Accade, a me accade, di essere seduta su uno scoglio piatto e di lanciare pietre in mare. Sassolini, grigi, ovali, tondeggianti, striati di bianco, neri lucidi o opachi, mai più grossi del mio palmo. Io ho le mani piccole. Normali.
Lancio e guardo il sasso cadere, non cerco di farli rimbalzare, credo ci sia un nome, fisico, per il fenomeno dei cerchiolini, lo ignoro. Io lancio pietre per vederle andare giù.
Accade, a me accade, di lanciare pietre per fare buchi. Nell’acqua. Sulla pelle di chi fa il bagno proprio lì sotto. Io controllo, comunque, in genere. Io sto attenta ma accade, a me accade, che qualcuno spunti dall’acqua e mi dica che l’ho colpito. E rispondo che c’è tutto il mare a disposizione, perché venire proprio sotto la mia linea di tiro? Rispondo così, in genere.
Lancio pietre solo per farlo, mica per altro. Lancio pietre per pensare senza che sembri solo quello, proprio quello.
Accade, a me accade, di lanciare pietre senza essere seduta su uno scoglio piatto e senza avere il mare appena sotto i piedi. Eppure le lancio. Lo faccio quando sono sola ecco perché io ho bisogno della mia solitudine più di altri o in modo diverso da altri, no, più. Più di altri. Io non conosco un’altra persona che abbia il mio bisogno di solitudine, che abbia la mia voglia di solitudine, il mio amore per la solitudine. Non conosco un’altra persona a cui dia così fastidio quando arriva qualcuno a dire la sua, a parlare, a interrompere un pensiero, un lancio, un momento solitario.
In questo periodo non sono sola mai. Lavoro da casa, male, le ragazze sono sempre con me. Sono distratta, non organizzata, in balia delle cose più urgenti e tralascio tutto il resto. Non mi piace. Ho trovato almeno quattro errori nell’ultima settimana, miei, tutti miei. Niente di imputabile a un sistema che non ha funzionato, solo a me e alla mia mancanza di solitudine che mi fa sbagliare. Non conosco un’altra persona a cui dia così fastidio commettere errori. Però, non conosco un’altra persona così tranquilla, ormai, da dirlo. Sento molti, troppi, in questo giorni ripetere che andrà tutto bene e che quando tutto questo sarà finito faranno, diranno, andranno. Io non so come andrà.
Io andrò a sedermi sullo scoglio. E sarà come in un sogno, però, come quando racconti “ero a casa di mia nonna che non era proprio casa di mia nonna e c’erano i miei cani che non erano proprio i miei cani”, così. Il mio scoglio sarà in una stanza chiusa, con una finestra con il davanzale di marmo e gli infissi verdi un po’ scrostati. Senza termosifone sotto la finestra. Qualche spiffero, si, ma sarà primavera e non mi darà fastidio.
Starò seduta, comoda, su una poltrona rossa, con i braccioli larghi, avrò i piedi sotto il culo e le ginocchia messe di sbieco. Si, così per me è comodo.
Lancerò pietre.
Aspetterò.
Ho bisogno di stare seduta, così, ad aspettare che succeda qualcosa, ma non qualcosa così, una cosa purché sia, no. Non so cosa ma lo saprò quando succederà e per farlo succedere io devo aspettare. Che loro due entrino in scena, perché adesso, in questo periodo, negli ultimi giorni, sono lontani, ne ho quasi perso traccia, li cerco ogni tanto, mentre lavoro, male, e mi distraggo, magari arrivano e io non posso, gli dico che devono aspettare. Oppure la sera, in doccia, e mi sembra quello il momento in cui sono più vicini, a me e tra di loro.
Loro si chiamano Stefano e Nina e hanno una storia. Come ciascuno di noi, certo. Solo che la loro storia la sto scrivendo io, quando sono sola, quando lancio pietre in mare e qualcuno mi rompe le palle con cose che non c’entrano invece di allontanarsi per non farsi male.
Aspetterò che Stefano e Nina facciano qualcosa, ma non qualcosa così, devono fare quella cosa lì, solo quella, quella che devo riconoscere e fermare, intercettare, afferrare. Hanno un nome, altre storie che ho raccontato non lo prevedevano, me ne sono resa conto solo ora, invece loro hanno un nome.
Stefano.
Stefano è il nome del mio primo amore, anche se lo chiamavo Voga, lui si chiama Stefano. Si era fatto tatuare il nome, sulla caviglia, in giapponese. Diceva lui. Io gli avevo suggerito che potevano anche averlo preso per il culo, “magari ti ha scritto sono un pirla”. Si era offeso o qualcosa di simile, nessuno gli aveva ancora prospettato questa possibilità, chi lo farebbe? Io.
Parlando di me diceva “la Sonia”, da milanese dell’hinterland, quelli che son tutti di Milano e poi sono di Cinisello. E poi diceva “la una”, così, “è la una andiamo a pranzo?”, aveva la voce roca e pizzicava la erre. Una volta, una delle ultime in cui ci siamo visti mi ha detto che poteva arrivare da me solo alla una, ma era l’una di notte e io lo avevo aspettato e lui era venuto davvero.
Stefano è stato l’unità di misura dei miei innamoramenti successivi per molto tempo. Quanti Stefani? Qualcuno mezzo. Il massimo è stato due, ma era un calcolo falsato, come la temperatura misurata sotto l’ascella quando il termometro è guasto. Per capire la temperatura vera devi mettere il termometro nel sedere, dice il pediatra. Che è un po’ come dire che devi prenderla nel culo per sapere come stai. Finché il punto è stato di sapere, capire, misurare, quanto amavo, Stefano e quell’arrivare da me alla una di notte è stato l’unità di misura.
Poi il punto è stato come amavo. Non quanto.
Il primo nome a cui ho pensato è stato, comunque, ancora il suo. Il primo personaggio a cui dare un nome l’ho chiamato così o forse si è presentato così, lui. È arrivato e aveva quel nome, mica puoi cambiarglielo. Stefano non è milanese, non ha tatuaggi soprattutto non si tatuerebbe mai qualcosa in giapponese per il timore di essere preso in giro, a lui non piace non sapere quello che lo riguarda, indossa maglioncini con la camicia sotto, la camicia ha le iniziali ricamate. Nella sua vita le cose importanti, quelle importanti per ogni uomo insomma , che sono sempre le stesse, sono arrivate all’improvviso. Anche Nina. Soprattutto Nina. È stata la voce di Nina, è stato quella sensazione data dalla sua voce, una moneta incastrata nel doppio fondo della tasca del cappotto quando c’è un buco nella stoffa e lei scivola giù. Sai che c’è ma non puoi prenderla. La senti ma è irrecuperabile.
Nina è arrivata, sotto braccio a lui, con un incedere dal sapore un po’ antico, come una zuppiera di ceramica, superstite di un servizio regalo di nozze, sopravvissuta a traslochi e passaggi di mano in mano fino al suo posto su una credenza in legno, al centro, che si veda. È blu, il decoro della ceramica, almeno così dice Nina, ma non ricorda bene, perché questo è il punto. Questo è il problema. Nina si chiama così, due sillabe, un diminutivo di quale nome non si sa, quello di sua nonna, due sillabe e niente più, me lo ha detto lei. Niente più.

Nina sa tante cose, tante davvero non solo come chi ha studiato molto ma come chi ha osservato sempre e ha sempre cercato la verità delle cose senza mai opporre resistenza a quelle stesse cose. Nina ama, ha amato, Stefano come nessun altro al mondo e questo lui lo sa e lo sa dal primo momento, per quello stava scappando, all’inizio, perché come poteva reggere quel peso anche se non lo portava lui? Invece era rimasto. Sorride, lei, mentre lo racconta. Lei ha preso questa abitudine, adesso, da quando sa del problema che in fondo lei se lo aspettava da sempre, è una questione ereditaria, anche quel modo di amare e un problema ereditario, come certi nomi. Lei racconta e lascia detto e si perde nei particolari finché riesce a venirne fuori da sola, a volte non riesce più, di già, allora lui le suggerisce la parola, inizialmente hanno cambiato la grammatica per non ferirsi e poi hanno deciso che no, loro non sono così, non girano intorno alle parole scegliendo cosa non dire più. I ricordi si chiamano ricordi e se non c’è più quella parola a disposizione allora ci va qualcuno che li conservi. Lo farà lui.
Su questo sono entrambi d’accordo.
Invece è rimasto, si, ecco. Questo stava dicendo. È rimasto mettendoci un po’, comunque, come tutte le cose importanti nella vita, di Nina, importanti per lei e che sono importanti nella vita di ogni donna. O forse no.
Stefano è rimasto e questa è una storia lunga una vita intera eppure appena cominciata, una storia nella quale nessuno dei due alla fine avrà più a che fare con se stesso. Nessuno dei tre.
Io sono seduta, li osservo. Li ascolto. Aspetto che facciano quella cosa, solo quella. L’azione che manca. E poi saranno pronti, saremo pronti.
Aspetto la mia solitudine e che le parole cambino il senso che hanno sempre avuto, osservo Nina mentre le sente allontanarsi e soffre, senza che nessuno-lui-possa fare qualcosa davvero,  le vede che si staccano quelle parole così familiari, vanno via come la pelle dopo una scottatura, lui passa il palmo delicato sulle spalle bruciate di lei , gli restano pezzi di pelle, quella di lei, la sua, non le distingue più, questo succede adesso e non è mai solo pelle, sono i figli, i loro, sono le risate il mattino nel letto prima che la giornata inizi per tutti tranne che per loro, sono gli oggetti della loro casa che perdono di senso se spostati, le lacrime per quel litigio, quale, quello, ah si, il vapore sulle pareti della doccia, il punto interrogativo che lei tratteggiava prima di uscire e asciugarsi e che restava lì, dietro le sue spalle, come tutto ormai, la paura di restare senza l’altro, quel frugare in tasca per sentire la moneta, nel buco.
E trovarci un sasso. Accade.

 

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