Alla fine Pepe non l’abbiamo fatta operare alle caviglie. L’avevo portata da un ortopedico, gran professore, primario, che mi aveva detto assolutamente si, assolutamente si signora. Va corretta. Una vite nella caviglia destra, una vite nella caviglia sinistra. E allora l’abbiamo portata da un altro ortopedico, gran professore, primario, che mi ha detto assolutamente no, assolutamente no signora. Ciascuno mette i piedi come vuole, non c’è alcun difetto da correggere. E alla fine niente, siamo andati da un fisioterapista e osteopata e così è. Una via di mezzo tra intervenire e fare niente, qualcosa che ci consenta di dirle tra vent’anni quando verrà a chiederci conto del suo piede cavo e valgo che non è vero che non abbiamo fatto niente o che non abbiamo scelto e deciso per lei, pensando e cercando di fare sempre il meglio.

Come si fa a decidere per un altro? Come si fa a sapere cosa è giusto e cosa no? Io non sono medico, non sono ortopedico, non sono maestra, professoressa,  maestro di tennis, istruttore di karate, psicologa psicoterapeuta, dietista, parrucchiera. Come si fa? Questa è la piega della genitorialità che più mi disturba perché io, alla fine, ho sempre paura di sbagliare e penso finché si tratta di me non importa ma adesso, adesso che si tratta di loro, finché si tratterà di loro, io come faccio? Così faccio, faccio per tentativi. Sbaglio, chiedo agli altri, riprovo sperando di non fare casini enormi.  Ma due viti nelle caviglie no, non me la sono sentita. È che io ancora non ho capito come fare a mettere una sciarpa senza che mi ci si impiglino gli orecchini ogni volta che muovo leggermente la testa, magari mentre parcheggio . Io ancora confondo la riviera di ponente con quella di levante, ieri di nuovo, ho studiato la Liguria con Pepe e ho finto di sapere dov’è una e dov’è l’altra e invece no, ho guardato la cartina di nascosto. Anche con Cri due anni fa, uguale. È ovvio che io devo procedere per tentativi. E non è vero che ho sempre cercato di fare il meglio. Per dire, quando Pepe era piccolissima aveva paura dell’aspirapolvere, in generale di tutti i rumori improvvisi,quello del frullatore, del tritatutto e scoppiava in pianti inarrestabili ogni volta che azionavo un elettrodomestico rumoroso e allora dovevo avvisarla, farglielo vedere spento e dirle vedi, adesso mamma lo accende, sentirai un rumore ma dura poco e non è niente, è solo rumore. Però lei era davvero faticosa, lei piangeva sempre, tanto, per niente o comunque per qualcosa che io non sapevo e sembrava che non ci capissimo mai io e lei e che fosse tutto sbagliato e più sembrava così più mi si attaccava e veniva a cercarmi ma io non stavo bene, comunque, ero in analisi e mi sembrava di non sopportare più niente e allora io a volte accendevo l’aspirapolvere senza usarlo. Le dicevo vedi, mamma adesso deve usare questo, tu stai in camera da brava, quando finisce puoi uscire.  È capitato,anche, che iniziasse a piangere disperata e disperante in macchina, mentre guidavo, con quel pianto quello che penetra direttamente nel cervelletto e allora io accostavo e scendevo. Restavo lì, accanto alla macchina, accanto alla portiera, la vedevo piangere, appoggiavo la mia mano sul finestrino e ci guardavamo. Lei in lacrime e io anche. Le mie scendevano silenziose e per questo mi spaventavano. Il dolore quando mi riguarda è sempre muto. Poi mi guardavo intorno e fingevo di essere un’altra. La donna che entrava in panetteria, quel signore a passeggio con  il cane, la ragazza con lo zaino alla fermata del pullman, la signora che stende jeans da uomo . Alla fine, aprivo la portiera , la accarezzavo sulle guance rosse per lo sforzo e cercavo di calmarla, scendevo a patti con il mio male senza essere mai ricambiata.

Questa cosa delle caviglie mi è tornata in mente in questi giorni, in realtà è una vicenda dell’anno scorso, ma sarà che continuiamo a portarla dal fisioterapista, sarà che è dall’anno scorso che osservo le persone, tutte, con altri occhi dopo che il gran professore primario mi ha detto che ciascuno mette i piedi come vuole ed è vero, comunque, si, è pieno di gente che secondo me cammina male, butta il piede destro in fuori, il sinistro in dentro, tutti e due in fuori,entrambi in dentro, poggia tutto il peso sulla punta o sembra che debba cadere all’indietro per il peso che mette sui talloni. A me sembra che camminino male e invece mettono i piedi come vogliono.  Io non lo so come li metto, mi hanno detto che quando sono stanca anch’io li metto male, come Pepe.  Ma io sono sempre stanca. Forse volevano dire quando sono più stanca o molto stanca o forse volevano solo dire che ci somigliamo anche in quello.  O sarà che adesso è il periodo dei dossier e allora recupero pensieri da anni passati. È dal 1998 che queste sono le settimane dei dossier, in ufficio. Sta finendo l’anno, inizia l’anno, devo togliere i faldoni vecchi e creare quelli nuovi e ogni anno succede che il vecchio e il nuovo si trovano a convivere pacificamente mentre l’anno ancora precedente viene portato in cantina. Quindi sto preparando il 2020, sui ripiani più alti, sto spostando il 2019 nei ripiani più bassi e sto salutando il 2018, verso il dimenticatoio. Le caviglie di pepe sono nel 2018, vediamo.

È dal 1998, non è poco. Mia madre aveva circa la mia età, penso sia nato uno dei miei ultimi cugini quell’anno, avevo tre nonni su quattro e tutti ancora funzionanti, la società per cui lavoravo era un’altra. E scrivevo a penna “fatture 1999”. Adesso uso l’etichettatrice, così il colpo d’occhio è più ordinato. Che poi io lavoro da sola, non solo non c’è chi deve avere il colpo d’occhio ma nemmeno chi sa che ho un archivio o dei dossier o le settimane dei dossier e la pacifica convivenza tra anni su scaffali con un colpo d’occhio curato. Però, penso, se mi capita qualcosa e qualcuno deve sedersi al posto mio e rispettare le mie scadenze allora è meglio che abbia un colpo d’occhio pulito. Così si orienta meglio, perché un conto è il metodo e un conto è l’ordine. Io ho metodo. In tutto quello che faccio. Ma non sono ordinata, per niente, mi ci devo costringere  all’ordine. Io è dal 1998 che penso mi possa capitare qualcosa all’improvviso. Non vivo bene, mi rendo conto, ma poi penso che se non lo faccio porta male. Mia nonna diceva “morire di subito” per indicare quando, niente, uno è lì che sta bene e però muore e nessuno se lo aspettava. Ecco,io è dal 1998 che mi organizzo nel caso capitasse qualcosa perché comunque ci vuole metodo anche per morire di subito.

La prima volta che ho iniziato a occuparmi di insoluti il relativo dossier non lo avevo preparato io ma una persona con una grafia peggiore della mia, se possibile, e priva sia di ordine che di metodo.  A colpo d’occhio mi sembrava ci fosse scritto insulti. E lo avevo trovato addirittura geniale, quasi un modo di sdrammatizzare l’amministrazione aziendale, in effetti, dai, se non paghi quanto mi è dovuto è come se mi insultassi. Invece no, niente genialità, solo disorganizzazione . Ci ho ripensato il mese scorso, quando è arrivato il volantino per la presentazione del percorso di catechismo fino alla Cresima, per Cri, e l’ ho appoggiato sulla mia scrivania prima di infilarlo tra i fogli di recupero perché era stampato su una facciata sola e potevo riutilizzare per gli appunti quella in bianco, tanto era ovvio scontato e pacifico che Cri non avrebbe frequentato. Non farà la cresima. Non finché sono io che devo decidere e soprattutto organizzare il relativo pranzo visto che ancora aspetto si riformino le mie cellule epatiche morte per la comunione in seguito a fulminanti attacchi di rabbia.  Quindi, se vorrà, da adulta, in piena libertà di scelta, potrà accostarsi al sacramento della Confermazione. Comunque lei ha visto il volantino, e dopo un colpo d’occhio rapido mi ha detto che no, non le interessa la Cremazione. Poi dice che non mi assomiglia. Alla fine,uno i sacramenti li mette in ordine come vuole.

Dal 1998, non è poco, però questo è il primo anno in cui ho dubbi sulla pacifica convivenza tra i dossier. A me il 2019 sembra inconcluso. Non so, ho questa sensazione di un anno che mi resterà appiccicato addosso, ho la sensazione come di colla. È stato un anno faticoso, oltre la stanchezza, quella che mi fa storcere i piedi. Un anno in salita senza mai una discesa e senza nemmeno la vetta, ecco perché mi dà questa sensazione,noiosa, di non essere finito. Un anno nel quale ho iniziato a parlare di qualcuno  usando il passato e sapendo che sarà così per sempre: un passato per il futuro. Ho fatto le prove generali della morte di mio padre e non sono andate bene, mi hanno mostrato la solitudine che mi attraversa come una crepa di assestamento nonostante i miei fratelli, proprio per la loro presenza, la ferita di sentirsi figli unici davanti alla perdita, davanti al dolore.  Ma ho anche  conosciuto una donna che mi ha dedicato tempo quando ne ho avuto bisogno senza averne nulla in cambio e mi ha spiegato cosa significa non accettare a qualunque costo qualcosa solo perché lo desideriamo purché sia e poi ho conosciuto una ragazza che si è preparata una sigaretta davanti alla mia macchina, in una sera fredda,lei con i capelli rasati e piena di tatuaggi e mi ha detto di continuare a impigliare parole tra le righe come gli orecchini nella sciarpa, senza cercare sempre una soluzione e io dopo ho pianto silenziosa, mentre tornavo a casa. Un anno che non mi ha fatto niente di che, che non mi ha portato via nulla che già non fosse finito e  proprio per questo mi sembra impossibile che termini così, senza strascichi.  No, non sono arrivata alla fine, c’è qualcosa, qualcosa che non so cos’è che non è ancora stato ma che è di competenza di quest’anno, non posso metterlo nel 2020, è come con le fatture, è come se non avessi fatturato tutto. Sicuramente non ho incassato tutto. Gli insoluti- e gli insulti-me li trascino nell’anno nuovo. Andrò per cassa e non per competenza. Non riesco a spostare i dossier nel ripiano più basso, so che dovrò usarli ancora e con frequenza, dovrò tenerli accanto a quelli etichettati 2020 e il colpo d’occhio non mi piace, quindi spero che non mi accada niente di improvviso e che nessuno debba sedersi qui al posto mio, anche se poi alla fine uno i dossier li mette come vuole.

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5 pensieri su “Alla fine

  1. “Questa è la piega della genitorialità che più mi disturba perché io, alla fine, ho sempre paura di sbagliare”. Ecco, secondo me non si deve aver paura di sbagliare: lo si deve dare per assodato. L’oscillazione tra il troppo ed il troppo poco, il raggiungere quell’equilibrio instabile tra la presenza e il soffocamento è il mestiere di ogni genitore. E bisogna andare avanti in questa continua ricerca, partendo dalla certezza che l’errore è una variabile costante, che dovremmo provare ad azzerare, ma nella certezza che non azzereremo mai. Ce la metteremo tutta, sbaglieremo in buona fede, ma sarà inevitabile. https://viaggiermeneutici.com/2013/11/20/crescere-i-figli-evitando-le-buche/

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    1. l’ultima volta che ho preso una buca hanno dovuto buttare via la gomma. sarà stato quindici giorni fa, avevo appena fatto il cambio e messo le termiche. adesso sembra che senza le termiche non si possa affrontare l’inverno. le ragazze erano, ovviamente, in auto con me. ho detto una quintalata di porca puttana e con le quattro frecce arrancando ai dieci km all’ora siamo arrivate dal gommista più vicino, loro soo state in silenzio per tutto il tragitto mentre io imprecavo. quando siamo arrivate mi hanno detto “brava mamma, ce l’hai fatta lo stesso”. penso sia tutto lì lo sforzo, per me, in quel “lo stesso” con il quale devo fare pace io per prima. e subito dopo devo imparare a dare per assodato con granitica fermezza.

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