anche lei ha passato la revisione.
La fine della settimana appena trascorsa e l’inizio della settimana si incontrano sempre a un certo punto della domenica, di ogni domenica, in un momento. Per me quel momento è quando sento una specie di irrequietezza, ripenso a quel che ho fatto, inizio la programmazione di quanto ho da fare. I libri di Pepe, non sono ancora arrivati. Il vaccino di Cri, fatto. Il tennis mercoledì, le scadenze bancarie entro giovedi’ tutte. Il mio compleanno martedì scorso, la gara di Cri ieri e la sconfitta che non è mai una compagna piacevole con cui viaggiare in auto al ritorno. La sensazione che tutto sia stato fatto. Che tutto sia stato già detto, almeno una volta. Che nulla possa cambiare per me ma solo per loro, ormai. Che il mio tempo sia passato mentre decidevo cosa fare senza aver deciso alla fine e che ora basta, non tocchi più a me. Tocca a loro. È sempre di domenica quel momento in cui penso di non poter più. A volte dico “non ne posso più” ma non è giusto. Quello che penso è “non posso più”.
I silenzi. Abito in campagna, più cani che persone, ognuno ha i suoi spazi qui, le ragazze hanno una stanza ciascuna. Quando abbiamo deciso di non far più condividere la stanza avevano sei e otto anni, qualcuno ci ha detto che era troppo presto per separarle. Non si sopportavano. Cristina aveva solo robot e supereroi vari, Pepe voleva la casa di Barbie e la tappezzeria a fiori.
Io avrei pagato per avere la mia stanza da bambina e invece la dividevo con mio fratello prima, con mia sorella dopo, quando io avevo diciotto anni e lei sei, vite diversissime, dormivamo una accanto all’altra senza condividere ovviamente nulla. Io e mio fratello abbiamo lottato per guadagnare centimetri uno a discapito dell’altra, usavamo i libri o i fumetti per creare confini e muri immaginandoci soli senza mai esserci sentiti soli. Non c’era mai silenzio, soprattutto di domenica quando eravamo tutti a casa.
I silenzi, ora, ci sono soprattutto di domenica. Le ragazze se vogliono stanno insieme nella stanza di una delle due, altrimenti no. Ma non si sentono mai sole e mai si immaginerebbero sole. Basta aprire una porta o chiuderla, sanno che si deve bussare, aspettano. I silenzi sono forse la mia conquista adulta più importante. Insieme alla rinuncia di ogni liturgia domenicale, dal pranzo alle visite di cortesia.
“la domenica è fatta per riposare”
“vero”
“allora non usciamo?”
“vuoi uscire?”
“no, figurati. Voglio riposare”
“va bene. Tua sorella è d’accordo?”
“non mi importa, io non esco”
La nostalgia. È sempre di domenica. Forse la domenica è un giorno inventato proprio per permetterci la nostalgia e molti lo sprecano con i rimpianti. I ricordi, i ricordi sono sempre di domenica. Gli album di foto, la galleria del cellulare, le cornici da spolverare. Ho trovato una foto che ha ventinove anni, giusti. Era settembre del 1990, eravamo appena tornati dalle vacanze trascorse per la prima volta nella casa appena comprata al mare, in quello che sarebbe diventato il mio posto del cuore. Ho mia sorella in braccio. Io e lei, i nostri dodici anni di differenza, i mie capelli lunghi così simile a Pepe, la sua pelle bianca come la neve, la mia presa sicura e divertita, il suo sguardo tranquillo. Io mi occupavo di lei completamente. Dal pannolino alla pappa, ero capace di gestirla e a nessuno sembrava strano, folle, precoce. Non ho nostalgia di quel periodo, per niente. Ma lo ricordo. Lo ricordo benissimo, lo ricordo con tenerezza e con tristezza, lo ricordo mentre mia nipote mi corre incontro allargando le braccia o quando torna dai pomeriggi con suo padre e mi si butta al collo. Quando cambio le lenzuola in camera di Cri e mia sorella è seduta dietro di me alla scrivania e non so se sa anche lei che il letto non si rifa in tre ma penso di si, sicuramente si, e poi penso che sette mesi fa abbiamo vestito nonna, insieme, io e lei, nonna appena morta in un letto senza pieghe, l’abbiamo vestita noi, io e lei, i nostri dodici anni di differenza, una differenza che non si colmerà mai, io e lei e il suo matrimonio che finiva in quei giorni e quel dolore porco che ci faceva piangere, eravamo strappate, le radici tremavano tutte, le chiome erano spoglie, io non sapevo-potevo, prenderla in braccio perché non era più il tempo, perché non era più giusto ma le ho detto che sarebbe passato. Come quando si faceva male da piccola.
“passerà”
“si”
“fa male, lo so”
“si”
“passa, hai capito che passa? Ti assicuro che passa”
“si”
“non c’è più”
“no”
Passerà. È il futuro. Semplice e pure certo. Come certi passati.

Bello, è sempre bello leggerti.
E’ come giocare a flipper, io giocavo a flipper da ragazzino (ma no, non li percuotevo)
L’attenzione rimbalza da una parola all’altra, da un tempo a un altro, da un luogo all’altro, una lucina si accende, l’altra lampeggia.
Ancora una monetina, ancora!
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Adoravo i flipper. quell’estate lì, 1990, ci ho giocato ogni sera. c’era solo quello. Non ne ho più visti in giro o forse non me ne sono più accorta.
Grazie.
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