Non mi ricordo. Mi sforzo da giorni, ma niente. Non mi ricordo la prima volta che lo abbiamo detto, il momento in cui abbiamo stabilito questa regola tra noi, questo art.1 della nostra Costituzione. Eppure è importante. E io non me lo ricordo. Non so, mi viene in mente una sera, autunnale, nella tua macchina, quella con i sedili rossi. Io avevo la Borbonese, quella a mezza luna, tra la coscia e la portiera, quella coscia, la destra, accavallata sulla sinistra, la tua mano sul mio ginocchio e poi sul cambio e poi di nuovo e poi fermi. Mi viene in mente quella sera ma potrebbe essere un’altra. Quella sera tu mi hai detto, io ti ho detto, allora tu mi hai detto e allora io mi sono incazzata e allora tu. Il mio ginocchio. La tua mano. Allora basta. Dovevamo finirla così ed eravamo seri, pensavamo davvero che allora basta, ogni volta. Senza possibilità di fraintendimento.
Non ricordo e forse è la cosa che più mi fa arrabbiare. Sono giorni che ci penso, però se mi viene in mente quella sera un motivo ci sarà. Chi dei due lo ha detto? Io. È una cosa mia, dai, pensaci. Io posso dire una cosa così, seria, puntandoti lo sguardo dritto in faccia che non puoi nasconderti e non puoi nascondermi nulla. Io posso dirti “tra di noi niente scusa. E niente grazie.”
Si, devo averlo detto io. L’idea è stata mia. Niente scusa, dai. Cosa chiedi scusa? Che senso ha? Quel che è fatto è fatto. Dimmi che farai altro, anzi non dirmi cosa farai ma pensa a me quando fai e a quel che sai di me, a tutta la fantasia che uso per vivere con me stessa ma non chiedermi scusa che poi devo scusarti e io, io non sono capace. E niente grazie. Cosa vuoi? Che ti ringrazi di cosa? Io non so dire grazie senza aggiungere “al cazzo”. Non suona bene.
Però, potrebbe anche essere una frase tua, in fondo, a pensarci meglio. Tu potresti dirla così, come una roba buttata a caso, calzini appallottolati sul divano che poi ne trovi solo uno, potresti avere avuto tu l’idea. “tra di noi niente scusa. E niente grazie”. Per cosa avrei dovuto chiederti scusa? Per averti amato di nascosto fino a quando non hai urlato “tana libera tutti” ed eravamo rimasti io e te in gioco e basta? Per averti amato così, scomposta, come una frattura dolorosa? Come una bambina che non riesce a stare ferma? E grazie, grazie di cosa? Di cosa mi avresti dovuta ringraziare? Delle stesse cose per le quali avresti dovuto anche scusarmi.

È andata avanti, bene, per molto tempo, l’applicazione di questa regola. Che sia stata mia o tua, poco importa. Siamo stati bravi nell’applicarla. Poi è successo qualcosa.

Non mi ricordo. Mi sforzo da giorni, ma niente. Non mi ricordo la prima volta che abbiamo derogato. Prima io o prima tu? Penso prima tu. Ma non sono sicura. Mi viene in mente che avevo i capelli scuri. Li ho tinti di nero quando ho compiuto trent’anni. Cri aveva quattordici mesi e io ho tirato su una colata di nero sui miei capelli biondi. E mettevo una sciarpa rossa anche se era settembre e non avevo mai avuto una sciarpa. Infatti era tua- grazie. Avvolgevo la gola e poi facevo un doppio giro e così i due lembi mi cadevano sul seno. Mi vedo così se penso alla prima volta che ci siamo chiesti scusa e detti grazie. A mente ho aggiunto “al cazzo”, comunque, sappilo. Con i capelli neri e la gola avviluppata, sullo sfondo un grande malumore e un senso doloroso di precarietà. Non ricordo perché. Perché ci siamo chiesti scusa, perché ci siamo ringraziati. Non ricordo il perché specifico, il dettaglio. Ma so che era iniziato il nostro periodo detto del Fraintendimento. Il nostro personale e oscuro medioevo. Con le prime scuse avevamo aperto la porta all’incomprensione e quel che prima non aveva bisogno di essere detto adesso necessitava di un’esegesi accurata e non c’erano esperti ai quali rivolgersi. Anzi. Eravamo circondati da ridicoli cialtroni. Che però non facevano nemmeno tanto ridere.
Con i primi grazie avevamo dato avvio allo schema della riconoscenza e della gentilezza reciproca. Due balorde che si portano appresso come in un sabba l’insofferenza e la falsità. E la mia sciarpa, la tua in prestito-grazie-, sempre più stretta intorno alla gola, la mia che esplode- scusa.
Il Fraintendimento cadeva su tutto, sul lavoro che ci vedeva affiancati, con il mio procedere saputello e studioso e il tuo fare a sensazione e poi si vede. Sulle famiglie di origine e la perversione della coazione a ripetere. Sulla forma da assumere in tre, che un triangolo non è detto sia isoscele. E in quattro, che non è detto che un quadrato sia meglio di un rombo. Sulle nostre regole fondanti. Il dolore più grande da cui scivolava come un masso senza controllo la sensazione che tutto dovesse finire.
Tra di noi niente scusa e niente grazie.
Fai quello che vuoi, sii quello che sei. Ma ricordati di me, di tutta la fantasia che impiego, di tutto quello che penso perché tu sai, tu solo sai, tutto quello che penso, tu sai se è vero o se è inventato.
Tutto quello che è inventato è vero.
Ci eravamo dati anche questa regola. Questa è tua, non devo nemmeno pensarci. Nasce da un nomignolo che mi hai dato, una notte, inventato e che è diventato il mio secondo nome, Kibu, così vero che a volte penso di chiamarmi così.
Il Fraintendimento portava via tutto, lentamente, come un vizio che ti consuma giorno dopo giorno, puntata dopo puntata, tutto sul rosso, come la sciarpa. No, tutto sul nero. Come i capelli, che a farli tornare biondi non è stato facile. Portava via la spontaneità, il parlarsi direttamente e come capitava senza cura, senza belletti che si sciolgono al sole, parlarsi senza paura e senza premura, senza pegno da pagare per una confidenza. Il toccarsi senza sentirsi frangibili o osservati o imperfetti o sbagliati. Il guardarsi senza protezioni, senza occhiali o filtri, io ho passato dei pranzi con gli occhiali da sole addosso. La sciarpa stretta intorno alle parole e la mascherina scura sullo sguardo arrabbiato.

Non mi ricordo. Mi sforzo da giorni ma niente. Non ricordo. L’ultima volta che ho premesso. L’ultima volta che ho argomentato e fatto l’elenco dei perché si e dei perché no, l’ultima volta che ho sbuffato prima e inveito dopo per dirti come la pensavo. Mi viene in mente una sera di maggio di due anni fa. Era un venerdi, Cri aveva dato l’esame di cintura a Karate, quella sera hai ricevuto messaggi di chi ti diceva qualcosa su di me, sul mio comportamento, inventava ma non era vero, perché non conosceva le regole, non poteva inventare e far diventare vero, perché la verità è un punto fermo anche quando inventi e loro no, ti dicevano solo invenzioni traballanti. Quella sera mi sono tolta la fede dall’anulare e l’ho poggiata sul comò in camera da letto. La fede ha fatto “tin” cadendo. Questo suono lo ricordo.
Prima di quella sera avevo già pensato che non ne potevo più, ma non così. Avevo già il mio elenco punto per punto di azioni da intraprendere e di soluzioni pratiche da saputella studiosa, non l’ho mai buttato, è in ufficio, ultimo cassetto della scrivania. Avevo già immaginato una vita senza scusa e senza scuse, senza sciarpe, senza te. Avevo già inventato di giocare di nuovo, di nascondermi e non trovarmi per un po’ e di restare per ultima e poi urlare tana libera tutti sapendo che non c’era più nessuno da salvare. Solo me. Però mi viene in mente quella sera, proprio quella sera e allora qualcosa vorrà dire. La fede nella ciotola sul comò. Tin. La porta della camera da letto chiusa a chiave. Il mio pianto. “domani vado via”.Nessuna possibilità di fraintendere. Il tuo sguardo che non sapeva dove poggiarsi perché mi ero tolta da lì, da dove lo mettevi sempre come le chiavi della macchina sul mobile dell’ingresso. Il peso del tuo corpo sul divano, i tuoi pensieri spaiati come i tuoi calzini, appallottolati e lasciati lì, che non importa più a nessuno, che non c’è più nessuno che li raccoglie e te li riporta puliti. Il mattino dopo “ho capito, vai pure via, è giusto”. Nessuna possibilità di fraintendimento.

Non mi ricordo. Mi sforzo da giorni, da quando Cri mi ha detto che si ricordava di quella sera, me l’ha detto due settimane fa, a pranzo, dopo l’ultima telefonata traballante che hai ricevuto, che strani questi tentativi maldestri, come il pesce con l’amo in bocca che ancora dà qualche colpo di pinna e non si arrende e non capisce che ormai è fuori dall’acqua.
Forse dovrei chiederti scusa per le cose che devi sentire al posto mio, forse dovrei dirti grazie, per il fatto che lo fai. Ma aggiungerei comunque “al cazzo”, quindi no, non va bene.
Cri ricordava tutto, mi sono dispiaciuta ma le ho spiegato come mi sentivo. E che ho rimesso la fede al dito dicendoti che era l’ultima volta. Nessuna possibilità di fraintendimento.
Mi ha ascoltata come fa lei, in silenzio, come fai tu. Con lo sguardo appoggiato, lieve, che non faccia mai male, lei. Io te lo butto addosso, il mio.
“non è stato un bel periodo, quello. Per fortuna è finito, vero mamma?”.

“Si, è finito.”

Nessuna possibilità di fraintendimento.

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