Di rumori, quarantene e pensieri (quarantennali)

 

Dormo di più ma non di notte, di notte mi sveglio sempre verso le tre o le quattro. Dormo di più dopo, alle sei, adesso che non suona la sveglia proprio a quell’ora e il mio cervello lo sa e allora si dà pace e mi concede di riaddormentarmi dopo aver passato in rassegna decine di pensieri, cento attacchi per uno scritto, il solo discorso da fare ma che sia una volta per tutte e amen se non verrà capito, le presentazioni bancarie di fine mese, il recupero crediti-pagheranno ancora? Saranno sempre gli stessi a non pagare, con o senza virus- stocazzo di disegno tecnico, un pentagono, da allegare, la prova invalsi di inglese, chissà la mia amica Simo del mare come sta, la verifica di scienze sull’udito e l’olfatto.
Non guardo l’ora, di notte, quando mi sveglio. Se non è ancora partito il riscaldamento allora è prima delle cinque. Dalla mia camera da letto sento l’impianto che si mette in moto. Quanto prima delle cinque non lo so con certezza, dipende, mi regolo. Dal numero di giri che faccio da un fianco all’altro. Allungo la mano, sfioro la sua, a volte me la stringe a volte no, non è detto che sia sveglio, a volte la stringe come un istinto, come un arco riflesso, come un neonato. Altre volte invece sento che tasta il lenzuolo fino a me, fino alla mia mano, piccoli passi con le dita che si allungano oltrepassando il confine tra i materassi, fino alle mie e allora stringo io, come un istinto, come un arco riflesso, come una neonata. E così mi riaddormento.

La casa ha una vita che ignoro nella quotidianità, l’altra, quella di prima del virus. Noi non diciamo corona virus o covid 19, diciamo solo virus. Ci basta. A volte diciamo vairus ma per imitare Marty Feldman quando interpretava Igor, lo diciamo anche con quella cadenza lì.
La lavastoviglie suona quando finisce il ciclo di lavaggio, lancia tre suoni come la sirena del traghetto quando entra in porto a Genova, che ritorni dalle vacanze, non stai partendo. È tempo di scaricarla e mettere tutto in ordine. La lavatrice fa una musichetta come la suoneria di un cellulare una di quelle che scarti quando prendi il telefono nuovo e scegli la suoneria come prima cosa, come se fosse la base per poi impostare tutto il resto, lampeggia e il display diventa nero. Tac. È lo sblocco dell’oblò, si può aprire.
Prima tutto questo avveniva mentre io ero in ufficio. O in auto. O a pranzo al giapponese, il giovedì, io e Cri da sole, lei parla parla parla io ascolto ascolto ascolto, prima di rientrare in ufficio, dove io lavoro ancora un po’, lei studia, poi andiamo a prendere Pepe che esce alle 16.15, dalla piscina della scuola perché ha nuoto all’ultima ora e dico sempre speriamo si sia asciugata bene i capelli.

Sono felice di non avere la sveglia, mi ha sempre rotto le palle. A me piace dormire, andare a letto presto e alzarmi tardi. Sapere che posso riaddormentarmi quando mi sveglio ed è troppo presto per tutto o troppo tardi, solo per quella cosa lì magari, ma tardi. E mi dispiace che le ragazze siano senza allenamenti, senza palestra, senza amici e gare e tornei e compagni e qualcosa da raccontare però mi piace non passare ore in tangenziale per accompagnarle e recuperarle e motivarle e sgridarle e nessuno ci crede che davvero lo faccio, mi piace cenare tutti insieme allo stesso orario e poi fare la doccia che in palestra non ci sono andata e non l’ho potuta fare e poi ricordarmi di disconnettermi dalla rete dell’ufficio o dire a lui di farlo, per favore scusa che già ieri mi sono dimenticata.

Il portone di ingresso viene sbattuto ogni volta che qualcuno entra o esce, roba da spaccare i vetri prima o poi. Bum. Bum. I miei genitori abitano al primo piano, noi al piano terra. Fine della casa, fine dei condomini. Ogni volta che mandano il cane in giardino il portone sbatte. Ogni volta che accompagnano mia nipote in giardino il portone sbatte. Non lo sanno accostare, lo lanciano. Fanno lo stesso con la porta blindata del loro appartamento, sopra il mio. Me li immagino che lo chiudono con un calcio all’indietro, con la gamba sollevata e un colpo di tallone, olè, e sbam, come se avessero sempre le mani occupate, come se non sentissero i rumori.

Quando Cri era appena nata mia sorella andava al liceo, usciva presto il mattino, alle 7.30. La camera di mia figlia era vicina al portone, ho provato a dire, spiegare, incazzarmi, motivare, chiedere, indicare, far presente, il problema. Ho suggerito che era sufficiente accostare la serratura e spingere appena. Che bastava fare attenzione. Metterci cura, interesse. Educazione. Poi è successo che lei ha smesso di andare al liceo, noi abbiamo iniziato ad uscire presto per andare all’asilo e il portone ha continuato ad essere percosso come se fosse colpevole e ci si aspettasse una confessione.

Anche tu, però, ti dà fastidio un cucchiaino che cade per terra.

Ho una tubotimpanite bilaterale cronica. Regalo di una bronchite mal curata sei anni fa, un inverno faticoso. Per la prima volta dopo decenni avevo la febbre e una tosse che mi apriva in due il petto, il medico mi aveva prescritto gli antibiotici e la cura l’ho fatta, tutta, per una settimana una compressa ogni dodici ore. Solo che l’ho fatta andando comunque in ufficio e a prendere la ragazze a scuola. Non posso più mettere la testa sott’acqua da allora e  ho un fastidio perenne in fondo alle orecchie, ogni raffreddore è una punizione. C’è di buono che non metto nemmeno più la testa sotto la sabbia e che si, adesso, ogni cosa che non voglio più sentire mi dà talmente fastidio che devo dirlo. O allontanarmi. Scusate, ho la tubotimpanite, i vostri discorsi mi arrivano come rebbi della forchetta che strisciano su un piatto. Scusate ho la tubotimpanite cronica, le vostre voci nei messaggi vocali di whatsapp sono fastidiose. Vi rendete conto, si, che sovrastimate il vostro timbro di voce? Il tono? E poi fate quel verso, quando parlate al microfono del telefono, appoggiate la lingua contro il palato un attimo prima di pronunciare la prima lettera della prima parola che è sempre “allora”:
Allora, la maestra dice che
Allora, ho pensato che possiamo fare così
Allora, vista la situazione
E questo schiocco di saliva iniziale. Che schifo.
Allora ditelo alla fine.
Si, mi dà fastidio anche un cucchiaio che cade per terra.
Scusate, ho la tubotimpanite cronica. Anche il fastidio.

Ho passato la vita da studentessa sperando che la scuola venisse chiusa. Per allagamento, per incendio, per una qualche calamità dalla quale tutti uscivano indenni ma la scuola veniva resa inagibile e come tale restava per un po’. Fino all’Università ogni domenica sera andavo a letto sperando in qualcosa del genere. Non è mai avvenuto.
Nel 1985, durante la grande nevicata, ero in prima elementare. Frequentavo la scuola del mio quartiere, come gli altri bambini del palazzo in cui abitavo, uscivo dal mio portone, che non sbattevo, civico 69 e andavo a piedi fino a scuola, civico 107, stessa via. Durante il tragitto sbucavano bambini dagli altri portoni, ciascuno con la propria cartella, si chiamava cartella, le mie figlie ridono, quando Cri è andata in prima non capiva, io dicevo cartella, lei diceva zaino.
Un nutrito gruppo di bambini sputati fuori dagli androni di marmo, con gli occhi cisposi, i più piccoli con la mano stretta a quella delle madre, i più grandi da soli ma bastava alzare lo sguardo ed erano affacciate, con la vestaglia, con il pigiama a controllare che non succedesse niente eppure impossibilitate a intervenire se qualcosa fosse successo. In classe noi eravamo 25, da lunedì al sabato, dalle 8.20 alle 12.30. I compagni erano quelli che ritrovavo ai giardini o a catechismo, nella parrocchia di zona, due vie dietro la scuola, dove Don Sebastiano chiedeva volontari per servire messa. Io non mi sono mai offerta. Avevo paura di stare da quel lato lì dell’altare, con tutta quella gente che guardava, se avessi sbagliato anche solo un passo se ne sarebbero accorti tutti.
Anche la maestra abitava nel nostro quartiere, veniva a scuola a piedi. Era severa e per niente materna. Sapeva che mia madre era una sua collega, anche se insegnava in un’altra scuola, in un altro quartiere. Mia madre insegnava al tempo pieno, matematica, aveva allievi che mangiavano solo a scuola, quel che preparavano a mensa. Aveva un’allieva con i pidocchi, me li ha attaccati dopo averli presi da lei, mi ha messo la testa in giù nella vasca e con il pettinino e l’aceto ha ridotto i miei sottilissimi e liscissimi capelli biondi in saggina per scope da cortile, imprecando come se l’avessi fatto di proposito. A prenderli. Ad avere i capelli così sottili che scappano via, mai una coda decente, mai una treccia che stesse ferma. Io a lei non li ho mai attaccati. La mia maestra mi diceva: se sbagli a mamma come lo diciamo?
Io non sbagliavo mai.

Quando le scuole sono state chiuse, per la nevicata di quell’inverno, l’avevamo incontrata per strada, nel quartiere, davanti a una cartoleria che vendeva anche giocattoli ma Natale era appena passato e il mio compleanno è in settembre e bisognava aspettare ancora un po’, lo sapevo, non chiedevo. Non l’avevo riconosciuta, ancora adesso ho difficoltà a riconoscere le persone fuori dall’ambiente nel quale le frequento di solito. Lei con il cappotto non l’avevo mai vista. O con i suoi figli. Senza la lavagna a farle da sfondo.
Guarda chi c’è. Si dice sempre così, guarda chi c’è. La mia maestra.
Sei contenta che non ci sia scuola?

Eh?sei contenta?

Sarai contenta no?
No.
Invece lo ero, ma pensavo fosse maleducato dirlo.
Quando siamo tornati in classe avevano tutti tante cose da dire, alzavano le mani agitandosi sulla sedia, sollevando la chiappe insieme alle mani insieme alle braccia. A me era venuta la febbre e quando avevo la febbre potevo magare il gelato anche se era inverno perché il mio pediatra diceva che era come una medicina.
In tutta la mia vita da studentessa io non ho mai alzato la mano.

Pepe gioca a tennis tutti i giorni. Si alza, inforca gli occhiali, si veste con la tuta del circolo, mi chiede di farle la coda. Ha i capelli lisci, ma spessi, più dei miei. Anche se scappano, meno dei miei, facciamo la coda alta, quattro giri di elastico, arancione. Scherziamo sempre sul fatto che con il giro finale restano incastrate anche due dita mie che poi spuntano sulla sommità della coda: cos’hai li? No niente, l’indice e il medio della mano destra di mia madre. Prende la racchetta ed esce dalla porta finestra del terrazzo.

I cani te li lascio dentro?
Se non ti danno fastidio portali fuori
no, non mi danno fastidio
ok
Io lavoro dal salotto, mi connetto alla rete dell’ufficio, basta una password ed è come se fossi seduta alla mia scrivania. Quasi.
Tum
Tum
Tum
Pepe palleggia contro il muro del salotto.
Tum
Tum
Tum
Palleggia da sola, ogni tanto prova a giocare con sua sorella ma lei non è capace, non c’è soddisfazione. Aspetta il sabato e la domenica per giocare con il padre, tirano una corda in giardino che fa da rete e si sfidano. In settimana invece palleggia contro il muro, dall’altro lato del mio computer.
Tum
Tum
Tum
Ho saputo di essere incinta di Pepe di martedì. Era il 9 dicembre del 2008, avevo 30 anni e una partita iva, una figlia di quindici mesi e un letto senza testiera. Quel giorno avevo un sopralluogo di mattina e un appuntamento anche di pomeriggio, insieme a Max, dovevamo andare in uno studio di commercialisti in via Susa. Tra il primo e il secondo appuntamento ho fatto la pipì sul test, mi sono lavata e mani e ho aspettato. Cri era con la tata, poi l’avrei portata dalla nonna, poi sarei tornata a riprenderla. Positivo.
A lui l’ho detto sulla porta del suo ufficio, quello stesso giorno.
Ho iniziato a stare male a Natale. Iperemesi gravidica. Pensavo fosse maschio, pensavo che il mio corpo rifiutasse di avere un figlio maschio, di diventare madre di un figlio maschio e allora mi costringesse a vomitare dieci volte in un pomeriggio come per liberarmi da un pericolo, da un veleno. Ho pensato che alla prima ecografia il dottore mi avrebbe detto che non c’era niente, solo un grumo di cellule senza battito, uno schermo nero come la lavatrice dopo la centrifuga e lo scarico, nero lo sfondo, nero il contenuto, niente. Ho pensato che me lo meritavo, nel caso.
La prima volta che ho visto Pepe era di mercoledì, era il 7 gennaio e c’era la neve, tanta da aver paura di scivolare e allora ho aspettato che lui parcheggiasse e mi sono fatta aiutare a scendere e appoggiandomi al suo braccio, come un instinto di sopravvivenza, sono entrata nello studio del mio ginecologo senza sbattere il portone. Lo schermo era nero, sembrava vuoto e invece era pieno.
Ecco il battito, direi che sta benone, congratulazioni.
Tum
Tum
Tum

Cri si chiude a chiave in bagno. Da poco ma ha iniziato e non la smetterà più. Mentre lavoro la sento alle mie spalle che entra e clack chiude. Lo fa velocemente, un giro secco di chiave. Altrettanto velocemente riapre e sguscia fuori verso la sua stanza.
Quando si cresce le ossa si allungano, i muscoli si adeguano a quello scheletro cambiato, i tendini, i legamenti, le spalle si curvano a volte e altre si aprono, è come per le risate e le lacrime, a volte le une a volte le altre, a volte insieme. Quando si cresce ci si allontana da tutti, come un arco riflesso, quando si cresce il corpo fa clack solo che nessuno lo sente, bisogna stare zitti per accorgersene, bisogna esserci passati e ricordarlo.
Va in camera sua. Avere quasi tredici anni e una camera solo per sé significa passare la quarantena in isolamento. La prendo in giro, sorride, a volte ride.
Sento le lezioni, le voci dei professori che si barcamenano con la didattica a distanza, lei che cerca di mettersi in una posizione per cui non si veda il disordine della stanza e nemmeno il colore della parete o i biglietti che ha attaccato con frasi ricopiate dai libri che legge o frasi sue, scritte con la grafia spigolosa, attaccati con lo scotch al muro.
Le lasci appendere foglietti così sul muro?
si
e sugli armadi?
si
E sulla porta?
si
Perchè?

Perché non trovo una motivazione valida a sostenere un no. Se dovessi dirle di no e se lei dovesse chiedermi perché io non saprei cosa rispondere e allora vuol dire che non so perché non dovrebbe farlo e allora che lo faccia. Perchè io non potevo.
Riemerge dalla sua stanza ogni tanto. In tuta, prende la corda per saltare, i pesi ed esce. Si allena in giardino, combatte contro un avversario immaginario ma che le somiglia, rientra. Senza il karatè si spegne, io non ce l’ho mai avuto un fuoco così da alimentare.
Ogni tanto si siede con noi, mentre seguo Pepe con i compiti, con le lezioni su YouTube, con le schede degli aggettivi dimostrativi in inglese, con la battaglia di Benevento e il sussidiario che non racconta come furono sconfitti gli elefanti, dice solo che a un certo punto i Romani ebbero la meglio su Pirro.

Io non sono stata in congedo per maternità. Allattavo, mi tiravo il latte con il tiralatte manuale appoggiato sul tavolo della cucina, ero sempre di corsa, su e giù per andare all’appuntamento fissato e tornare per la poppata, il loro passeggino rosso è stato dietro di me in ufficio, dondolato con il piede mentre le mani battevano sulla carta intestata preventivi che si concludevano con un extra sconto riservato.
Non era vero. Era un formula uguale per tutti, non ho mai riservato niente di speciale o di extra a nessuno. Scusate, non ho nemmeno preso il congedo per maternità. Scusate.
A volte arriva e mi si butta addosso, lunga lunghissima come suo padre, mi si sdraia addosso e resta ferma, le massaggio la testa, passo polpastrelli tra i capelli, lisci e sottili, castano chiaro come suo padre ma grassi come i miei, vanno lavati di continuo, dalla base della nuca fino alla fronte e poi all’incontrario. Chiude gli occhi, mugugna, se allontano la mano me la stringe, come un istinto, un arco riflesso, come un neonato.

 

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Personaggi in cerca d’autore

 

Accade, a me accade, di essere seduta su uno scoglio piatto e di lanciare pietre in mare. Sassolini, grigi, ovali, tondeggianti, striati di bianco, neri lucidi o opachi, mai più grossi del mio palmo. Io ho le mani piccole. Normali.
Lancio e guardo il sasso cadere, non cerco di farli rimbalzare, credo ci sia un nome, fisico, per il fenomeno dei cerchiolini, lo ignoro. Io lancio pietre per vederle andare giù.
Accade, a me accade, di lanciare pietre per fare buchi. Nell’acqua. Sulla pelle di chi fa il bagno proprio lì sotto. Io controllo, comunque, in genere. Io sto attenta ma accade, a me accade, che qualcuno spunti dall’acqua e mi dica che l’ho colpito. E rispondo che c’è tutto il mare a disposizione, perché venire proprio sotto la mia linea di tiro? Rispondo così, in genere.
Lancio pietre solo per farlo, mica per altro. Lancio pietre per pensare senza che sembri solo quello, proprio quello.
Accade, a me accade, di lanciare pietre senza essere seduta su uno scoglio piatto e senza avere il mare appena sotto i piedi. Eppure le lancio. Lo faccio quando sono sola ecco perché io ho bisogno della mia solitudine più di altri o in modo diverso da altri, no, più. Più di altri. Io non conosco un’altra persona che abbia il mio bisogno di solitudine, che abbia la mia voglia di solitudine, il mio amore per la solitudine. Non conosco un’altra persona a cui dia così fastidio quando arriva qualcuno a dire la sua, a parlare, a interrompere un pensiero, un lancio, un momento solitario.
In questo periodo non sono sola mai. Lavoro da casa, male, le ragazze sono sempre con me. Sono distratta, non organizzata, in balia delle cose più urgenti e tralascio tutto il resto. Non mi piace. Ho trovato almeno quattro errori nell’ultima settimana, miei, tutti miei. Niente di imputabile a un sistema che non ha funzionato, solo a me e alla mia mancanza di solitudine che mi fa sbagliare. Non conosco un’altra persona a cui dia così fastidio commettere errori. Però, non conosco un’altra persona così tranquilla, ormai, da dirlo. Sento molti, troppi, in questo giorni ripetere che andrà tutto bene e che quando tutto questo sarà finito faranno, diranno, andranno. Io non so come andrà.
Io andrò a sedermi sullo scoglio. E sarà come in un sogno, però, come quando racconti “ero a casa di mia nonna che non era proprio casa di mia nonna e c’erano i miei cani che non erano proprio i miei cani”, così. Il mio scoglio sarà in una stanza chiusa, con una finestra con il davanzale di marmo e gli infissi verdi un po’ scrostati. Senza termosifone sotto la finestra. Qualche spiffero, si, ma sarà primavera e non mi darà fastidio.
Starò seduta, comoda, su una poltrona rossa, con i braccioli larghi, avrò i piedi sotto il culo e le ginocchia messe di sbieco. Si, così per me è comodo.
Lancerò pietre.
Aspetterò.
Ho bisogno di stare seduta, così, ad aspettare che succeda qualcosa, ma non qualcosa così, una cosa purché sia, no. Non so cosa ma lo saprò quando succederà e per farlo succedere io devo aspettare. Che loro due entrino in scena, perché adesso, in questo periodo, negli ultimi giorni, sono lontani, ne ho quasi perso traccia, li cerco ogni tanto, mentre lavoro, male, e mi distraggo, magari arrivano e io non posso, gli dico che devono aspettare. Oppure la sera, in doccia, e mi sembra quello il momento in cui sono più vicini, a me e tra di loro.
Loro si chiamano Stefano e Nina e hanno una storia. Come ciascuno di noi, certo. Solo che la loro storia la sto scrivendo io, quando sono sola, quando lancio pietre in mare e qualcuno mi rompe le palle con cose che non c’entrano invece di allontanarsi per non farsi male.
Aspetterò che Stefano e Nina facciano qualcosa, ma non qualcosa così, devono fare quella cosa lì, solo quella, quella che devo riconoscere e fermare, intercettare, afferrare. Hanno un nome, altre storie che ho raccontato non lo prevedevano, me ne sono resa conto solo ora, invece loro hanno un nome.
Stefano.
Stefano è il nome del mio primo amore, anche se lo chiamavo Voga, lui si chiama Stefano. Si era fatto tatuare il nome, sulla caviglia, in giapponese. Diceva lui. Io gli avevo suggerito che potevano anche averlo preso per il culo, “magari ti ha scritto sono un pirla”. Si era offeso o qualcosa di simile, nessuno gli aveva ancora prospettato questa possibilità, chi lo farebbe? Io.
Parlando di me diceva “la Sonia”, da milanese dell’hinterland, quelli che son tutti di Milano e poi sono di Cinisello. E poi diceva “la una”, così, “è la una andiamo a pranzo?”, aveva la voce roca e pizzicava la erre. Una volta, una delle ultime in cui ci siamo visti mi ha detto che poteva arrivare da me solo alla una, ma era l’una di notte e io lo avevo aspettato e lui era venuto davvero.
Stefano è stato l’unità di misura dei miei innamoramenti successivi per molto tempo. Quanti Stefani? Qualcuno mezzo. Il massimo è stato due, ma era un calcolo falsato, come la temperatura misurata sotto l’ascella quando il termometro è guasto. Per capire la temperatura vera devi mettere il termometro nel sedere, dice il pediatra. Che è un po’ come dire che devi prenderla nel culo per sapere come stai. Finché il punto è stato di sapere, capire, misurare, quanto amavo, Stefano e quell’arrivare da me alla una di notte è stato l’unità di misura.
Poi il punto è stato come amavo. Non quanto.
Il primo nome a cui ho pensato è stato, comunque, ancora il suo. Il primo personaggio a cui dare un nome l’ho chiamato così o forse si è presentato così, lui. È arrivato e aveva quel nome, mica puoi cambiarglielo. Stefano non è milanese, non ha tatuaggi soprattutto non si tatuerebbe mai qualcosa in giapponese per il timore di essere preso in giro, a lui non piace non sapere quello che lo riguarda, indossa maglioncini con la camicia sotto, la camicia ha le iniziali ricamate. Nella sua vita le cose importanti, quelle importanti per ogni uomo insomma , che sono sempre le stesse, sono arrivate all’improvviso. Anche Nina. Soprattutto Nina. È stata la voce di Nina, è stato quella sensazione data dalla sua voce, una moneta incastrata nel doppio fondo della tasca del cappotto quando c’è un buco nella stoffa e lei scivola giù. Sai che c’è ma non puoi prenderla. La senti ma è irrecuperabile.
Nina è arrivata, sotto braccio a lui, con un incedere dal sapore un po’ antico, come una zuppiera di ceramica, superstite di un servizio regalo di nozze, sopravvissuta a traslochi e passaggi di mano in mano fino al suo posto su una credenza in legno, al centro, che si veda. È blu, il decoro della ceramica, almeno così dice Nina, ma non ricorda bene, perché questo è il punto. Questo è il problema. Nina si chiama così, due sillabe, un diminutivo di quale nome non si sa, quello di sua nonna, due sillabe e niente più, me lo ha detto lei. Niente più.

Nina sa tante cose, tante davvero non solo come chi ha studiato molto ma come chi ha osservato sempre e ha sempre cercato la verità delle cose senza mai opporre resistenza a quelle stesse cose. Nina ama, ha amato, Stefano come nessun altro al mondo e questo lui lo sa e lo sa dal primo momento, per quello stava scappando, all’inizio, perché come poteva reggere quel peso anche se non lo portava lui? Invece era rimasto. Sorride, lei, mentre lo racconta. Lei ha preso questa abitudine, adesso, da quando sa del problema che in fondo lei se lo aspettava da sempre, è una questione ereditaria, anche quel modo di amare e un problema ereditario, come certi nomi. Lei racconta e lascia detto e si perde nei particolari finché riesce a venirne fuori da sola, a volte non riesce più, di già, allora lui le suggerisce la parola, inizialmente hanno cambiato la grammatica per non ferirsi e poi hanno deciso che no, loro non sono così, non girano intorno alle parole scegliendo cosa non dire più. I ricordi si chiamano ricordi e se non c’è più quella parola a disposizione allora ci va qualcuno che li conservi. Lo farà lui.
Su questo sono entrambi d’accordo.
Invece è rimasto, si, ecco. Questo stava dicendo. È rimasto mettendoci un po’, comunque, come tutte le cose importanti nella vita, di Nina, importanti per lei e che sono importanti nella vita di ogni donna. O forse no.
Stefano è rimasto e questa è una storia lunga una vita intera eppure appena cominciata, una storia nella quale nessuno dei due alla fine avrà più a che fare con se stesso. Nessuno dei tre.
Io sono seduta, li osservo. Li ascolto. Aspetto che facciano quella cosa, solo quella. L’azione che manca. E poi saranno pronti, saremo pronti.
Aspetto la mia solitudine e che le parole cambino il senso che hanno sempre avuto, osservo Nina mentre le sente allontanarsi e soffre, senza che nessuno-lui-possa fare qualcosa davvero,  le vede che si staccano quelle parole così familiari, vanno via come la pelle dopo una scottatura, lui passa il palmo delicato sulle spalle bruciate di lei , gli restano pezzi di pelle, quella di lei, la sua, non le distingue più, questo succede adesso e non è mai solo pelle, sono i figli, i loro, sono le risate il mattino nel letto prima che la giornata inizi per tutti tranne che per loro, sono gli oggetti della loro casa che perdono di senso se spostati, le lacrime per quel litigio, quale, quello, ah si, il vapore sulle pareti della doccia, il punto interrogativo che lei tratteggiava prima di uscire e asciugarsi e che restava lì, dietro le sue spalle, come tutto ormai, la paura di restare senza l’altro, quel frugare in tasca per sentire la moneta, nel buco.
E trovarci un sasso. Accade.

 

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