Giorni buoni

Il piede lungo come la piastrella, la piastrella lunga come il piede. Corrispondenza perfetta. A questo pensa la bambina mentre mette un piede nella piastrella e poi l’altro nella piastrella successiva e poi rimette il primo piede nella piastrella che viene dopo e poi ancora l’altro piede nella piastrella che segue senza interruzione. Senza fuga. Lo fa anche da seduta, piega la gamba, ginocchio sotto il mento, piede nella piastrella, piega l’altra gamba, altro ginocchio sotto il mento, altro piede nella piastrella. Le serrande tirate giù, un adesivo di plastica a ricoprire i vetri inferiori della porta finestra oltre la quale c’è il balcone, lungo e stretto, che affaccia sul cortile, a far da elle c’è il balcone dei vicini, Laura si chiama la mamma dei vicini, sorride e guarda la Carrà o Corrado, all’ora di pranzo. Sono all’ultimo piano, il nono, in primavera Laura si affaccia per controllare le sue figlie che giocano in cortile. Ogni tanto anche la bambina gioca in cortile con loro e con gli altri bambini, poi il signore del primo piano si affaccia e urla, la lattaia esce dal retro del negozio e urla. Il problema è il pallone dei maschi, finisce sulla macchina coperta dal telo grigio di uno, sbatte sulla porta e sulle bottiglie di latte vuote infilate in ceste rosse di plastica dell’altra . La lattaia si ubriaca, dicono, per quello le strisciano le parole in bocca, forse perché è veneta, dice un ragazzino che è più grande e sa cose che gli altri non sanno, i veneti si ubriacano. Ogni tanto anche la nipote della lattaia gioca in cortile, nessuno le chiede se sua nonna beve ma il ragazzino, lui, lui si, le chiede se è vero che sono veneti. Lei risponde di si, lui guarda gli altri ed ha lo sguardo scafato, calcia il pallone, il signore del primo piano si affaccia, tutti scappano dietro le macchine parcheggiate, ridendo.
Adesso no, però. Adesso le serrande stanno giù. Se suo fratello sbatte contro il vetro non si taglia, c’è la plastica adesiva che impedisce alle schegge di cadere all’interno. Suo fratello corre ma soprattutto salta. Dal divano a terra, da terra al divano, dal divano al tavolino, dal letto alla scrivania, salta e non sta mai fermo. È piccolo, ci vuole pazienza con i piccoli. La bambina non sa cosa sia la pazienza pensa che sia come aspettare. Allora si mettono lì, a terra, con i Puffi, con le macchinine quelle che cambiano colore se le metti nell’acqua fredda, con i Robot con le braccia che si trasformano, seduti a terra, con le serrande abbassate che a cadere giù dal nono piano dopo non ti raccolgono nemmeno con il cucchiaino le dice sempre sua madre e la bambina si immagina la scena, mai dal lato del cortile, sempre dal lato della strada, dove c’è la sua stanza, sempre davanti al portone, tra l’ingresso della latteria e quello della panetteria, si immagina sua madre con un cucchiaino in mano che no, non riesce a raccoglierla, perché la bambina pensa sempre che sarà lei a cadere, nel caso. Non sua madre. Sua madre è sdraiata sul divano, sotto un plaid di lana pruriginosa a scacchi, con spesse frange alle estremità, debole, sente il vociare di sottofondo dei due che giocano e non sa che la bambina non gioca. Mette il piede nella piastrella, la piastrella lunga come il piede, il piede lungo come la piastrella, un piede dopo l’altro, una piastrella dopo l’altra. Corrispondenza perfetta. Senza fuga. In un tinello con un cucinino, parole che non esistono più che indicano uno spazio che non esiste più, un piede dopo l’altro guarda suo fratello e aspetta. È così che si fa con i piccoli.

La donna le abbraccia entrambe, le sue figlie. Sul divano sotto le coperte di pile, morbide e lisce, senza disegni, rombi, scacchi, senza fastidi o pruriti. Guardano un film che fa paura, Lo Squalo, è un sabato pomeriggio, sono le tre così-si sono dette- per questa sera abbiamo smaltito lo spavento e andiamo a dormire tranquille. Ridono tutte e tre e si accovacciano sotto le coperte, sistemano i cuscini dietro la schiena, la donna in centro, le due figlie sotto le braccia, sembra un uccello con le ali spalancate e la figlia più grande schiaccia il tasto play e prende in giro la madre e la sorella e la figlia più piccola si stringe al fianco della madre e dice “dimmi quando posso guardare” e la madre dice “non lo so perché anch’io mi copro gli occhi” e ridono, ancora, tutte e tre, allora la donna capisce che può chiuderne solo uno di occhio, che deve guardare e dentro di sé ripete tanto è tutto finto è solo un film, il pescione è di gomma, ma è lei che deve dire adesso si, adesso no, è a lei che tocca essere forte, su quel divano. Poi l’imprevisto, lo squalo che emerge con la bocca mostruosamente spalancata e nessuna delle tre se l’aspettava, che la figlia grande aveva chiesto una fetta di torta, allora un pezzetto anche la figlia piccola e allora si, la donna le ha tagliate e appoggiate su due piattini da frutta e ha staccato un pezzo di scottex ciascuna dal rotolo sulla penisola in cucina ed è tornata a sedersi, lì in mezzo a loro, e le ragazze hanno detto che era venuta davvero buona e le hanno detto “brava, mamma, sei stata brava” e il cagnolino le era saltato in braccio un po’ per amore e un po’ perché c’era cibo sul divano ed era stato allora che era comparso anche lo squalo, quando mangiavano la torta sul divano con il cane e non si erano coperte gli occhi e non avevano prestato attenzione alla musichetta e allora avevano urlato tutte e tre insieme e il cane non capiva e si era prodigato in leccate consolatorie sulla faccia di una, dell’altra, della terza e poi ancora dall’inizio e quelle urlavano e ridevano contemporaneamente e viste da fuori sembravano sceme ma non c’era nessuno a vederle da fuori. E comunque la corrispondenza era perfetta.

È autunno, forse inverno, si portano cappotti, si va all’asilo e si resta in classe, non si va fuori a giocare. La bambina deve andare dal dottore, di nuovo. Lei va spesso dal dottore, sempre diverso. Tutti dottori gentili, con il camice bianco, parlano con i suoi genitori e poi la fanno, sempre, sedere su uno sgabello che gira e gira e gira e gira e gira e gira finché non è dell’altezza giusta. L’altezza giusta è quella che le consente di poggiare il mento e la fronte contro un macchinario freddo. Dall’altra parte il dottore le dice di guardare e dire “dov’è il cane? Dentro la casa o fuori dalla casa? Di che colore è il tetto della casa? Il cane è uno o sono due? “Quel giorno però è diverso. Si siede su una sedia grande come una poltrona, il dottore spegne la luce e in fondo alla stanza si illumina la parete e compaiono le lettere. La bambina va all’asilo, si, ma sa riconoscere le lettere. E le sa mettere insieme una dopo l’altra: t e l e f o n o, f r a t e l l i n o, c a m e r e t t a. In questo modo non balbetta, una lettera dopo l’altra con calma. Con i numeri no, non è capace, non le interessano i numeri, non c’è niente che possa dire con i numeri. Le indica una lettera difficile, ha l’occhio sinistro tappato, è la c dura. La K. Il dottore ride, non ha mai visto niente del genere, una bambina così. La c dura, la c dura fa ridere. La bambina non ride. La bambina non parla se non le rivolgono domande. La bambina non pensa che la c dura faccia ridere. Le tappano l’altro occhio. La bambina non vede più. Il dottore la fa scendere dalla poltrona e le dice parole che lei non capisce tutte insieme sa solo che lui in mano ha un cerotto marrone enorme, quadrato-di che colore è il cerotto che ha in mano il dottore? Di che forma è il cerotto? Lei piange. Non vuole piangere davanti agli estranei e il dottore è un estraneo ma dietro di lui ci sono mamma e papà e allora lei piange perché siano loro a vederla ma loro non possono farci nulla e allora il dottore fa quello che deve e le incolla il cerotto quadrato e marrone sull’occhio destro. Il solo dal quale vedeva, adesso non c’è più distinzione tra colori, tra lettere, forme, adesso che la portano in quel negozio bellissimo e le fanno scegliere quello che vuole che mai, mai una cosa così, mai era successo di poter scegliere e la Barbie che ha tra le mani è seduta su una poltrona viola, come la poltrona su cui era seduta lei prima e la bambina la sceglie e sbaglia a dire il colore del vestito, no, non sbaglia, non lo vede e la commessa non capisce e la madre si commuove e poi vanno a prendere il fratellino, se non si è schiantato contro qualche finestra, a casa dei nonni e lì c’è anche suo cugino grande che non c’è quasi mai perché vive lontano e viene solo quando i suoi genitori stanno per lasciarsi finché non si lasciano davvero e allora lui non viene più, resta con il padre e c’è anche lo zio, un ragazzino con pochi anni in più della bambina, nemmeno dieci, nove mal contati, e la nonna apre la porta e vede la bambina con il cerotto marrone e la butta sul ridere e il fratellino no, non si è schiantato e lo zio e il cugino quando la vedono iniziano a ridere e le dicono di nascosto che ha il cerotto sull’occhio sbagliato perché le hanno lasciato scoperto quello storto e lei vorrebbe piangere e sente le lacrime e la pelle che tira intorno all’occhio per colpa della colla bagnata e vorrebbe che sua madre gli mollasse un ceffone a quei due, che sua nonna gli dicesse di levarsi di torno ma non lo fanno e allora lei non piange, perché no, perché non piange davanti agli estranei. Così ha deciso, ora che non può più distinguere le persone. Sono tutti estranei.

Suo marito le aveva telefonato che era una mattina normale. Alla fine della telefonata niente era stato come prima. Faceva caldo, era maggio. La donna aveva risposto distrattamente, sapeva che era lui, non aveva tolto lo sguardo dal computer, pensava le chiedesse qualcosa di lavoro invece aveva accavallato frasi sconnesse, qualcuno non veniva alla festa della figlia maggiore, chi non si capiva, il perché non si capiva.
“Calma.
Racconta con calma.” Aveva detto lei.
Ma lui non era agitato, lei lo sapeva, lei lo conosceva. Era incredulo e a lui non piaceva essere incredulo perché non vedeva i contorni della sua stessa incredulità e a lui non piaceva non vedere i contorni a meno che non fosse lui a disegnare senza contorni, come i Macchiaioli, a meno che non fosse lui a decidere che la linea che delimita il tutto è l’orizzonte, in barca, al sorgere del sole, quando si leva l’ancora e si va via di bolina.
Aveva raccontato quel che era accaduto.
Lei si era tolta gli occhiali e fatto quel gesto con l’indice e il pollice della mano destra di massaggiarsi il naso, tra gli occhi, dove ha i solchi lasciati dalla montatura, nonostante le compri sempre più leggere porta gli occhiali da troppi anni per non aver segni.
“Va bene-aveva detto lei- Tizio e il suo clan non verrà alla festa, meglio stiamo più larghi. Sento il ristorante e rimoduliamo i tavoli, poi spiegheremo alla bambina il perché. C’è un perchè? “Aveva chiesto lei, ancora.
Tizio aveva detto “niente di personale”.
Lei aveva riso. Niente di personale è già qualcosa di personale. Tizio aveva blaterato cose che riguardavano lei, Tizio si era fatto un’idea, ecco, aveva detto proprio così, che si era fatto un’idea, aveva poi fatto riferimento al fatto che lei non avesse ambizioni lavorative, che sua moglie lei invece guadagnava molto e che comunque non era niente di personale, le aveva riferito suo marito. La donna se lo immaginava Tizio che diceva “niente”con quella dizione stentata che sembrava dicesse gnente e gli si accumulava la bava agli angoli della bocca cadente. Non mi hai fatto gnente faccia di serpente, non mi hai fatto male faccia di maiale. Si ,Tizio da bambino doveva essere stato uno sputazzone del genere.
“Scusa, se si preoccupa di quanto guadagno io la cosa diventa personale, direi. Ad ogni modo, mi stanno facendo un favore grande come una casa. Se tu non la vedi così mi dispiace molto per te, ma io sono felice, si sono autoeliminati e mi hanno tolto una serie lunghissima di rotture di coglioni sotto forma di inviti e controinviti per il futuro.”
Questo era stato in sintesi il discorso di lei.
Lui aveva riattaccato.
Lei aveva scritto una mail. Una soltanto. Alla quale non si aspettava risposta, altrimenti avrebbe telefonato. Ma no, non voleva sentire risposte. Voleva dire esattamente quello che pensava, senza nemmeno omettere la parte del favore, travestendola solo un po’. Aveva cliccato invio senza la minima esitazione come si preme un grilletto quando sai che si tratta di legittima difesa. Non per lei, il pericolo non era per lei. Per sua figlia. Per sua figlia avrebbe preso a ceffoni anche il padreterno ammesso che esistesse e che si azzardasse a tirare in ballo sua figlia, figuriamoci Tizio o chi per lui, perché il punto era- è- solo uno per quella donna: i bambini non si toccano. Sua figlia non la sfiori nemmeno per sbaglio. Mai. Perché non c’è niente di più personale.

La bambina teneva la scala ferma, arrampicata in cima sua madre smontava le tende dai ganci per lavarle. Ogni gancio una parolaccia.
“Mamma non si dice.”
“Si che si dice. Quando ci vuole ci vuole.”
“E quando ci vuole?”
“Ci vuole quando ci vuole.”
Sua madre era campionessa di tautologia.
Perché si, perché no, perché lo dico io, perché due non fa tre, perché è così, perché perché perché.
La bambina guardava le caviglie di sua madre, erano magre, ossute. I piedi con le vene blu in rilievo infilati nelle ciabatte appoggiate, instabili, sui gradini uno dopo l’altro, lei con le gambe divaricate e le braccia, magre ma non ossute, a tenere ferma la scala.
“Se cadi?”
“È un casino, se cado. Ma non cado.”
La bambina pensava che sua madre potesse cadere. Suo padre no, non sarebbe mai caduto. Suo padre aveva la pancia. Le caviglie spesse. Le braccia grosse, tirava giù i materassi e li metteva in corridoio per insegnarle a fare le capriole anche se lei era imbranata fisicamente. Così dicevano. Non era coordinata. Era pigra. Anche la maestra diceva no, no, a lei datele solo che da scrivere. Lei sperava che non la facesse leggere a voce alta, in classe. Oh, la bambina leggeva meglio di chiunque altro e più di chiunque altro. Ma nella mente. In silenzio.
Alla bambina non piaceva quello che sentiva dalle persone, quando dicevano che lei era imbranata. Lei aveva paura ma nessuno le aveva mai chiesto se era così. O perché? Lei non avrebbe mai risposto ho paura perché ho paura. Lei avrebbe spiegato.
Alla bambina non piaceva quello che sentiva delle persone, di alcuni. I suoi zii per esempio, non le piacevano. Facevano quella cosa di guardarli, di guardare suo padre, come se fosse povero.
Suo padre aveva sempre macchine che facevano ridere i suoi zii. Però in tutte le macchine, gli zii non lo sapevano, c’era un tasto che era il tasto del Turbo. A un certo punto mentre lui guidava chiedeva  alla bambina e al fratellino “metto il Turbo?” E loro urlavano di siiiiii e la madre diceva “dai per favore” e il padre metteva il Turbo. Davvero, andavano davvero più veloci quando schiacciava quel tasto e la bambina e il fratellino si schiacciavano tutti contro il sedile, la schiena appoggiata indietro che sembrava una scena di Supercar. E poi loro andavano sempre al mare. Non avevano mai saltato un’estate, mai. Il padre caricava tutti i bagagli nell’auto, la madre sbrinava il frigo e lo lasciava aperto, poi partivano, di notte così la bambina e il fratellino dormivano per lungo, i piedi di uno in faccia all’altra e la corrispondenza era perfetta. I poveri mica vanno al mare tutte le estati. E poi i poveri possono smettere di essere poveri se diventano ricchi, sapeva con certezza la bambina. Invece quelli che sono stupidi non possono smettere di essere stupidi, come il suo compagno Diego, che la maestra lo aveva messo accanto a lei sperando che per osmosi succedesse qualcosa, evidentemente sapeva la maestra che la stupidità non è contagiosa mentre sperava che l’intelligenza lo fosse ma purtroppo per Diego non accadeva niente. La bambina pensava che essere bocciati così tante volte come i suoi parenti e andare a scuola per fare due anni in uno e copiare agli esami e farsi scrivere i temi- come si fa a farsi scrivere un tema , come si fa a prendere le idee di un altro– non fosse una cosa di cui vantarsi. Eppure si vantavano o qualcosa di molto simile al vantarsi, a sembrare furbi mentre visti da fuori si è solo stupidi. Però succedeva sempre che sua madre bilanciasse. “Si è stato bocciato, ma l’anno dopo è andato bene.”
Certo, ha ripetuto. Il sei dell’anno dopo era dato dalla somma dei due anni.

“Non va bene a scuola perché la scuola non è fatta per persone come lui.
Non saprà fare l’analisi logica come la sai fare tu ma almeno non tiene sempre il muso come fai tu.”
E così via, la bambina sapeva che per gli altri esistevano sempre delle giustificazioni e aveva il sospetto che se avessero dimostrato che lei sbagliava, se anche lei era sbagliata, allora avrebbero sanato gli errori degli altri. Compresa sua madre.

La donna macina chilometri su chilometri, conosce quel tratto della tangenziale ad occhi chiusi. Le sue figlie sono agoniste. Lei si riempie la bocca con la parola. Non le frega un cazzo delle prestazioni in gara, le piace il suono della parola agonista, la sente bella larga in bocca, da una guancia all’altra, agonista, agonista,agonista.
Tanti anni fa si era accomodata su una poltroncina di velluto davanti a una dottoressa senza camice, magrissima, ossuta, con gli occhi azzurri e spalancati come una bambola seduta e le aveva detto tutto d’un fiato “sono qui perché mio padre ha paura che ammazzi le mie bambine”. Aveva scelto la parola ammazzare, non aveva detto uccidere, uccidere suona delicato, lento, accettabile. Ammazzare è duro, fa paura a chi lo ascolta, fa paura a chi lo dice, non a lei. La donna è abituata ai suoni duri, alle zeta, ne ha due nel cognome, una fatica da che ha memoria, quel cognome sempre sbagliato da tutti, la vergogna di sentirlo pronunciare a voce alta e di dover correggere, non osava, quante volte ha lasciato che lo sbagliassero come se fosse colpa sua.
La donna è una formatrice, va nelle aziende, raggruppa i lavoratori e fa formazione nelle materie in cui è specializzata. Parla davanti agli altri e le sembra, ogni volta, un miracolo, un suo piccolo e fottuitissimo miracolo e alla fine tira su il dito medio a se stessa, a una serie indistinta di soggetti che le hanno abitato la testa e dice “si, cazzo. È andata. Parlo e scelgo le parole e questi mi ascoltano e faccio l’appello e faccio attenzione ai cognomi”, soprattutto a quelli stranieri, a quelli dell’Est che sono difficili e che non pensino che fa lo stesso, che si possono sbagliare così i cognomi e quando li pronuncia cerca con lo sguardo la persona e dice “spero di averlo pronunciato correttamente”. E lo dice pensandolo. E riconosce lo sguardo di ringraziamento, per quella che è una cura, un’attenzione stupida che costa niente.
La donna dice un sacco di parolacce perché le pensa, non c’è verso, non riesce a pensare senza le parolacce. Le pensa, le dice. Le sceglie anche se poi usa sempre le stesse : sposta quella cazzo di sedia, prepariamo sta cazzo di cena, se non importa a te della gara sai a me che me ne fotte, fai come ti pare ma non mi parlare di quella merda, pensala come vuoi ma non mi sfrangare i coglioni.
Sembra pesante viverci insieme ma in realtà le dice in un modo che poi uno non se ne accorge più. Una volta la mamma di una ragazzina che si allena con la sua figlia maggiore le ha detto “le dici con eleganza”.
La donna ci tiene che le figlie si allenino e abbiano passione. Non sono imbranate, sanno fare capovolte e stare in equilibrio dai tempi della scuola materna, frequentavano un corso extracurricolare di babygym, attività motoria in inglese. Così lei si sentiva una grande mamma, a loro diceva “jump like a monkey” la sola cosa che avesse capito durante la lezione aperta e quelle saltavano e si portavano le mani sotto le ascelle urlando.
La dottoressa senza camice aveva sbattuto le palpebre e senza alcuno stupore le aveva detto “no, lei non ammazzerà le sue bambine”. La donna aveva sentito un suono di metallo in fondo alla pancia, come un cucchiaino che cade su una piastrella.

La bambina aveva una memoria eccezionale, davvero. Fotografica, soprattutto. E poi coglieva tutti i dettagli, le scarpe, la borsa, il colore dell’auto. Ricordava tutto quello che le succedeva e anche quello che non le accadeva ma che la sfiorava. Iniziava a mettere da parte ricordi e insieme ai ricordi le emozioni collegate e più di altre il rancore. Oh, la bambina era una bambina rancorosa ma non lo poteva affermare con certezza. Non erano anni quelli in cui le emozioni andavano di moda tra i bambini. I bambini erano tutti felici, per definizione. Avevano l’acetone e le placche, facevano i capricci e bisognava ricordargli di non far fare brutte figure. Basta. La bambina no, non lo sapeva che quello era rancore. Lo sentiva, lo intuiva, lo ingoiava nonostante le placche e il dolore ma non lo poteva sapere. Pensava che ricordare fosse una qualità. Fosse utile. Se ti ricordi tutto allora puoi rispondere quando qualcuno non ricorda più. Invece, avevano iniziato a dirle che no, che era un difetto. Che non poteva rinfacciare. Ma non è rinfacciare, è ricordare, diceva lei. “No. Rinfacci. E vivi male, vedi, vivi male a ricordare anche le cose brutte. Lascia perdere, no? Vivi male.”
La bambina non era assolutamente d’accordo. Lei viveva bene ricordando. E poi mica puoi dire a qualcuno di dimenticare. Non è come buttare la carta del gelato nel bidone in fondo al marciapiede. No, la bambina sapeva che ricordare non poteva essere sbagliato. “Va bene, ricorda e vivi male. Ma non dirlo. Almeno non dirlo sempre tutto quello che ricordi, che vivi peggio. E la gente si offende.”
Ma se hanno detto o fatto una cosa che ora io ricordo come possono offendersi? Pensava la bambina che però era solo una bambina e con i bambini ci vuole pazienza. Che è come aspettare.

La donna aveva il terrore di perdere la memoria. Come sua nonna che se l’era divorata quella bestia di malattia di merda, sua nonna che non riconosceva più suo nonno, impossibile anche solo da pensare perché quei due a vederli da fuori chiunque pensava Dio, Dio, la corrispondenza è perfetta e invece lei un giorno lo aveva visto sulla porta della cucina e gli aveva detto che doveva andarsene, perché sarebbe rientrato suo marito che era geloso. La fine. Erano finiti i giorni buoni per sempre. La scorta del tempo a disposizione si era esaurita. La donna se li teneva stretti nel cuore quei due vecchi, più belli di come non fossero, impossibile, erano bellissimi, lei con gli occhi neri e lui con gli occhi verdi, lei con la pelle olivastra e lui bianco come il latte, lei sbadata, lui meticoloso, lei riccia, lui il suo capriccio. La donna aveva paura di dimenticare ogni cosa allora ricordava tutto. Ripassava il tema dell’aoristo, i paradigmi dei verbi latini più difficili, gli anni in cui erano state scattate le fotografie senza girarle per spiare e controllava solo alla fine e poi faceva il dito medio così, per aria, a nessuno, a se stessa, a quella bastarda malattia-fottiti– e scriveva come in preda al delirio, come se fosse l’ultima cosa da fare prima di andare. E c’erano gli altri, comunque. Sempre gli altri, i Tizio, gli stupidi, le mamme delle amiche delle figlie, era impossibile scrivere senza scrivere di qualcosa e di qualcuno e misurando sempre le parole e questo si e questo no e allora dico solo di me così nessuno si offende, così non cerco di convincere nessuno-maledetta sucata che infili citazioni sucate– ma anche così non andava bene, c’erano ricordi che non poteva mettere in piazza però poteva trasformarli in storie e le storie quelle si sa, basta scrivere che i riferimenti sono puramente casuali. Ecco. Avrebbe fatto così, pensava la donna.
Incontrò un uomo un giorno, uno che scriveva davvero, per vivere, lei scriveva perché era viva ed era diverso eppure non tanto quanto sembra e parlando allora aveva detto, lei, che si, aveva capito, per scrivere non bisognava avere paura del giudizio degli altri, non si poteva scrivere se si aveva timore di cosa avrebbe pensato chiunque, Caio, la moglie di Tizio, lo zio scemo, il compagno di banco, la lattaia ubriaca, i veneti.
“Per vivere.” Aveva detto lui, l’uomo.
“Cosa?”, non aveva capito la donna, ancora nel pieno delle sue spiegazioni.
“Per vivere non si deve avere quel timore, non per scrivere.”
“Non vedo la differenza.”
Aveva concluso la donna, unendo le mani, sotto il mento, con una corrispondenza perfetta.

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Cose che volevo dire da un po’

 

Sono tra due specchi a figura intera, quello dietro di me lo tengo a una certa distanza, volutamente, come il parrucchiere quando deve mostrarti il taglio scalato, per dare più volume. I difetti, da dietro, sono i peggiori e i pregi, da dietro, sono i migliori. È difficile intervenire, dietro. Anche un semplice prurito alla schiena non è che da solo lo risolvi facilmente, anche riconoscersi da dietro non è semplice. Ho un neo rotondo sulla spalla sinistra e una macchia di caffè sul braccio destro, due fossette al termine della schiena che se camminassi a testa in giù, poggiandomi sulle mani anziché sui piedi sarebbero precise e perfette le fossette per la mia faccia da culo. Altri elementi per riconoscermi, da dietro, non li ho. Si, c’è il taglio. Scalato, per dare più volume. Nello specchio davanti ci sono riflessa io girata di spalle rispetto allo specchio posteriore. Mi guardo guardarmi, a distanza. Volutamente.

Sono stata l’altra, l’amante, per tre anni. Non ne vado fiera, ovviamente. Non è quel tipo di situazione nella quale vorrei si trovassero le mie figlie però è una cosa della vita e le cose della vita ci riguardano tutti, se siamo vivi e viviamo. Ero molto giovane o comunque abbastanza giovane da potermelo permettere come investimento di tempo, non nutrivo alcuna speranza, lui non me ne aveva date perché era onesto. A questo punto, in genere, scoppia la risata oppure arriva lo sguardo incredulo: onesto uno così? Uno come lui? No, non uno come lui. Lui. Con me, onesto con me. Con lei mica erano affari miei.

Io di lei non sapevo niente e ho pensato di tutto. Inizialmente che fosse una donna molto impegnata e sicura di sé, poi che fosse scema, tanto. Perché io sarei venuta a cercarmi e a prendermi a calci nel culo, invece niente. Poi ho pensato che fosse disabile, per quello non veniva a cercarmi. Con la mia migliore amica facevamo ipotesi, io dicevo che era in sedia a rotelle, che non aveva le mani, le dita, i piedi, lei annuiva e diceva “no, Soniè, non penso. Semplicemente lui è un paraculo e lei non ha voglia di dover mandare per aria tutto. Se ti cerca e ti trova poi cosa fa? E non vuole. Soniè, non ha voglia di vedere.”

La mia migliore amica è sempre stata fighissima per quella cosa che fa di annuire e dirmi no contemporaneamente che solo per questo quanto bene le voglio.

Questa cosa delle mani e delle dita, degli arti assenti insomma, a me agita moltissimo. Quando ero incinta volevo, ad ogni visita, che il ginecologo contasse dieci sopra e dieci sotto, due mani e due piedi, lui mi parlava di vescica, reni, milza, tutto in sede io pensavo bla bla bla  e dicevo “si molto bene dottore ma lei mi conti le dita”- “ma non è un indice diagnostico” rispondeva lui- “senta, mi diagnostichi l’indice, il medio, il pollice e tutto il resto che lo so io”.

Ero molto giovane o comunque abbastanza giovane ma ero una ragazza che viveva da adulta. Lavoravo e studiavo, il mattino portavo mia sorella a scuola, andavo a riprenderla alle 13.30 per il pranzo e poi due volte a settimana aveva il rientro pomeridiano. Ritiravo la pagella del primo quadrimestre, la portavo a catechismo. Alle feste di compleanno, cercavo le vie, il civico, le davo il regalo impacchettato. A judo, poco, è durata poco. A danza, è durata poco anche quella ma un po’ di più. L’avevo portata io a fare il richiamo di non so quale vaccino e i miei genitori non mi avevano firmato alcuna delega, mi sono beccata il cazziatone dell’infermiera, non potevo anche se ero maggiorenne, ma insomma, ma in che mondo viviamo se un genitore nemmeno si presenta a far fare i vaccini ai propri figli? Senza delega firmata niente vaccino. Le avevo strappato quel cazzo di foglio dalla mano e con l’altra avevo preso la bambina, percorso il corridoio, spalancato il portone ed ero arrivata al parcheggio.

“Sai che facciamo? Facciamo così, che adesso io compilo questo modulo, lo firmo e torniamo su, se quella stronza ti chiede qualcosa tu rispondi che si, siamo tornate a casa e abbiamo fatto firmare a mamma il foglio, eh? Che dici? Facciamo proprio così, ecco, adesso io scrivo qui il nome di mamma, il mio nome e facciamo che mamma ha firmato“. Ero abituata a puntare dritta al risultato.

L’altra, cioè la moglie, io ero l’altra, non era disabile comunque. Era una donna adulta che viveva da ragazza, da quel che ho capito, poco, ma va bene così. Non mi sentivo in colpa, non c’era quella cosa della solidarietà femminile o almeno io non ce l’avevo e non penso di avercela nemmeno ora. Non divido gli stronzi in maschi e femmine, non mi aspetto una condotta perché appartenenti allo stesso genere, ero e sono una sostenitrice della responsabilità personale e del fatto che esistono i nomi per dire le cose e soprattutto per pensarle le cose e che se non hai quelle parole allora non puoi pensare quelle cose e allora non puoi dirle e se non puoi dirle il tuo livello di responsabilità è diverso e se è diverso, dal mio, allora non abbiamo niente da spartire, mi dispiace. No, non è vero, non mi dispiace.

“Ma tu staresti con uno come me?”

Mi aveva chiesto così, era l’estate del 2003, fine giugno, era nato l’ultimo dei miei cugini quel giorno, mi toccava la visita in ospedale e non me ne fregava niente, di un cugino che anagraficamente avrei potuto partorire e dei suoi genitori, del cameriere che portava a me un macchiato e a lui un caffè normale  che non c’era niente di normale a stare seduti lì al tavolino di quel bar alle cinque del pomeriggio e poi vedere la sua faccia cambiare espressione perché aveva intravisto sua cugina passare, “perché non puoi prendere un caffè con una cliente?” e avevo pensato perché abbiamo cugini, a cosa servono i cugini, quanti cazzo di cugini ci sono nel mondo e avevo canticchiato in testa la canzone quella di Claudio Bisio che fa quante cazzo di isolacce deve averci questa merda di una Grecia e questi pescatori greci…

“No, con uno come te mai. Ma con te si”.

Ci si confonde, a parlare intendo.  Si dice una cosa e si pensa che il significato sia chiaro invece no, bisogna intendersi sul significato. Faticoso. È per questo che sto smettendo di parlare sempre e con tutti o con molti o con abbastanza. Con tutti non ho mai parlato. Si dice zona di confort, resilienza e io me li vedo alcuni che sono andati un attimo prima su google a cercare e hanno letto ma non hanno capito. A me la resilienza fa schifo, chi dice resilienza mi annoia e chi vuole uscire dalla propria zona di confort ma poi non svuota il cestino della carta in ufficio o trema se gli chiedi un elenco dei clienti che segue per definire una strategia commerciale mi farebbe tenerezza se fossi incline alla tenerezza ma non lo sono. Quindi mi fa incazzare, perché sono incline alle incazzature.

Forte. Forte non è il contrario di sensibile. Non è che se mi dicono che io ero forte e l’altra, cioè la moglie, io ero l’altra, era sensibile funziona un qualche ragionamento perché manca proprio il ragionamento. Questa retorica della forza mi ha stufata. Tutta questa sensibilità che nell’allocazione delle risorse è stata destinata interamente a tutto il resto dell’umanità tranne che a me ha rotto le palle. Allora, io non sono forte. Non riesco ad aprire il barattolo nuovo della marmellata certe mattine, non sposto facilmente il divano per pulire. Io non mi lamento, è diverso. Io mi arrangio. Io resisto ma no, non sono forte. Io sono debole. Fragile. Insicura. Io detesto quelli che usano tre aggettivi di seguito perché mi sembrano “quelli del marketing” che non so, non so come facciano a rivendere le loro idee, comunque non sono debole, fragile e insicura. Sono debole. Fragile. Insicura. E la sensibilità altrui raccontata da narratori esterni mi fa alzare lo sguardo al cielo e cadere le braccia lungo i fianchi, proprio che le getto giù, quasi a terra e l’espressione sofferente del mio volto intende dire solo una cosa “eccccheeeeepalllleeeeeee”.  Più dei presunti sensibili odio i loro esegeti che pretendono da tutti la stessa cautela che adoperano nel parlarne, la stessa delicatezza. Perché i sensibili patiscono. Il tono di voce, sgarbato. Le parole, dure. Gli atteggiamenti, risoluti. Le richieste, pretese. Gli scherzi, di cattivo gusto. Le opinioni, giudicanti. L’ironia, fuori luogo. No, non sono sensibile, cioè se mi viene dato un pugno in faccia sento male, se muore qualcuno a cui voglio bene piango, da sola, in bagno o in auto o in ufficio o sotto la doccia che così si confonde, se sento un rumore improvviso mi spavento, se guardo un film violento chiudo gli occhi durante le scene maggiormente disturbanti. Ma questo mica fa di me una sensibile, una da raccontare come sensibile, dai.  Forte, forte suona meglio, suona antico, suona da sempre nella mia testa come un motivo maledetto, un jingle inventato da quelli del marketing non troppo bravi con le parole, forte suona e risuona bene ma senza dirlo troppo forte, che dà fastidio, poverini, ai sensibili.

Senza bile. Io sono senza bile. Non ho la colecisti, mi è rimasto il fegato a sputare fuori il liquido magico ma non posso abusarne perché manca il magazzino, non ho scorte, un po’ come quando compri sul venduto. Ho qui le cicatrici che me lo ricordano di fare attenzione, le vedo riflesse nello specchio, una in particolare, una x bianca appena sopra il fianco destro. Impercettibile, aveva detto il chirurgo. Che bella parola, gli avevo risposto. “Chi non lo sa nemmeno se ne accorgerà”. Vero. Ma chi non lo sa difficilmente mi vedrà l’addome nudo. Chi non lo sa non cercherà una cicatrice. Chi non lo sa non mi importa. Io la trovo subito, la vedo subito, come l’errore quando controllo un lavoro altrui, mi basta far cadere appena l’occhio ed eccolo lì. Pignola cagazzo, pensano. Lo so che lo pensano, lo penso anch’io quando controllo un mio lavoro e trovo l’errore subito. Come la parola che manca nel gioco delle parole intrecciate “ma come fai a vederla?”. La cerco. Si perde sensibilità sulle cicatrici, mi viene da sorridere. Sarà per quello. Però prudono, prudono come nessuna altra parte del corpo può prudere. Mi guardo, riflessa nello specchio anteriore e potrei disegnarmi ad occhi chiusi, lo scalino dei cesarei appena sopra il pube, le x bianche impercettibili sull’addome, l’ombelico triste che ha fatto il suo dovere e adesso nessuno se ne cura, le spalle larghe, tipiche delle donne forti, il seno di una vecchia adolescente, mai cresciuto per davvero. Le cosce allenate, faccio quella cosa di avvicinarle per vedere se c’è lo spazio, si, allora va bene, non sfregano. Mi guardo come davanti a una vetrina che non importa cosa è esposto ma come mi vedo. Il viso, le orecchie senza i nove orecchini collezionati da ragazzina e tenuti fino a pochi anni fa, fino al giorno in cui ne ho tolti sette, compreso il cerchiolino d’oro che mi faceva da piercing sulla cartilagine. Mia madre si innervosiva quando ero bambina e mi doveva legare i capelli, perché sono sottili e scappano dappertutto, mai una treccia ferma, mai una coda senza qualche crine sparato fuori, si arrabbiava proprio, perché non avevo preso i capelli da lei, ricci e voluminosi, no, io no, come mio padre, lisci, piatti, nemmeno i capelli da lei. Al culmine del nervoso mi dava delle sberle sulle orecchie, perché era impossibile. Ci rimediavo una coda di merda e le orecchie rosse per un po’, lì, sul padiglione dove anni dopo avrei messo il piercing. Non se n’è mai accorto nessuno di quell’orecchino fuori posto, non era esibito, chi non lo sapeva non lo cercava, non se lo aspettava nemmeno. Avevo rinunciato ai capelli lunghi e soprattutto alle code, prima un taglio fino alle spalle e poi via via sempre più corto. Spettinato. Scalato. Per dare volume. È venuto bene, alla fine, si vede, si vede bene. Nello specchio alle mie spalle.

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Lettera al mio psicanalista

Caro Dottor R.,

vorrei chiederle un modo non banale per iniziare una lettera. Che scema. Come se si potesse iniziare una lettera in modo non banale, come se avesse senso scrivere una lettera al proprio psicanalista dopo anni dalla fine della terapia.

Quanti?

Tanti, ma non li ho mai contati perché non mi sarebbe servito a sentirmi guarita. Non li ho mai contati perché, in realtà, non lo so. Non ricordo come fossi vestita il giorno del nostro ultimo incontro, se avevo il cappotto che appoggiavo sulla poltroncina prima di sdraiarmi sul lettino, allora era inverno. Forse non avevo le calze, allora era tra aprile e ottobre. So che eravamo commossi entrambi, lei aveva usato una mia frase per salutarmi, se la ricordava, mi aveva detto che ora toccava a lei guardarmi mentre staccavo le mani dal bordo e iniziavo a nuotare. Le avevo raccontato di Cri, quando aveva tre anni e in piscina l’avevano promossa dalla vaschetta alla prima corsia, il giovedì. Io restavo seduta in tribuna, restavo in maniche corte, mi sedevo centrale rispetto alla lunghezza della vasca e la guardavo fare lezione. C’è stato un giorno, è sempre un giorno che arriva così senza avvisare, che tutti dicono che le cose quando finiscono non avvisano che stanno finendo, io non lo so, a me tante volte avvisano. A me è quando arrivano le cose che mica mi avvisano e allora è facile che io sia impreparata, distratta magari. Quel giorno ero lì ed ero concentrata e lei ha staccato le mani dal bordo e via. Ha iniziato a nuotare. Dove non toccava. Da sola. O comunque senza di me che a tre anni significa da sola. Quando lei, Dottore, mi ha salutata così, dicendomi che adesso toccava a me staccare le mani dal bordo ho avuto paura. Una paura opposta a quella di quando abbiamo iniziato.

Il nostro primo incontro lo ricordo. Era in autunno. Per telefono mi aveva dato le indicazioni e aveva ripetuto due volte che se davanti alla sua porta c’era il segnale rosso non dovevo bussare ma attendere. Due volte. Mi ero irritata, profondamente. Non sono stupida, non c’era bisogno di ribadire, con me è buona la prima e per come sono io figuriamoci se busso con un segnale rosso. Io resterei ferma al rosso anche in mezzo al deserto. Ma lei non poteva saperlo. Avevo con me il foglietto della psichiatra con scritto cosa avevo, guai dirlo a voce alta, e che avevo rifiutato le pilloline perché allattavo- post partum lo si aggiunge per giustificare, quasi, per rendere più tollerabile la diagnosi. Era la mia lettera di presentazione insomma, quella che rigiravo tra le dita mentre salivo a piedi i due piani per arrivare al suo studio, in Asl, quella che ho infilato in borsa velocemente una volta arrivata davanti alla porta del reparto con il cartello “Centro di Salute Mentale”.

Sono salita ancora di un piano. Per la vergogna di oltrepassare quella scritta, non me lo aspettavo, non era meglio un Dottore con lo studio privato magari, con la segretaria e con le piante nella reception? Non potevo entrare e se qualcuno mi avesse vista- chi? – chiunque.  Ma l’incapacità di arrivare tardi ad un appuntamento è stata più forte della vergogna. Sono tornata al piano corretto, ho indossato gli occhiali da sole, ho aspettato che non passasse nessuno e comunque poteva sembrare che andassi via non che arrivassi e sono entrata.

Ho finto di essere lì per caso per molti mesi, come se quel posto non mi riguardasse e fossi lì per accompagnare qualcuno e in un certo senso è stato così. Venivo in metropolitana, troppo caotico il centro, la vicinanza con la stazione di Porta Nuova rendeva impossibile trovare parcheggio, camminavo pesante all’andata- se la prossima auto che passa ha una targa pari allora morirò– devastata al ritorno – io urlo, urlo forte ma urlo sott’acqua e mi bruciano i polmoni.  Non mi piaceva venire da lei, non c’è stato un solo venerdì nel quale io sia stata felice di entrare o sollevata uscendo. Anzi. Ogni volta pensavo che sarebbe stata l’ultima. Mentre passavo davanti alle vetrine chiuse per la pausa pranzo pensavo a come dirle basta, a come lasciarla che non  sembrasse che stavo rinunciando ma nemmeno che non mi trovassi bene con lei, insomma che non fosse colpa di nessuno dei due e non trovavo mai la formula giusta, la frase, il momento, poi arrivavo, salivo, entravo, semaforo rosso, sedie in corridoio, la coda dei matti fuori dalla stanza accanto alla sua, quelli che venivano a prendere le medicine, tutti in fila con i loro versi, con i loro pianti, con le risate inopportune, le frasi oscene, la bava schiumosa agli angoli della bocca, con gli elastici colorati e gli anelli di plastica, con lo smalto rosa  da bambina su unghie attaccate a mani di un corpo vecchio e flaccido, con i sacchetti del Pam e dentro le analisi, le ricette, le impegnative, le esenzioni dal ticket. I matti, Dottor R., i matti veri. Mica quelli come me, con la borsa elegante, con la taglia 38 dopo due gravidanze, con le unghie pulite e il mascara senza nichel. I matti, quelli veri. Quanto li ho invidiati in quel corridoio, i matti, che possono dire quello che vogliono, Dottore. Che possono piangere e chiederti “che cazzo hai da guardare” contemporaneamente, i matti che fanno paura anche se non li conosci, i matti. I matti la formula, la frase giusta la trovano sempre.

Questa cosa della paura opposta, poi, andrebbe capita meglio. Perché ho una paura e il suo opposto? Come in questo periodo, per esempio. Ho paura, come tanti, ho paura per il lavoro, che i clienti chiudano, non paghino e poi ho paura che ci dicano ok, da domani ricomincia tutto. Scuola, sport, impegni, agenda della settimana. E ho paura di dire che a me, in realtà, sta bene così, ancora un po’ se possibile. Che no, non c’è nessuno che mi importi vedere fuori di qui. Che no, non mi interessa andare in ufficio. A scuola dalle ragazze. Lo so, lo so che c’è chi non riesce a stare in casa, che c’è chi non ha entrate e non sa se ne avrà, che c’è chi sta lavorando su di sé e chi invece sta solo rompendo le palle a tutti gli altri. Non lo dico, Dottore, che ho paura che finisca questa quarantena, questo tempo in cantilena, i miei cani sdraiati ai miei piedi, le mie figlie in giardino, non lo dico perché mi sento in colpa a stare bene da sola, a non volere altro che non sia qui, a portata di mano, la mia mano con le unghie pulite.

Si ricorda come è nato il mio senso di colpa?

La leggenda narra che una volta dimessa dall’ospedale dove sono nata, all’età di cinque giorni mia nonna materna nel cambiarmi le fasce ciripà si accorse di un graffio che mi attraversava la nuca. Qualche buttana infermiera non si era tagliata le unghie, decretò.

Magari se l’è fatto da sola. I neonati hanno lamette al posto delle unghie. Quell’idea entrò dal graffio e venne trasportata fino al mio cervello, come una lettera di presentazione. Penso sia andata più o meno così. Magari è colpa mia. Tutto.

Nel mezzo di una pandemia io mi sento in colpa se sto bene, se vivo in campagna e le mie figlie hanno la possibilità di uscire senza uscire. Nella normalità se troviamo posto in un ristorante senza aver prenotato ed era l’ultimo tavolo e subito dopo si crea la coda -c’è da aspettare almeno mezz’ora- ed è ovvio che non devo essere io a lasciare il posto eppure mi sento così, che è colpa mia se qualcuno aspetta. Io mi sento in colpa se Pepe vuole fare la ricerca di informatica con suo padre che è un informatico e prende un voto del cazzo perché- dice lui- questa roba comunque non c’entra niente con l’informatica e le lezioni però sono online perché c’è la pandemia e cosa stai a spiegare al maestro e poi comunque no, non c’entra un cazzo con l’informatica ma pure tu però, lei ci teneva a farla con te, altrimenti avrei fatto io come tutto il resto, che tu cosa ne sai delle guerre puniche, di Cartagine, che ne sai dei verbi servili o della forma riflessiva.

Però, Dottore, non mi sento, più, in colpa per tutto.  Per tutti.

È successo a un certo punto, quasi tre anni fa ormai. Le mie figlie mi hanno soprannominata mamma orsa in quel periodo. Lei sa perché si dice mamma orsa e non papà orso? Se fossi sdraiata sul suo lettino, con la sua voce alle spalle- che espressioni assume, Dottore? Dalla voce si capiva ma non l’ho mai saputo davvero, l’ho annoiata Dottore? Si è distratto mentre parlavo? Ha guardato l’ora? – con il quadro astratto davanti- ce l’ha ancora Dottore? Erano linee rette e spezzate, curve e semicurve- lo sa che ieri ho studiato la differenza tra poliedri e solidi di rotazione? E ho detto a Pepe perché mai uno dovrebbe far ruotare un rettangolo o un triangolo? Adesso guardo un quadro dove ci sono io, Dottore, solo che nessuno lo sa che sono io, lo so solo io, come sempre, come per tutto, e in questo quadro io non so se vado o se vengo e mi piace per questo, posso decidere se andare o tornare, invece lui, lui che l’ha dipinto è il solo che lo sa se vado o torno ma non me lo dice- se fossi sdraiata sul suo lettino e non sul mio divano le chiederei se lei lo sa perché si dice di non toccare i cuccioli alla mamma e mai al papà.  O se ha mai pensato che i papà possono prendere le pilloline perché non allattano. Lei sa perché si dice mammiferi e non papiferi? Lei sa che un papà può indossare la stessa taglia senza che nessuno si stupisca? Poi le racconterei di quando tre anni fa un orrendo butterato e una culona senza qualità hanno strumentalizzato mia figlia servendosi di pietre aguzze come gli uomini primitivi prima della scoperta del fuoco. Ma non tanto l’episodio in sé che è una storia noiosa di gente stupida quanto quello che ne è derivato. L’intensità che ne è scaturita. Il numero di pixel con il quale sono arrivata a vedere la realtà. I pensieri nuovi che ho inaugurato.  Le parole, Dottore, le parole che ne sono arrivate– che cazzo avete da guardare?

Comunque, continuo ad accendere le luci del terrazzo. Ogni sera. In tutti questi anni, che non ho contato, penso di non averlo fatto meno di dieci volte, molte di queste durante il periodo di mamma orsa. Quando era meglio così, spegnere, trattenere, chiudere, contenere. Si ricorda, Dottore, quella cosa che mi ha spiegato che fanno le madri, contengono, ci abbracciano e ci fanno sentire fin dove arriviamo, ci fanno sentire chi siamo e arginano, limitano e sono le prime a spezzarsi, come le rette, Dottore, le madri. Se non ci abbracciano non sappiamo chi siamo, le madri.

Lui arriva la sera e trova le luci del terrazzo accese. Lei mi aveva detto che avrei messo in discussione tutto durante la terapia, intendendo tutto quando diceva tutto. Me stessa, troppo facile, mia madre soprattutto e per prima e fino all’ultimo, mio padre, la mia forma, la mia storia per come l’avevo sentita fino ad allora, per come la raccontavo. Gli uomini che avevo amato. Gli uomini che mi avevano amata. Quelli che solo un po’. Quelli che qualcosa di simile. Quelli che non è amore però mi piaci. Quelli che almeno toccami. Quelli che basta. Quelli che ti prego. Lui. Lui che avrebbe preferito sapere che avevo un tumore, in quel momento. La rimozione sarebbe stata chirurgica. In un certo senso è stato così. La cura sarebbe stata lunga e avrebbe prodotto segni visibili sul mio corpo. In un certo senso è stato così. La guarigione sarebbe stata dichiarata con la remissione, dopo il periodo di recidiva. Non può essere così.

Durante un litigio lui aveva detto che sapeva cosa aspettarsi la sera quando rientrava a seconda delle luci del terrazzo. Se le trovava accese allora io avevo avuto una buona giornata. Se erano spente allora tratteneva il respiro un attimo prima di scendere dall’auto ed entrare. Si ricorda Dottore? Glielo avevo raccontato. Piangevo senza singhiozzare, piangevo come si suda, senza volontà. Lui mi conosceva bene, profondamente. Mi aveva detto così, che lui mi osservava, lui stava attento a quello che facevo, lui guardava come mi comportavo. Lui era interessato a me. A quello che io sentivo.

Ogni sera accendo le luci del terrazzo e so perfettamente cosa sto facendo mentre schiaccio l’interruttore, so profondamente il senso di quello che faccio. Lo so davvero. Ci siamo sposati, lo so che dicevo di no, Dottore. Invece si. Un venerdì mattina, alle dieci. In municipio, non abbiamo neanche una foto decente perché avevamo dato la macchina fotografica a un idiota che le ha sbagliate tutte. Sappiamo di esserci sposati, avevo un abito color oro e un mazzo di tulipani, li ha scelti Cri, sappiamo di esserci sposati, Dottore ma non abbiamo nulla che lo ricordi. La data l’abbiamo scelta chiedendo a un nostro amico numerologo, ci ha detto quali numeri assolutamente no e quali si, abbiamo trovato quelli si e prenotato la sala del Comune.

Lei lo sa perché si dice scelte calcolate, Dottore?

Dopo la fine della terapia ho provato a dare un esame, una roba importante, mesi di studio matto e disperato come piace a me. Mica per lavoro, figuriamoci. Non mi vestirei mai come quelli che esercitano quella professione e non farei il bagno in quel profumo nauseante, tutti uguali. No, Dottore, non parlo di prostitute. Però sembra, è vero. Ma per quello non c’è un esame di abilitazione o se c’è non ne ho informazione. L’ho fatto perché ne avevo paura. Era il mio bungee jumping, volevo la maglietta con la scritta i did it. L’ho fatto perché mi hanno operata d’urgenza e ho pensato che potevo morire e non volevo morire senza averci provato. L’ho fatto perché non studiavo più da un pezzo, perché ho bisogno di sentire il cervello che lavora, che fatica, perché era un tassello da infilare, una figurina che mancava per finire l’album e conservarlo per poi buttarlo al primo trasloco. L’ho fatto perché non pensavo di passare gli scritti e quando me l’hanno detto ho pensato cazzo cazzo cazzo cazzo e l’ho detto a mio nonno, l’ho chiamato che era in azienda per dirglielo e alla sua segretaria ho detto passamelo, passamelo per favore e dopo quindici giorni gliel’ho ripetuto, sussurrandolo appena, nella terapia intensiva dove stava morendo e non so se mi ha riconosciuta tutta bardata come questi che si vedono in televisione adesso, Dottore. Che strazio il rumore di quel reparto, Dottore. Lo penso ogni sera, tolgo l’audio al telegiornale e guardo le immagini e poi guardo il quadro e non so se vado o se torno. Ma forse torno.

Perché si dice di uno che muore che è mancato?

Io non lo trovo giusto, Dottore. Uso il verbo morire quando uno muore e anche quando spoilero a qualche deficiente quel che sarà. Se dico muori non sto augurando mica la morte, sto rivelando una cosa che accadrà. Nonostante questa considerazione, Dottore, pare che non stia bene dire “muori”. Eppure, la gente muore. La luce manca. Il respiro manca. Il sale manca. La gente prima muore, solo dopo, forse, solo alcuni mancano. Nel dopo. Bisognerebbe dire “è morto Tizio mancherà all’affetto dei suoi cari ogni volta che…”.  Lei cosa ne pensa? Non me lo direbbe, comunque. Lo so. Però ci pensi, adesso che gliel’ho detto. O lo chieda a qualcuno che sa se è giusto oppure no. Ai matti, Dottore, lo chieda ai matti.

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