Ho trovato vecchie agende che usavo per scrivere pensieri vaganti. Chissà perché si dice pensieri vaganti, come le mine.
Bugia.
Non le ho trovate le agende, ho sempre saputo che sono lì, nell’ultimo cassetto della scrivania in ufficio, ce le ho messe io. E’ il cassetto dove conservo tutto quello di importante che non riguarda il lavoro .
Ho riletto le vecchie agende che sapevo di trovare al fondo dell’ultimo cassetto della scrivania in ufficio e penso che sia giusto dire dei pensieri come si dice delle mine. Almeno per i miei pensieri, per i miei pensieri è giusto.
C’è anche il foglio con la strategia di sopravvivenza post separazione tirata giù un giorno a pranzo con Andrea, che io lui me lo ricordo al ginnasio e all’università e sembra che il tempo non passi ma e poi invece pranzi con il tuo compagno di banco che fa l’avvocato e già che ci sei tiri giù elenchi per punti numerati e pensi alle priorità. Alle tue. Per la prima volta. Anche se non mi sono separata non l’ho buttato, mi ricorda che ci sono delle priorità.
Non dovete buttare nulla finchè non avete controllato, ragazze mie. Tra le mie cose, intendo, se mai ci fosse la necessità che mettiate voi mano, non buttate, controllate, perché anche un foglietto volante può essere un pensiero vagante. Poi, per carità, non è che dovete conservare tutto, non è che ogni pensiero merita di essere pensato e custodito, almeno per i miei pensieri, per i miei pensieri non è detto che meritino. Deciderete, ma prima leggete.
15/11/2009 Cristina a cena mi ha detto “mamma tu sei la mia gioia”.
Ho iniziato a tenere le agende dopo la nascita di Pepe, nel 2009, anche su indicazione dell’analista. Scrittura ombelicale, mi pare che si dica. Quella che guarda a se stessa, al proprio ombelico. Io avevo un ombelico trasfigurato da un’ernia. Si era appallottolato tutto lì lo sforzo di essere migliore, come un pugno accartocciato su se stesso che sfidava nessuno, incapace di allargare la mano e trasformarla, non dico in una carezza ma anche solo in un segno di pace, in una stretta di mano decisa, in una presa calda ma non sudaticcia. Nemmeno così riuscivo, però, a parlare solo a me stessa. Puntavo la penna dritta verso qualcuno, sempre. Chissà perché ho detto puntare, come si dice di una pistola. Quando scrivevo a voi, ragazze mie, era sempre per lasciare detto. Un’ansia che non mi ha mai abbandonata, la paura di non riuscire a dirvi tutto, a trasmettervi tutto. Tutto cosa? Non lo so.
27/04/2010 mentre preparavo cena Cri mi ha chiesto se le mamme vanno in cielo.
Vi ho detto che volevo usare una vostra foto per mispiego, quella scattata a Verona mentre abbracciate la statua di Giulietta. Vi siete lamentate, a Cri non piace come è venuta, allora mi avete detto che posso usare quella che papà ci ha scattato dal balcone, sempre a casa di Giulietta. Però nell’altra eravate di profilo, in questa si vede proprio il vostro viso, ho pensato che forse non era il caso di pubblicarla. Chissenefregamamma. Allora me ne frego e con la vostra liberatoria la inserisco alla fine di questa lettera. Siete belle, e Cri , ti avevo detto che si, anche le mamme vanno in cielo ma solo quando è il momento. Per fortuna non mi hai chiesto quando è il momento.
“Scusa, non puoi scriverci una lettera,darcela e basta?”
No, non posso perché non voglio sapere se l’avete letta o meno. E poi la perdereste, soprattutto tu, Cri, perché sei una casinista, ieri sera siamo tornate da Varese dopo una tua gara, ti sei fatta la doccia e stamattina stavo mettendo la giacca della tuta sociale in lavatrice con la medaglia nella tasca chiusa. Per fortuna che le medaglie pesano e fanno rumore.
Anche per prenderle alcune medaglie si fa rumore. C’è questa cosa che fate nel karate, questo verso. Il kiai, una specie di urlo, un suono gutturale che vi esce quando tirate una tecnica, un pugno, un calcio. Ognuno ha il suo. Io riconosco il tuo kiai, Cri, come riconoscevo il tuo pianto da neonata. Hai avuto un accenno di ittero al tuo terzo giorno di vita e hai dovuto trascorrere una notte in lampada, al nido. Il nido era al secondo piano, la mia stanza al terzo. Quella notte l’ostetrica mi è venuta a chiamare per allattarti, mi sono tirata giù dal letto, non dormivo, nella mia stanza c’era una donna in travaglio e un’altra con due gemelli. Il bimbo della stanza accanto ha pianto per tutto il ricovero, a volte lo immagino ancora in lacrime. Non so se ti capita di incontrare un tredicenne piagnone, magari è lui. Avevo i punti del cesareo che mi dividevano in due il corpo, dal ventre in giù, le gambe, le caviglie gonfie, i collant bianchi a proteggere le vene. Dal taglio in su il tronco ripiegato, le spalle rigide, la schiena curvata. Quando sono arrivata al nido, quella notte, ti ho riconosciuta senza vederti, ero ferma sulla porta. Il pianto. Il tuo pianto. Quando la sera vengo a prenderti alle 21, dall’altra parte della città, aspetto in corridoio la fine degli allenamenti, non mi affaccio mai in palestra. Detesti i genitori che lo fanno, che stanno lì per la durata dell’allenamento e guardano. Non hanno un cazzo di meglio da fare, dici, ti chiedi, mi chiedi, con quel tono misto di chi non sa se ha fatto una domanda o ha rivelato una realtà. Ti riconosco. So che stai combattendo tu, in quel momento, dal kiai. Il tuo kiai.
25/05/2011 hanno diagnosticato la mastocitosi cutanea alla mia piccola Pepe
Non si muore di mastocitosi, forse nemmeno esiste, per word non esiste. Esiste. Esiste. Tante macchie piccole o medie, come medaglie che nessuno sperava di vincere e prurito come avevo visto solo su alcuni tossici, da piccola, fuori dalle farmacie. Non si muore di mastocitosi ma avrei preferito non imparare la parola. Tu, Pepe, l’hai imparata bene e presto.
Perché devo mettere tanta crema?
Perché se mi gratto sanguino?
Perché devo prendere le gocce?
Perché dici sempre al dottore che non deve cambiarmi l’antibiotico? Cosa vuol dire potenzialmente allergica a un mare di farmaci? Cosa vuole dire potenzialmente allergica alle punture di insetti?
Potenzialmente, Pepe, potevi essere un disastro. E invece hai compiuto un miracolo. Un mese dopo averti inserita alla scuola materna ho avuto un incontro con la tua maestra e con la direttrice. Nella tua classe. Mi sono seduta su una sediolina e ho appoggiato i gomiti sul tavolino e dietro di me c’erano le ceste con i giochini di legno e per terra ancora le tracce di un lavoro fatto con le foglie e nell’angolo una cucina completa di elettrodomestici e subito dietro la sediolina della direttrice un baule con abiti che usavate per travestirvi e trasformarvi. Ascoltavo e pensavo a quel libretto di cartoncino spesso, Biancaneve, sul tavolino del nostro salotto, di lei che trova la casetta e le sette scodelline e le sette forchettine e sette bicchierini e sette lettini e si sdraia su due o tre perchè in uno solo non ci stava e solo un attimo perchè era stanca e invece era stremata e i sette nanetti la trovano così. Chi ha mangiato la mia insalata? Chi ha bevuto la mia acqua? E tu seria, ascoltavi senza ridere e io avevo i gomiti su un tavolino ed ero stremata, Pepe. Sono uscita da quell’incontro piangendo tutte le lacrime che avevo accumulato e messo da parte perché non erano la priorità. Non mi avevano detto nulla che io già non sapessi, Pepe. Nulla che già non mi avesse spinta a inserirti nella sezione primavera con sei mesi di anticipo, io, concettualmente contraria agli anticipi, io, figlia della maestra che per carità, i bambini non hanno bisogno di essere inseriti a scuola prima, io che ho dovuto metterti in quella sezione senza dire il perché a nessuno. Quando sono uscita da lì, Pepe, piangevo disperata perché sapevo che ero sola, tuo padre non avrebbe capito. Le priorità, le nostre, le tue e le mie bussavano con insistenza. Per uscire.
20/09/11 per controllare se la torta è cotta infilate uno stuzzicadenti nel centro, se quando esce è pulito allora la torta è cotta.
Adoravate la torta di carote, morbida e arancione. E le lingue di gatto, Cri, tu volevi sempre quelle. Raramente abbiamo fatto i biscotti, ho un problema con la pasta frolla. In realtà il problema è con il burro, lui sa che non lo amo e mi ripaga con la stessa moneta. Mia madre ci faceva sempre la torta di ricotta quando eravamo piccoli, piace anche a voi, adesso la fa solo quando arriva lo zio da Londra e allora la prendete in giro per questo e ve ne lamentate. A me per tanti anni hanno ripetuto che la cucina non era cosa mia, non faceva per me. Lascia perdere. Non era vero, sapete. Non era vero che non sono capace, che non sono in grado, che non mi appartiene. Era un’idea degli altri, non mia. Io detestavo la cucina esibita, la prova di forza a chi ha il mattarello più lungo e l’aringa più affumicata e la maionese meno impazzita e il brasato con più barolo, alla quale ero costretta durante le feste comandate o le domeniche a pranzo quando c’erano i miei nonni ospiti. E poi, penso, bisogna sempre distinguere chi fa cosa. Se io prendo il mio tempo libero e invece di leggere comoda sul mio divano pulisco broccoli e assemblo torte salate prevedendo la varietà settimanale del menù con l’attenzione di una dietista della mensa scolastica al primo incarico allora il risultato di quel che faccio vale molto, cioè vale di più della stessa cosa fatta da una che del suo tempo libero non sa cosa fare e affetta zucchine su zucchine su zucchine. Ragazze mie, guardate sempre chi fa cosa prima di dire che qualcosa non è fatto bene o con amore. A volte vi spacciano per amore un tempo che non saprebbero riempire diversamente, vi spacciano per amore la loro noia.
30/10/11 le parole di Pepe:
Tao= ciao
Upo=lupo
Boco= bosco
Chi= Cristina
Tutuu= pullman
Bobo= bambolotto/bambino
Moe= amore
Basta=basta
Cocca= albicocca
Io Pepe= io sono Pepe
Mai= mai
Ci sono parole che non mi piacciono e spero che non le userete mai oppure che le userete solo per scherzo, per gioco.
Bugia.
Non ustaele nemmeno per gioco o per scherzo. Non fanno ridere.
Zucchini. Per favore, per favore, per favore, dite zucchine. Non ne faccio una questione di correttezza, non mi importa se si dice zucchini o zucchine nella forma corretta. Non dite zucchini. Se il soggetto della vostra frase è singolare usate il verbo al singolare, se il soggetto della vostra frase è plurale usate il verbo al plurale. Non dite cose del tipo non c’è problemi. Dite: Non ci sono problemi/ Non c’è problema. Se i problemi ci sono non dite che non ci sono. Se vi gira di usare un dialetto, uno qualsiasi, usatelo e basta, senza fare un misto di italiano dialettizzato. Fa vomitare. Se dovete dire le parolacce, per favore, ditele. Non siate ibride. Non siate mezzosangue. Non state in mezzo. O le dite o non le dite. Mizzica, porca pupattola, eh la miseria, mi girano gli zebedei. Per favore. Fatelo per me, pensate a cosa direi io.
15/12/11 Pepe mi ha detto “mamma tu sei mio moe gande” (mamma tu sei il mio amore grande)
Ce lo diciamo di continuo. È tutto un parlare d’amore, ragazze mie. Io lo dico a voi che lo dite a me che non ve lo dite tra di voi ma va bene così. Mettiamo in chiaro che se saprete volervi bene nella vita molte cose saranno più semplici ma che non è detto che il solo fatto di essere sorelle sia sufficiente. Sarà una conquista anche quello, una medaglia, una potenzialità da alimentare. In ogni caso siate corrette, come dice il giudice di gara prima di un combattimento. Siate corrette. Io lo sono, con voi. Faccio un sacco di errori, molti li vedo, altri li scriverete voi su agende e saranno errori vaganti come pensieri vaganti come mine vaganti e mi colpiranno. Vi chiedo scusa in anticipo, spero non vi faranno troppo male, spero non siano irrimediabili. L’amore non basta come scusa, come giustificazione. L’amore non basta mai, ragazze. Troppo facile, altrimenti, basta amare amare amare e tutto va bene. No. Si ama, si improvvisa, si patisce, si ama, si soffre, si urla, si tace. Si ama, si cade e si resta stesi a non crederci. Ci si rialza, si ama, si guarda il mondo aprendo gli occhi durante un abbraccio, si chiudono gli occhi durante un bacio e si vede tutto. Non si ama mai e basta. Io vi amo, vi sveglio, vi cazzio, vi adoro, vi prendo in giro, vi allontano bruscamente, vi chiedo scusa, vi amo, vi ricordo, vi tengo dentro, vi amo, vi lascio andare, vi do le regole, vi aspetto, vi amo, ve lo avevo detto, vi amo, non fa niente, vi amo di un amore che non basta e se anche sembra che vi amo e basta no, non è vero. L’amore, ragazze mie, l’amore. Non si muore d’amore, si vive d’amore. Ricordatevi la frase che vi ho detto su quel balcone sorridendo verso papà, in fondo Giulietta è morta per un fraintendimento. Parlate chiaro sempre. L’amore, ragazze mie, l’amore è una parola che si conserva, un urlo che ricorda un pianto e non si dimentica, un pugno stretto grosso come il cuore, l’amore ragazze mie è una torta che aspetta un ritorno. L’amore è il vostro destino.